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mercoledì 20 aprile 2022

Il campo di Fossoli via via per prigionieri di guerra, deportati ebrei e politici, orfani di Nomadelfia, profughi giuliano-dalmati

Fig. 50 - Il campo vecchio di Fossoli in costruzione, giugno 1942 (Archivio Storico di Nomadelfia). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra

Fig. 51 - Il campo nuovo attendato, campo per prigionieri di guerra, 1943 (Archivio storico di Nomadelfia). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra

Situato in una piccola località nei dintorni di Carpi (MO), il campo di Fossoli <1 fu in funzione a partire da luglio 1942 come campo per prigionieri di guerra (PG n. 73) <2, fino alla notte tra l'8 e il 9 settembre 1943, quando le truppe tedesche lo circondarono e ne iniziarono lo sgombero deportando i detenuti in Germania (fig. 50, fig. 51). A seguito dell'ordine di polizia n. 5 del 30 novembre 1943, la persecuzione degli ebrei in Italia entrò in una nuova fase di radicalizzazione nell’ambito della Repubblica sociale italiana e dell’occupazione tedesca, prevedendo l’arresto e l’invio dei prigionieri ebrei in un “campo di concentramento provinciale, in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati” <3. Questi luoghi avrebbero costituito la prima tappa verso la “Soluzione finale”, che si sarebbe compiuta per mano tedesca in Europa orientale.
Il campo di Fossoli venne scelto probabilmente in virtù della sua posizione isolata e facilmente controllabile, nonché per la sua vicinanza con la linea ferroviaria che congiungeva l'Italia al nord Europa. Oltre agli ebrei internati tra dicembre 1943 e luglio 1944, vi furono anche altre categorie di detenuti, tra cui “prigionieri di guerra sotto l'amministrazione italiana (luglio 1942-settembre 1943), civili arrestati perché accusati di attività sovversiva (fine febbraio 1944-21 luglio 1944), internati civili trasferiti da altri campi di internamento smantellati (2 marzo 1944-giugno 1944), rastrellati, ostaggi e persone sospette al regime” <4.
Gli episodi di violenza sui prigionieri furono rari, ma egualmente impressionanti, come l’uccisione di Pacifico Di Castro, prigioniero ebreo, il 1 maggio 1944 per mano dell’ufficiale Otto Rieckhoff, infastidito dal fatto che il ragazzo non avesse capito l’ordine impartito <5. Seguì l’assassinio di Leopoldo Gasparotto, tenente d’artiglieria alpina ed esponente di spicco del Partito d’Azione, che fu prelevato dal campo e ucciso il 22 giugno 1944 da un commando tedesco proveniente dall’ufficio IVB4 di Verona. Poche settimane dopo, si verificò l’episodio di sangue più grave avvenuto a Fossoli: il 12 luglio 1944 vennero fucilati 67 detenuti al vicino poligono di tiro di Cibeno <6. Nel luogo della strage è stata apposta una targa commemorativa nel 1946, e i nomi delle vittime dell’eccidio compaiono oggi nella Sala dei Nomi del Museo Monumento al Deportato Politico e Razziale di Carpi, inaugurato nel 1973 <7. Nonostante ciò, la memoria dell’eccidio è stata a lungo caratterizzata da omissioni e narrazioni particolarmente retoriche; soltanto in tempi recenti si è arrivati ad esempio a conoscere l’identità delle vittime, chiamate a lungo indistintamente “Martiri” <8.
Nonostante questi episodi estremi, la rigida disciplina a cui i detenuti venivano sottoposti non era paragonabile ai metodi brutali che vigevano nei campi di concentramento del nord Europa. Stando ai ricordi di Ludovico Barbiano di Belgiojoso, internato a Fossoli nell’aprile del 1944, la vita nel campo di Fossoli si svolgeva secondo ritmi regolari e i prigionieri cui erano attribuiti incarichi precisi lavoravano aiutati dalla manovalanza, che veniva scelta a turno tra i detenuti. Le mansioni riguardavano il lavoro d’ufficio, la pulizia dei locali, la manutenzione delle baracche e delle strade, le nuove costruzioni, i lavoro in laboratorio e in officina, la cucina, l’orto e i campi <9.
Tuttavia, dopo qualche mese di detenzione a Fossoli, quello che a molti era parso all’inizio un soggiorno migliore rispetto a quello nel carcere San Vittore, il campo svelava la sua vera atmosfera: "Comincio già a comprendere quali sono le vere torture di un campo di concentramento come questo. La prima è quella di non poter essere mai soli, dico, mai, neanche quando si va a dormire, neanche se si è in certi posti... qui si è sempre di pubblico dominio. La seconda tortura è meno individuabile della prima, ma è più grave, anzi è senza dubbio la peggiore. È uno stato d’animo sofferente, frutto attossicato di un complesso di disagi interiori che si sviluppano ogni giorno di più in qualunque internato il quale abbia un minimo di sensibilità. Forse questa tortura, tutta interiore e complessa, si potrebbe definire in senso largo con una parola che affiora molto spesso sulle labbra di molti: noia". <10
Dietro la noia, il terrore e l’angoscia restavano, non solo rispetto al timore di violenze fisiche, ma soprattutto all’ignota destinazione verso la quale partivano i convogli carichi di persone. Le deportazioni, dirette dall’ufficio IVB4 di Verona sotto l'autorità del SS-Sturmbannführer Friedrich Bosshammer (sebbene il campo fosse gestito da autorità e militi italiani fino al marzo 1944), iniziarono infatti il 26 gennaio 1944 e si protrassero fino al 1 agosto 1944, periodo durante il quale vennero trasferiti con 12 convogli - in collaborazione tra tedeschi e italiani - 2.801 ebrei verso i lager di Auschwitz, Bergen Belsen, Ravensbrück e Buchenwald.
Primo Levi in una celebre pagina di "Se questo è un uomo" ricorda l'inizio del viaggio del convoglio che il 22 febbraio 1944 lasciava Fossoli in direzione di Auschwitz: "L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia". <11
A seguito dell'avanzata degli alleati, lo sgombero del campo da parte tedesca iniziò il 21 luglio e si concluse il 5 agosto 1944, con il trasferimento dei prigionieri nel campo di polizia e di transito di Bolzano-Gries <12.
Ma la lunga storia del campo di Fossoli non finì con l'abbandono da parte delle autorità tedesche: come ricorda Costantino di Sante, “la struttura rimase sotto la giurisdizione del comando della 5° Armata: parte di essa fu utilizzata dagli Alleati per recludervi prigionieri tedeschi e collaborazionisti della RSI, catturati durante l'avanzata verso nord” <13.
In seguito, il campo divenne centro di raccolta per profughi stranieri e “indesiderabili” tra il 1945 e il 1947 <14 (fig. 52), quindi sede della comunità di Nomadelfia e successivamente Villaggio San Marco per l'accoglienza dei profughi giuliano-dalmati.
Fu proprio con la nascita di Nomadelfia, “la città dove la fraternità è legge”, una comunità di ispirazione cattolica religiosa sorta con lo scopo di dare accoglienza agli orfani di guerra, che l’ex campo di concentramento iniziò il suo percorso di rinascita. Un architetto, l’ex soldato tedesco Sigmund Erlinger, sposato ad una donna italiana e rimasto nei pressi di Carpi dopo il conflitto, ottenne l’incarico di intervenire sulle baracche per trasformarle in appartamenti che avrebbero accolto famiglie intere, orfani e mamme “per vocazione” <15, tentando di modificare il volto tetro del campo in quello sereno e prospero di una cittadina <16 (fig. 53). L’arrivo a Fossoli di Don Zeno Saltini e degli orfani dell’Opera dei Piccoli Apostoli (OPA) <17, ancor prima dell’autorizzazione ufficiale, rappresentò un nuovo inizio per l'ex campo di transito e concentramento: nelle fotografie dell’epoca, conservate presso l’Archivio Storico di Nomadelfia, situato oggi nell’omonima località nelle vicinanze di Grosseto, si vedono bambini di tutte le età intenti ad abbattere il muro di cinta che circondava il campo alla fine degli anni Quaranta, a ritinteggiare le pareti, a “trasformare il luogo dell’odio nel luogo della fraternità” <18 (fig. 54).
Il progetto naufragò tuttavia nel 1952, a causa dei debiti contratti dalla comunità e del venir meno del sostegno da parte delle autorità ecclesiastiche e statali, poco in armonia con l’esperimento sociale utopico e autonomista di Don Zeno. Gran parte degli orfani vennero allora destinati a collegi e orfanotrofi e il resto della comunità si ritirò nella tenuta dell’OPA nei pressi di Grosseto, dove venne fondata e ha sede ancora oggi una nuova Nomadelfia <19.
Ma il campo non restò inutilizzato per molto tempo: da giugno 1954 esso divenne infatti il “Villaggio San Marco”, un centro di accoglienza per i profughi giuliano-dalmati che già dal ’47 arrivarono copiosamente a Carpi (fig. 55) <20.
Il campo venne così riadattato per accogliere le famiglie in maggioranza provenienti dalla zona B dell’Istria, ad esempio furono risistemate le strade interne, così come l’interno delle baracche, suddivise in appartamenti, e vi furono collocate delle stufe a legna per il riscaldamento. <21 La chiesetta del campo, costruita all’epoca in cui le baracche erano abitate dalla comunità di Nomadelfia, fu elevata a rango di parrocchia, e nel settembre 1955 ci fu inoltre l’apertura di una scuola elementare <22. Poiché i costi del Villaggio divennero presto insostenibili, la stessa Opera per l’assistenza ai profughi giuliano-dalmati incentivò le famiglie a traslocare nei nuovi appartamenti costruiti beneficiando dei finanziamenti statali <23. Le ultime famiglie abbandonarono il Villaggio San Marco il 7 marzo 1970: il trasloco non era ancora finito quando le case dei profughi, una volta baracche dei detenuti del campo di Fossoli, furono depredate dei pochi oggetti rimasti, tra cui porte, finestre, ma anche gabinetti e stufe <24.
 

Fig. 52 - Un momento della vita nel Centro di raccolta per profughi stranieri e indesiderabili, 1945 (Archivio storico di Nomadelfia). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra

Fig. 53 - Il progetto di trasformazione dell’ex campo di Fossoli in Nomadelfia (Archivio storico di Nomadelfia). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra

[NOTE]
1 Cfr. E. Collotti, Introduzione a G. Leoni (a cura di), Trentacinque progetti per Fossoli, Electa, Milano, 1990, p. 15.
2 L. Picciotto, L'alba ci colse come un tradimento, cit., p. 35. Per una visione d'insieme della storia del campo, si veda A. M. Ori, Il campo di Fossoli. Da campo di prigionia e deportazione a luogo di memoria 1942-2004, Edizioni APM, Carpi, 2004.
3 L. Picciotto, L'alba ci colse come un tradimento, cit., p. 28. La procedura veniva applicata anche nei confronti dei cosiddetti ebrei “discriminati”, cioè quelli che erano parzialmente esentati dalle misure persecutorie per meriti patriottici, ecc.
4 Cfr. ivi, p. 35. Si veda anche G. D’Amico, Sulla strada per il Reich, Fossoli, marzo-luglio 1944, Mursia, Milano, 2015, pp. 43-71.
5 L. Picciotto, L'alba ci colse come un tradimento, cit., p. 88-89.
6 Sulla strage del 12 luglio 1944 si veda P. Paoletti, La strage di Fossoli. 12 luglio 1944, Mursia, Milano, 2004 e A. M. Ori, C. Bianchi Iacono, M. Montanari, Uomini nomi memoria. Fossoli 12 luglio 1944, Fondazione ex Campo Fossoli, Carpi, 2004.
7 A. M. Ori, C. Bianchi Iacono, M. Montanari, Uomini nomi memoria, cit., p. 151. Sulla stampa locale, L’inaugurazione di una lapide in ricordo dei Caduti, “Nuova Gazzetta di Modena”, 13 luglio 1946.
8 P. Paoletti, La strage, cit.,p. 6.
9 Cfr. L. B. di Belgiojoso, Notte, nebbia. Racconto di Gusen, Guanda, Parma, 1996, p. 13-14.
10 Cfr. P. Liggeri, Triangolo Rosso: dalle carceri di San Vittore ai campi di concentramento e di eliminazione di Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen, Dachau marzo 1944-maggio 1945, La Casa, Milano, 1946, p. 93.
11 Cfr. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989, p. 7.
12 L. Picciotto, L'alba ci colse, cit., p. 62-63.
13 Cfr. C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il Campo di Fossoli e i “centri raccolta profughi” in Italia (1945-1970), Ombre Corte, Verona, 2011, p. 20.
14 C. Di Sante (a cura di), Il campo per gli “indesiderabili”. Documenti e immagini del “Centro raccolta profughi stranieri” di Fossoli (1945-1947), EGA Editore, Torino, 2008; Id., Stranieri indesiderabili., cit.
15 Si trattava di giovani donne che si erano unite alla comunità di Don Zeno e si offrivano volontariamente di prestare le cure ai bambini.
16 E. Biondi, Una città quasi realizzata, in G. Leoni, (a cura di): Trentacinque progetti per Fossoli, cit., p. 64.
17 Zeno Saltini nasce a Carpi (MO) il 30 agosto del 1900 e muore il 15 gennaio 1981 a Nomadelfia (GR). A 14 anni abbandona la scuola ritenendola un insegnamento inutile per la vita e decide, dopo un breve periodo come soldato di leva nella caserma del III Telegrafisti di Firenze, di divenire sacerdote. Dal 1930 si dedica alle cure dei bambini abbandonati o in difficoltà, fondando durante la guerra l'Opera dei Piccoli Apostoli. Dal 1943-1945 Don Zeno, che aveva adottato posizioni apertamente antifasciste, si sposta a Sud per sfuggire alle persecuzioni: alcuni membri dell'OPA si uniscono alle fila partigiane. Dopo il soggiorno presso il campo di Fossoli tra il 1947 e il 1952, Don Zeno si sposta assieme alla comunità a Batignano, nei pressi di Grosseto, dove Nomadelfia ha tutt'ora sede (www.nomadelfia.it).
18 Cfr. R. Rinaldi, Storia di Don Zeno e Nomadelfia. Volume Secondo (1947-1962), Nomadelfia Edizioni, Roma, 2003, p. 15.
19 Ivi, p. 303.
20 M. L. Molinari, Villaggio San Marco. Via Remesina 32 Fossoli di Carpi, Ega Editore, Torino, 2006, p. 40.
21 Ivi, pp. 66-65.
22 Ivi, pp. 71-93.
23 Ivi, pp. 115 sg.
24 Ivi, p. 118.
 

Fig. 54 - Demolizione del muro di cinta a sud del campo, 1947 (Archivio storico di Nomadelfia). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra


Fig. 55 - Il campo diviene Villaggio San Marco per l’accoglienza ai profughi giuliano-dalmati dal 1954 al 1970 (Archivio storico Comune di Carpi). Immagine qui ripresa da Chiara Becattini, Op. cit. infra

Chiara Becattini, Storia della memoria di quattro ex campi di transito e concentramento in Italia e in Francia. 1945-2012, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis, 2017 

Fotografia aerea della città di Nomadelfia a lavori completati (1952) - Fonte: Andrea Luccaroni, Op. cit. infra

Dopo la fine della guerra, nel febbraio 1947, approfittando della graduale dismissione del “campo degli indesiderabili” di Fossoli, don Zeno chiese al Ministero dell’Interno l’autorizzazione a entrarvi, per trasformarlo nella nuova sede dell’Opera. <36
Il 19 maggio 1947, a fronte di vaghe promesse ricevute dal Ministero, il sacerdote e i ragazzi occuparono pacificamente, con l’appoggio informale del direttore, alcune baracche libere del campo, che era ancora parzialmente in attività. Il giornale di Nomadelfia avrebbe così descritto i primi istanti dell’occupazione: "finalmente ad una curva della strada, tra i pioppi canadesi e la polvere sollevata dai pesanti automezzi che procedevano lenti, apparvero prima le torrette e poi una lunga e lugubre fila di baracche protette da un triplice e fortificato recinto. Era la meta da conquistare: il campo di concentramento di Fossoli. Si era deciso di partire con il fermo proposito di non tornare più indietro: si era pensato di occupare la parte vuota del campo, che era guardato da uomini armati e protetto da muri e reticolati percorsi dall’alta tensione". <37
Con questo episodio si era dato inizio a un’esperienza di radicale trasformazione. Nelle intenzioni del sacerdote il campo costituiva qualcosa di più che un’opportunità di residenza stabile per i suoi ragazzi: doveva essere il luogo nel quale la comunità avrebbe messo alla prova una nuova idea di giustizia sociale. <38 La conversione delle ex strutture d’internamento rappresentava dunque un primo atto deliberato di rottura e implicava una cosciente volontà di interloquire con il passato tragico del campo, per trasformare quel luogo in un segno tangibile di rinascita: la tomba della morte si era spalancata, risorgeva la vita. Riapparivano le strade, i profili dolci e semplici di una terra modellata con amore dall’uomo: un orizzonte che per anni era stato cancellato, strappato violentemente agli occhi degli internati. <39
La trasformazione venne dunque accuratamente pianificata, progettata e documentata partendo da questi presupposti. Vi lavorò l’architetto Sigmund Erlinger, un ex soldato tedesco accolto nella comunità dopo la fine della guerra, che era già stato coinvolto da don Zeno nel progetto per l’intervento non realizzato di San Giacomo di Roncole. Sulle tavole del progetto, eseguite fra il giugno e l’ottobre 1947, apparve per la prima volta il termine “Nomadelfia”, che sarebbe stato assunto in seguito come denominazione dalla comunità dei piccoli apostoli, la cui doppia etimologia da nomòs (legge) e adelphòs (fratello) indica l’amore fraterno come principale regola di convivenza. La dicitura «Progetto Nomadelfia» riportata sulle intestazioni datate e firmate da Erlinger rappresentava già dunque l’aspirazione a trasformare questo luogo segregato in una vera e propria città aperta. Le planimetrie di progetto rendono esplicita tale aspirazione, che si concretizza nell’interpretazione degli edifici e degli spazi esterni, ciascuno in funzione delle proprie caratteristiche, come sintagmi di un vero e proprio tessuto urbano. <40
[...] Il periodo di permanenza delle famiglie giuliane all’interno dell’ex campo di concentramento, compreso tra il 1954 e il 1970, trova una singolare corrispondenza cronologica con la prima fase del processo di costruzione di una memoria nazionale della deportazione, che ebbe nella città di Carpi e nelle iniziative che vi si tennero tra il 1955 e il 1973 un punto di snodo fondamentale. <58
Come si è visto, nel 1955 a Carpi si era svolta la prima Manifestazione nazionale dedicata alla vicenda dei campi di sterminio. La celebrazione in ricordo delle vittime e la dedica del muro-memoriale eretto all’esterno del campo si erano tenute dunque solo pochi mesi dopo il primo insediamento dei profughi, mentre all’interno del perimetro, quasi contestualmente, si svolgevano i lavori di adeguamento delle baracche e venivano apportate ulteriori alterazioni alla loro conformazione originaria.
Gli avvenimenti che ebbero luogo nei due decenni seguenti avrebbero poi condotto al compimento del Museo Monumento al Deportato, vale a dire alla produzione di un luogo materiale intenzionalmente progettato per la memoria, idealmente correlato alla presenza del campo di Fossoli ma fatalmente alternativo a quest’ultimo.
La data dell’inaugurazione del museo, il 14 ottobre 1973, risulta di poco successiva al definitivo abbandono del campo da parte dei suoi ultimi occupanti. Non vi sono elementi sufficienti che inducano a ritenere le due vicende direttamente collegate, tuttavia è indicativa la sovrapposizione cronologica di due processi contraddittori e apparentemente inconciliabili: da una parte l’impulso alla costruzione di una memoria stabile delle vicende della deportazione che potesse trovare ricovero in uno spazio significativo, dall’altra il perfezionamento dell’uso del campo come villaggio residenziale, che ne implicava un ulteriore allontanamento dalle memorie oggetto di attenzione. Rispetto a tale condizione, il 1973 segna un evidente cambio di prospettiva. Se l’apertura del Museo Monumento si può ragionevolmente collocare alla conclusione di un ciclo che aveva contribuito a formare una consapevolezza nazionale sulla vicenda della Deportazione, senza tuttavia riuscire ad affrontarne le testimonianze materiali, nel periodo seguente, con le strutture del campo definitivamente libere e il consolidamento di un’opinione pubblica in merito, sarebbe stato possibile attuare una politica d’interventi diretti sul luogo, per farne un memoriale.
L’11 agosto 1973, con leggero anticipo rispetto all’inaugurazione del Museo Monumento e probabilmente proprio in previsione di questa, il Comune di Carpi inoltrò dunque all’Intendenza di Finanza la richiesta per l’acquisto dell’area dell’ex campo di concentramento. Una nota della Segreteria del Sindaco emessa in tale occasione riporta: "È intendimento di questa civica amministrazione procedere alla recinzione del medesimo trasformandolo in un ampio parco, del quale verrebbero mantenute alcune baracche e la chiesetta, con tutte le prerogative ecclesiastiche ad essa connesse, a testimonianza dell’esistenza del campo, mentre al centro dell’area verrebbe collocato il muro-ricordo con l’epigrafe di Pietro Calamandrei su Fossoli, che attualmente si trova all’estremo lato Nord del Campo". <59
 

I Piccoli Apostoli entrano nel campo: fotogrammi estratti dei filmati girati da Nomadelfia (1947) - Fonte: Andrea Luccaroni, Op. cit. infra

[NOTE]
36. Per una ricostruzione accurata degli eventi cfr. E. Biondi, Una città quasi realizzata, in G. Leoni, op. cit., pp. 64-72.
37. I piccoli apostoli occupano il campo di concentramento di Fossoli, in “Nomadelfia è una proposta”, XI, 28 febbraio 1978, n. 3-4, p. 2.
38. Cfr. D. Bettenzoli, Nomadelfia: utopia realizzata?, Celuc Libri, Milano 1976.
39. Il campo di Fossoli diventa Nomadelfia: l’amore fraterno è legge, in “Nomadelfia è una proposta”, XI, 31 marzo 1978, n. 5-6, p. 4.
40. ANG, Campo di Fossoli, 014D-01, “Progetto Nomadelfia”, S. Erlinger, Progetto Nomadelfia planimetria 1:500, 16 settembre 1947; Id., Progetto Nomadelfia prospetto lato sud della piazza, 20 settembre 1947; Id., Progetto Nomadelfia planimetria 1:500, 31 ottobre 1947.
58. Vedi “Un paradigma: il Museo monumento al Deportato politico e razziale”, Parte I, p. 85.
59. ASCC, Campo di Concentramento di Fossoli, Comune di Carpi, Segreteria del Sindaco, prot. n. 15481, 11 agosto 1973. Cfr. ASCC, Protocolli (1800-2003).
 
Don Zeno Saltini con il comandante del campo “degli indesiderabili”, prima che i Piccoli Apostoli ne prendessero possesso. 1947 - Fonte: Andrea Luccaroni, Op. cit. infra

Andrea Luccaroni
, Inimmaginabile e progetto. Architettura e memoria nei luoghi della Deportazione, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2015