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domenica 10 aprile 2022

Molte brigate partigiane portavano i nomi dei caduti


Le brigate Garibaldi, legate al Partito Comunista Italiano, e le brigate Giustizia e Libertà, legate al Partito d’Azione, furono le due maggiori brigate della Resistenza Italiana. Le prime contavano circa il 50% della cifra assoluta degli uomini mobilitati nella Resistenza, le seconde circa il 20.
Le brigate Garibaldi nacquero il 20 settembre 1943 a Milano. Il PCI, per salvaguardare la politica unitaria resistenziale, provava a smentire il suo stretto nesso con le brigate Garibaldi, il che però era poco credibile. Si tentò allora di evitare di identificare come solo comuniste le Garibaldi, per altro tanto simpatiche alla popolazione, dando loro nomi spesso non vicini al mondo comunista. Erano poche infatti le brigate Marx o Gramsci. Molte portavano i nomi dei caduti, spesso in combinazione con i nomi geografici, oppure nomi di eroi risorgimentali. Molto usato era, però, il colore rosso e la simbologia comunista: nei fazzoletti, nelle camicie, nelle stelle sui copricapi, nelle falci e martello, nei saluti col pugno chiuso e nelle canzoni. Anche in questo caso, e anche qui con scarsi risultati, furono molte le direttive comuniste per salvaguardare la politica di unità nazionale di sostituire questi simboli, magari con un tricolore.
Le brigate Giustizia e Libertà presero il nome dall’omonimo movimento nato a Parigi nel 1929. A quel movimento aderirono persone con idee politiche diverse: liberali, socialisti, repubblicani. Si volle creare un movimento politico antifascista e repubblicano, di ispirazione liberal-socialista. L’intento era di creare un’unità di azione per abbattere il fascismo, criticando i metodi dei partiti politici tradizionali, incapaci di abbandonare le discussioni teoretiche e di passare all’azione. Tutto ciò terrorizzò il regime fascista che, per la prima volta, doveva confrontarsi non con comunisti o socialisti, ma con molti reduci delle trincea, patrioti e intellettuali di fede liberale.
Luigi Longo, comandante delle brigate Garibaldi, e Ferruccio Parri, comandante delle brigate Giustizia e Libertà, furono legati da una sincera amicizia al punto che Parri lo designò come suo successore alla guida del Comitato militare del CLN in caso di arresto o di morte. Insieme furono poi vicecomandanti del suddetto Comitato dopo la nomina di Cadorna. In comune avevano un approccio prudente sia sulla lotta armata sia sul quadro politico generale. <14
Nonostante però la comunanza di fini nella lotta di liberazione, su vari argomenti notiamo posizioni diverse da parte delle due brigate.
Il RegioEsercito fu considerato lo strumento principale della guerra fascista e per questo fu visto con un distacco aspro e sprezzante dai resistenti. Qualche ufficiale riuscirà anche a diventare partigiano, ma sempre come uno tra mille. Su questo argomento vanno notate differenze significative tra l’atteggiamento delle GL e delle Garibaldi. Nelle GL verso gli ufficiali regi non vi era preconcetta diffidenza sociale, bensì un massimo di diffidenza morale (anche se era apprezzata la professionalità della tecnica militare). Nelle brigate Garibaldi, invece, su un massimo di diffidenza sociale venne sovrapponendosi, spesso per disciplina di partito, soprattutto dopo la Svolta di Salerno, la linea che chiamava a raccolta chiunque mostrasse sincera volontà di combattere e quindi spesso anche gli ufficiali dell’esercito, controllati e indirizzati, magari, dai commissari politici <15: “sarà compito particolare dei Commissari politici aiutare gli ufficiali a risolvere i problemi per loro inconsueti di questa guerra popolare, nello stesso tempo per insegnare agli uomini che gli ufficiali possono essere, pur restando il superiore, il compagno di lotta, il fratello che lavora con noi per costruire un mondo migliore”. <16
Sia le GL che le Garibaldi dovettero subire forme di istituzionalizzazione. Le bande partigiane nacquero da una spinta di rivolta antistituzionale ma dovettero affrontare il problema della militarizzazione prima e della politicizzazione poi. Anche se, sia il Pci che il PdA ribadivano che la politicizzazione sotto la loro egida non significava l’adesione ai partiti stessi e il riconoscimento delle libertà di opinione all’interno delle formazioni pur politicamente qualificate è uno dei modi in cui si manifesta questo rapporto con i partiti.
Nelle bande GL la politicizzazione era maieutica più che pedagogica, attraverso poche parole e molti comportamenti. Questo perché il PdA non ebbe mai una ideologia chiara e univoca ed è comune la convinzione che il problema più grande del Partito d’Azione, che spesso ebbe sbocchi elitari nella propria politica, fu quello di non avere una base di massa. L’obiettivo del partito era il trovare una terza via tra liberalismo e socialismo, tra capitalismo e socialismo; una terza via democratica e antifascista. Essa aveva alle spalle l’elaborazione teoretica di Carlo Rosselli e l’esperienza di Giustizia e Libertà e si incarnava nella “rivoluzione democratica”. Le cooperative, probabilmente, erano il mezzo per ottenere la difficile quadratura del cerchio tra capitalismo e comunismo. Gli azionisti esultavano infatti quando trovavano un comunista non statalista, patrocinatore della cooperazione. Restava il fatto che, proprio in mancanza di una ideologia radicata, l’azione fosse fondamentale; non solo uno strumento in vista del futuro ma, in qualche modo, una sua anticipazione.
Il nome più usato per le formazioni era “guardia nazionale”, anche per sperare di inglobare nella lotta di liberazione anche chi proveniva dal regio esercito. Ciò fondamentalmente da parte comunista, in quanto l’obiettivo, dopo la Svolta di Salerno, era di riformare “una organizzazione armata unica, con un comando militare unico, che spetta ai più energici e decisi antifascisti e ai più capaci militarmente” <17, mentre gli azionisti non erano d’accordo in quanto per loro “il vero e nuovo esercito italiano è quello partigiano”, espressione di quell’organo di governo nuovo e superpartitico che il partito amava vedere nei CLN quali strumenti della “rivoluzione democratica”.
Anche in relazione alla guerra di classe naturalmente furono diverse le visioni delle due formazioni. Gli azionisti riconoscevano gli elementi di contrapposizione sociale presenti nella lotta ma affermavano che essi non ne esaurivano il significato. I comunisti avevano a cuore l’argomento ma dovevano, per disciplina di partito il cui fine era il mantenimento della politica unitaria del CLN, placare gli animi dei capi delle formazioni e della base. Ad esempio un comandante di una banda che parlava di requisizioni ai maggiori agrari del luogo, ma anche ai proprietari medi e piccoli, fu attaccato dal partito in quanto aveva preso consensi facendo leva su tendenze sbagliate che impedivano il formarsi di rapporti di collaborazione con strati importanti delle popolazioni rurali. Nonostante gli sforzi del partito, rimase in molti la convinzione che l’identificazione del regime fascista con i padroni dovesse portare a una resa dei conti anche sul piano sociale.
Per quanto riguarda le commissioni interne, sorte durante i 45 giorni badogliani, comunisti e azionisti ebbero una visione diversa che sottintendeva una diversa visione del rapporto tra economia e politica. Istituite il 3 settembre 1943, per iniziativa dei vecchi sindacalisti antifascisti B. Buozzi e G. Roveda, si stipulò con la Confederazione dell’industria un accordo sulle commissioni interne della durata di tre anni che va sotto il nome di Buozzi-Mazzini. Per tale accordo le commissioni interne venivano istituite come organi di rappresentanza unitaria di tutti i lavoratori, impiegati e operai, in tutte le aziende che avessero almeno venti dipendenti. Dopo l’8 settembre nel territorio liberato le commissioni interne si svilupparono e si estesero anche nelle aziende non industriali (agricole, imprese edili, commerciali, uffici pubblici, ecc). Regolavano più aspetti del mondo del lavoro.
I comunisti avevano accentuato il valore politico generale delle commissioni, nella “lotta per la salvezza del paese e per un migliore avvenire dei lavoratori”. <18. Gli azionisti vedevano invece le commissioni come lo strumento per ritrovare l’armonia tra operai e padroni.
In linea di massima, comunque, entrambe le formazioni partigiane, ed entrambi i loro comandi, volevano evitare una eccessiva partitizzazione della lotta e spinsero affinché la politica unitaria del CLN fosse sempre più rinforzata.
[NOTE]
14 L. Polese Remaggi, La nazione perduta, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 243.
15 I commissari politici furono inventati da Trockij per controllare gli ufficiali zaristi, dei quali la neonata Armata Rossa non poteva fare a meno.
16 La nostra lotta, Organo del Partito Comunista Italiano, Anno II n. 14, p. 9.
17 Ivi.
180 L’Unità, edizione settentrionale, 7 settembre 1943.
Giuseppe Paolino, Parri e Togliatti, due anime della Resistenza, Tesi di laurea, Università LUISS Guido Carli, Anno Accademico 2013-2014

Dopo una fase iniziale di ribellione spontanea <761, a seguito degli avvenimenti drammatici dell'8 settembre, le forze antifasciste sono riuscite da dotarsi di un modello organizzativo che ha permesso alle singole bande di crescere sia da un punto di vista quantitativo sia da un punto di vista organizzativo. Agli sbandati, agli ex militari dell‟Esercito Regio, agli ex prigionieri politici si sono uniti tanti uomini e donne che adesso lottano per liberare l'Italia dall'occupazione tedesca e dalla presenza di un fascismo divenuto rabbioso e vendicativo.
A un migliore coordinamento sul piano militare corrisponde una maggiore compattezza sul piano politico.
Le formazioni partigiane che fanno riferimento ai partiti del CLN sono qualcosa in più e qualcosa di diverso dalla semplice unione di sigle.
Le Brigate Garibaldi (comuniste), Matteotti (socialiste), Giustizia e Libertà (azioniste) hanno una forte connotazione politica e sociale che a volte le divide dalle “autonome” di ispirazione liberale o cattolica <762 ma tutte sono accomunate dalla volontà di condurre fino in fondo una lotta di liberazione che rappresenta la condizione essenziale ed esistenziale per la costruzione di una società migliore, nuova e diversa da quella voluta e creata dal fascismo. Le divergenze (politiche, operative, di prospettiva), le tensioni, le rivalità, gli scontri interni alle singole formazioni e tra formazioni diverse <763 vengono messi da parte, non senza difficoltà, in nome di un obiettivo comune. Il passaggio dai piccoli gruppi ad un esercito che si definisce democratico, di massa e di liberazione nazionale richiede una coscienza politica forgiata dalla disciplina e dall‟accettazione delle regole <764. Questa è l'unica strada da seguire nel processo di crescita che trasforma i legami intessuti nel microcosmo della banda fino a farli diventare relazioni complesse di un organismo e di un progetto più ampio. Particolare importanza assumono il reclutamento, l'inquadramento nelle strutture militari, la “morale partigiana” <765.
Occorre educare con l‟esempio, attraverso uno stile di vita fatto si di coraggio, audacia, risolutezza ma anche e soprattutto di comportamenti eticamente corretti <766. E' il rispetto delle regole che rende efficace un piano d'azione e garantisce la stessa incolumità individuale e di gruppo. Le regole devono essere rispettate da tutti. Chi non le rispetta deve essere punito. Non è facile, nel contesto drammatico della guerra e di una realtà in trasformazione che ha perso l'ordine rassicurante nella sua versione repressiva o conformistica, ma non ha ancora realizzato un nuovo sistema di leggi e di valori, tenere a bada i personalismi di capi e di gregari o il settarismo di gruppo e di partito. Tuttavia, è necessario imbrigliare una violenza a lungo repressa, amplificata dal rischio mortale di un rapporto con il nemico che diventa, di giorno in giorno, sempre più aspro. Lo stesso reclutamento di massa, positivo per certi aspetti ma insidioso per altri, impone la massima attenzione per evitare che nelle formazioni partigiane confluiscano uomini di varia provenienza e personaggi di dubbia affidabilità, fanatici e spie compresi.
E' nell'estate del 1944 che il movimento partigiano raggiunge la sua massima espansione. Alla fine di settembre 1943, la forza totale ammonta a circa 23.000 uomini. Da novembre 1943 a gennaio 1944 si registra un incremento di circa 19.000 uomini e, da febbraio ad aprile, di altri 33.000 uomini. A maggio, a seguito del cosiddetto “bando del perdono” emanato dalla RSI nei confronti dei renitenti alla leva, si verifica un decremento di 7.000 unità ma nei successivi mesi di giugno e luglio l'aumento è considerevole e ammonta a 41.000 uomini. Alla fine di luglio si ha una forza complessiva di 109.000 uomini <767 [...]
[NOTE]
761 “La ribellione (non ancora la scelta, ma il moto d'animo che la rende possibile) assume coloriture diverse e segue percorsi differenziati, tappe di una “maturazione” a volte rapida a volte lenta, percorsa da incertezze ed esitazioni: lo sbandamento dapprima, il ripudio della guerra, la paura per la propria esistenza, il rifiuto di servire la Repubblica di Salò, l'imboscamento e la solitudine. La ribellione è sempre imprecisa, poiché chi si ribella non sa mai bene in nome di quale futuro si espone e molto spesso neppure con una lucida consapevolezza della realtà presente che rifiuta. Così come la libertà che si vagheggia è fatta di sensazioni, di mille accezioni, chiaroscuri, immagini sfuocate”, Adriano Ballone, La dimensione esistenziale nella banda partigiana, in “Rivista di storia contemporanea”, n.4/1990, p.562.
762 Particolarmente importante è il contributo dei cattolici nella Resistenza sia sul piano militare sia sul piano civile. Tra le numerose esperienze si segnala l'attività e il sacrificio di Teresio Olivelli. Fascista in gioventù, alpino sul fronte russo, dopo l'8 settembre diventa un organizzatore delle “Fiamme Verdi, le formazioni partigiane di ispirazione cattolica. E' tra i fondatori e collaboratori del foglio clandestino “Il Ribelle” che riporta, nel numero 2 del 26 marzo 1944, la sua “Preghiera del Ribelle”: “Signore/che tra gli uomini drizzasti la Tua/croce, segno di contraddizione,/che predicasti e soffristi la rivolta/dello spirito contro le perfidie e gli/interessi dei dominanti, la sordità/inerte della massa, a noi oppressi/da un giogo oneroso e crudele che/in noi e prima di noi ha calpestato/Te fonte di libere vite, dà la forza/della ribellione./Dio/che sei Verità e Libertà, facci liberi e/intensi, alita nel nostro proposito,/tendi la nostra volontà, moltiplica le/nostre forze, vestici della Tua armatura;/noi ti preghiamo,Signore./Tu/che fosti respinto, vituperato, tradito,/perseguitato, crocefisso, nell'ora/delle tenebre ci sostenti la Tua/vittoria; sii nell'indigenza viatico, nel/pericolo sostegno, conforto nell'amarezza./Quanto più si addensa e/incupisce l'avversario,facci limpidi/e diritti. Nella tortura serra le nostre/labbra. Spezzaci, non lasciarci piegare./Se cadremo fa che il nostro/sangue si unisca al Tuo innocente e/a quello dei nostri Morti, a crescere/al mondo giustizia e carità./Tu/che dicesti: “Io sono la resurrezione/e la vita”, rendi nel dolore all'Italia/una vita generosa e severa. Liberaci/dalla tentazione degli affetti: veglia/Tu sulle nostre famiglie. Sui/monti ventosi e nella catacombe/delle città, dal fondo delle prigioni,/noi Ti preghiamo: sia in noi la pace/che Tu solo sai dare./ Dio/della pace e degli eserciti, Signore/che porti la spada e la gioia, ascolta/la preghiera di noi, ribelli per/amore”. Olivelli muore in un campo di concentramento in Germania, percosso da un kapò per aver difeso un compagno di prigionia. Medaglia d'oro al Valor militare, dal 2004 è in corso una causa di beatificazione. Su quest'ultimo aspetto vedi: Paolo Rizzi, L'amore che tutto vince: vita ed eroismo cristiano di Teresio Olivelli, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004.
763 Vedi, ad esempio, il Documento 19 (La difficile convivenza con le bande comuniste), il Documento 57 (Critiche al comportamento dei garibaldini) riportati in Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti. Settembre 1943-aprile 1945, a cura di Giovanni De Luna, Piero Camilla, Danilo Cappelli, Stefano Vitali, Franco Angeli, Milano 1985, pp. 75-77 e pp. 152-153.
764 Un documento del 26 marzo 1944 delle formazioni Giustizia e Libertà riporta i seguenti punti: “1. Ficcare ben chiaro in testa ai partigiani che essi sono soldati di un esercito nuovo e rivoluzionario, l'Esercito di liberazione nazionale, il quale non s'identifica, e nemmeno succede, come erede e continuatore, al vecchio esercito regio, così miseramente fallito. […] 3. Illustrare la fisionomia, i compiti e gli obiettivi dell'Esercito di liberazione nazionale. In particolare, spiegare chiaramente che i soldati di questo esercito non sono tanto, o almeno non sono solamente i campioni di un generico patriottismo, che mirano semplicemente a “cacciare lo straniero dal sacro suolo della Patria”, quanto piuttosto il braccio armato e l'avanguardia risoluta di un moto di rinnovamento, di un processo rivoluzionario, che investe tutta la struttura politica e sociale del paese, e dovrà dare all'Italia, avvilita ed infamata dalla tirannia fascista avallata e sostenuta da ben note complicità, un volto nuovo di nazione libera, democratica, civile. […] 6. Il partigiano invece deve sentire il suo servizio come una vocazione, disposto ad andare sino in fondo, affrontando disagi, privazioni e sacrifici, compreso quello della vita stessa, per il trionfo di un superiore ideale civile, che trova la sua insuperabile espressione nella formula: giustizia e libertà”, ivi, pp. 78-79.
765 Un documento della “Colonna Giustizia e Libertà Val Pellice”, del 16 giugno 1944, indirizzato “A tutti i partigiani della colonna” riporta alcuni consigli: “1. Ricorda che sei militare di un esercito volontario; di esso sei parte integrante e con esso dovrai andare sino in fondo. L'impegno che ti sei assunto entrando nelle file partigiane è un impegno d'onore, cui non si può venir meno. 2. Devi essere disciplinato non nel senso e nello stile della vecchia “naja” ma disciplinato nell'animo. 3. Devi ubbidire a chi ti comanda. I tuoi comandanti sono i tuoi amici, ma hanno una responsabilità maggiore della tua, e nella tua obbedienza troveranno la forza per superare ogni difficoltà. 4. Tu lotti per la giustizia e per la libertà. Tu devi essere giusto con tutti e rispettare la libertà di tutti. 5. Non devi agire contro alcuno se non sei comandato. 6. Ricorda che un solo tuo atto, un solo gesto che fosse spinto da rancore personale arrecherebbe grave danno morale a te ed alla tua colonna. 7. Le armi che hai in consegna sono preziose, e mai come nella tua lotta hanno servito una causa giusta e santa. 8. Ricordati che non devi eccedere in nulla, né nel bere né nel mangiare. L'ubriachezza fa sragionare e commettere atti insani. 9. Ricorda che la disciplina nostra è la disciplina del volontario: può sorvolare sulle piccole cose ma è inflessibile nelle cose che per noi sono essenziali. 10. Quando scenderai tutti guarderanno a te e quindi devi essere non solo partigiano ma anche cittadino esemplare”, ivi, pp. 100-101.
766 Vedi: Francesco Omodeo Zorini, La formazione del partigiano: politica, cultura, educazione nelle Brigate Garibaldi, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli “Cino Moscatelli”, Borgosesia, 1990.
767 I dati esposti sono desunti dalla “Sintesi della relazione complessiva sulla forza dei banditi e sull'attività banditi ed antibanditi dal settembre 1943 al novembre 1944”, in ACS, Segreteria part. del Duce, Carteggio ris., b. 70, fasc. 642/R, “Ministero della Difesa nazionale”, sottof. 17, “Varie”, riportato in Renzo De Felice, Mussolini l'alleato, II. La guerra civile (1943-1945), cit., pp. 737-753. Vedi anche gli allegati alle pp. 568-594.

Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, anno accademico 2010-2011 

L'8 settembre non era la data di nascita della resistenza, era la data della sua trasformazione in lotta armata; la resistenza aveva avuto le sue origini nel lontano 1919, con le prime battaglie cruente contro lo squadrismo, era continuata nell'emigrazione all'estero e nella cospirazione interna, s'era temprata nelle galere fasciste, aveva avuto la sua scuola di guerra in Spagna; l'avevano condotta i comunisti, i socialisti ed il movimento di Giustizia e libertà, e quella lunga esperienza valeva ora a porre gli stessi partiti alla testa della guerra di liberazione.
Il 20 settembre si formò a Milano il comando generale delle brigate d'assalto Garibaldi. La riunione costitutiva ebbe luogo in viale Monza 23, nella abitazione del comunista Giovanni Marini. Luigi Longo fu il comandante generale,  e Pietro Secchia il commissario; a Giorgio Amendola venne attribuito il comando delle formazioni dell'Italia centrale, mentre Giancarlo Pajetta, che in quei giorni si trovava in Liguria, ebbe poi l'incarico di vice-comandante generale e di capo di stato maggiore. Funzioni di ispettori generali assunsero Antonio Roasio, Francesco Scotti, Francesco Leone, Antonio Carini, Antonio Cicalini e Umberto Massola.
Con questi uomini alla testa, nacquero in ogni regione le brigate e i distaccamenti di assalto Garibaldi, non come formazioni di partito, ma come unità modello, aperte a tutti coloro che possedevano volontà di combattere.
Pietro Secchia - Filippo Frassati, Storia della Resistenza. La guerra di liberazione in Italia. 1943-1945. Volume I,  Editori Riuniti, Roma, 1965 

"Chi furono i gappisti?
Potremmo dire che furono “commandos”. Ma questo termine non è esatto. Essi furono qualcosa di più e di diverso di semplici “commandos”. Furono gruppi di patrioti che non diedero mai “tregua” al nemico: lo colpirono sempre, in ogni circostanza, di giorno e di notte, nelle strade delle città e nel cuore dei suoi fortilizi. Con la loro azione i gappisti sconvolsero più e più volte l’organizzazione nemica, giustiziando gli ufficiali nazisti e repubblichini e le spie, attaccando convogli stradali, distruggendo interi parchi di locomotori, incendiando gli aerei sui campi di aviazione. Ancora non sappiamo chi erano i gappisti. Sono coloro che dopo l’8 settembre ruppero con l’attendismo e scesero nelle strade a dare battaglia, iniziarono una lotta dura, spietata, senza tregua contro i nazisti che ci avevano portato la guerra in casa e contro i fascisti che avevano ceduto la patria all’invasore, per conservare qualche briciola di potere". <32
È con queste parole piene di enfasi che Giovanni Pesce, il gappista che più ha contribuito a lasciarci una testimonianza dell’attività svolta da questi “commandos” metropolitani, tenta lui stesso di dare una definizione dei Gap. Un aiuto a comprenderne meglio la natura ci viene dato da quanto riportato dal Dizionario della Resistenza <33 che spiega come essi fossero nuclei partigiani creati per la guerriglia urbana, anche nelle sue forme estreme, quali l’uccisione di esponenti della Rsi o di ufficiali tedeschi.
Un’importante questione storica, non ancora risolta, riguarda la data della loro creazione. Secchia <34 scrive che «nei Gap del Pci venivano arruolati esclusivamente comunisti» e che l’istituzione dei Gap avvenne, su iniziativa del Comando generale delle brigate Garibaldi, verso la fine del 1943. <35
Secondo lo storico Ernesto Ragionieri il Pci ne aveva invece disposto la creazione già con una circolare del maggio 1943. <36
Questo problema di datazione è indice della scarsità - o meglio della quasi totale inesistenza - di documenti e comunicati ufficiali che caratterizzino le attività di queste formazioni. Elemento questo che non deve destare stupore in quanto la natura stessa - cospirativa - dei Gap, imponeva il massimo riserbo sulle azioni, sui componenti e sugli spostamenti; nessun particolare doveva trapelare.
[NOTE]
32 G. Pesce, Senza tregua, Milano, Feltrinelli 1967, pp. 7-8.
33 Voce GAP, in Dizionario della Resistenza, cit., pp. 209-212.
34 Pietro Secchia (Occhieppo Superiore, 19 dicembre 1903 - Roma, 7 luglio 1973) è stato un politico e antifascista italiano, importante dirigente del Partito Comunista. Liberato dai partigiani nel 1943, partecipò alla Resistenza in qualità di commissario generale delle Brigate Garibaldi, comuniste. Come Longo e altri partigiani comunisti, sosteneva una politica rivoluzionaria che preparasse la prospettiva di un’insurrezione armata, ma aderì nell’immediato dopoguerra alla cosiddetta svolta di Salerno di Palmiro Togliatti, che spingeva il PCI alla collaborazione con gli altri partiti di massa e con le istituzioni. Togliatti nominò Secchia vicesegretario del PCI, carica che mantenne dal 1948 al 1955. Nel 1946 fu deputato all’Assemblea Costituente mentre nel 1948 fu eletto senatore nelle file dei Fronte Democratico Popolare; rimase senatore fino alla morte.
35 Voce GAP, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Milano-Roma, Edizioni La Pietra 1971, vol. II, pp. 475-79. Essa era diretta dallo stesso Secchia.
36 Cfr. E. Ragionieri, La terza Internazionale e il Partito comunista italiano. Saggi e discussioni, Torino, Einaudi 1997, pp. 328-329.
Valentine Braconcini, La memorialistica della Resistenza attraverso gli scritti di Giovanni Pesce, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2007-2008