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lunedì 29 agosto 2022

Un ruolo privilegiato lo ebbe la sinistra non comunista


L’apice della Red scare fu raggiunto, infatti, tra il 1950 e il 1954. Nel 1950 entrò in vigore il McCarran Act, che obbligava le organizzazioni politiche di ispirazione comunista a registrarsi presso il Dipartimento di giustizia, oltre ad introdurre una serie di limitazioni agli individui giudicati “sovversivi” e a disporre la detenzione preventiva per coloro che venivano accusati di spionaggio e attività sospette ogni qualvolta il Presidente avesse proclamato lo status di emergenza interna. Ad incarnare lo spirito di questa legge fu, com’è noto, il senatore del Wisconsin Joseph McCarthy, a cui fu lasciato campo libero, per alcuni anni, per inneggiare pubblicamente al “pericolo rosso” interno e per organizzare una serie di audizioni nel Senato statunitense a persone giudicate sovversive e compilare una serie di “liste nere” che non furono mai rese note.
Il “maccartismo”, tuttavia, esisteva prima dell’attività di McCarthy e sarebbe esistito anche in una fase successiva, con forme diverse. La “caccia alle streghe” degli anni Cinquanta fu, del resto, un fenomeno dilagante e si tramutò in una vera e propria paranoia nazionale: il Federal Bureau of Investigation (FBI) schedò migliaia di cittadini e le accuse di simpatie comuniste segnarono la fine della carriera di un numero imprecisato di scrittori, giornalisti, accademici e un numero imprecisato di registi, produttori e sceneggiatori di Hollywood <77.
Tra gli intellettuali, tuttavia, non furono i conservatori a prendere le redini della lotta al comunismo. Al contrario, l’anticomunismo intellettuale dei primi anni della Guerra fredda derivò dall’abbandono delle simpatie marxiste da parte di alcuni gruppi e singoli individui che avvenne sia negli Stati Uniti che in Europa. Negli Stati Uniti, quando scoppiò la Guerra fredda, la messa in discussione delle idee prodotte dal marxismo era iniziata già da almeno un decennio; come scrisse Irving Howe, uno dei protagonisti della vita intellettuale americana dagli anni Trenta, «La maggiore battaglia contro lo stalinismo come forza all’interno della vita intellettuale e, per dire la verità, una forza potente, avvenne prima che chiunque avesse sentito parlare della Guerra fredda» <78.
Durante gli anni Trenta, infatti, mentre i dettami dello stalinismo trasformavano l’Unione Sovietica in una nazione fortemente burocratizzata e decisamente repressiva, gli intellettuali euro-americani che si erano avvicinati al comunismo misero in discussione l’intera ideologia marxista. Negli Stati Uniti, molti di loro avevano sposato idee trozkiste: nei primi anni Trenta, tra Brooklyn, il Bronx e Newark, era cresciuta una generazione di intellettuali ebrei emigrati dall’Europa. La rete era formata da persone con pensieri piuttosto diversi tra di loro. Ciononostante, nel corso degli anni Cinquanta al gruppo venne affibbiata l’etichetta di “New York Intellectuals”, che includeva una serie disparata di letterati, artisti, critici e filosofi. Tra di loro c’erano Philip Rahv, William Phillips, Lionell Trilling, Diane Trilling, Meyer Schapiro, Clement Greenbery, Harold Rosenberg, Dwight MacDonald, Elliott Cohen e Sidney Hook <79. Riuniti intorno alla “Partisan Review”, questa prima generazione di “New York Intellectuals” <80 si inserì a pieno titolo nella discussione in corso nella sinistra statunitense sull’ideologia marxista. Incentrato perlopiù sullo stalinismo, il dibattito della sinistra si tramutò presto in una vera e propria ridefinizione dell’intero impianto ideologico del marxismo-leninismo che condusse alcuni dei “New York Intellectuals” ad abbracciare definitivamente la strada del liberalismo.
Nel 1939, Hook formò il Committee for Cultural Freedom per opporsi al controllo dell’espressione culturale di destra e di sinistra sotto il patrocinio del suo mentore, il filosofo John Dewey. Il comitato venne sciolto quando l’URSS divenne un alleato degli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale ma il tentativo di Hook avrebbe avuto fortuna nel corso degli anni Quaranta, quando cominciò a ricevere sostegno dal governo federale <81.
Con il progredire della Guerra fredda e grazie alla politica messa in atto dal governo statunitense, questo sentimento anticomunista e in difesa del liberalismo portò gli intellettuali anticomunisti del vecchio continente su posizioni filo-atlantiche. Non era l’esito scontato di un percorso di difesa delle loro idee: gli intellettuali europei non vedevano di buon occhio i prodotti culturali che arrivavano dagli Stati Uniti, spesso indirizzati a un pubblico di massa e non alle élite. Il rapporto complesso tra cultura “alta” e cultura “popolare”, su cui si basava il rapporto tra le due sponde dell’Atlantico, aveva dato luogo a una serie di pregiudizi sulla natura “corrotta” e, in generale, di scarsa qualità dei beni che arrivavano dagli Stati Uniti.
La creazione di una rete transatlantica di intellettuali liberali fu il frutto di una serie di fattori: in primo luogo, con la fine della stagione dei fronti popolari in Europa riprese il dibattito ideologico a sinistra tra correnti diverse del marxismo; in secondo luogo, i grandi processi che, sotto Stalin, avevano portato alla condanna e all’esecuzione di molti funzionari del PCUS considerati ormai ostili al regime mostrarono il volto crudo della dittatura sovietica.
Il vero passaggio intellettuale, tuttavia, fu l’elaborazione del concetto di totalitarismo della filosofa Hannah Arendt <82. Alla fine del secondo conflitto mondiale, gli intellettuali liberali euro-atlantici si trovarono di fronte un solo nemico totalitario, il regime sovietico: a quel punto, anche se la stagione dello stalinismo era chiusa, l’URSS rimaneva l’unico stato governato da un potere di tipo totalitario. A tutto ciò si aggiunse la capacità del governo federale statunitense di favorire i rapporti culturali con il vecchio continente, grazie a una serie di programmi di scambio accademico e alla diffusione della cultura “alta”, come la musica e il teatro. Su quel terreno, infatti, gli USA erano più indietro dei Sovietici: mentre la letteratura, la musica, il balletto e il teatro russi erano già noti in tutta Europa e la loro diffusione veniva supportata dal PCUS, gli Stati Uniti dovettero mettere in campo una serie di iniziative per recuperare il distacco. Da parte degli intellettuali del vecchio continente c’era, infatti una ben radicata forma di “snobismo” verso gli Stati Uniti, a lungo giudicati un paese privo di cultura “alta”, capace solo di esportare beni di consumo indirizzati alle masse e prodotti culturali finalizzati all’intrattenimento <83.
Il governo federale decise, allora, di approfittare di alcune tendenze che cominciavano a profilarsi nel panorama intellettuale: emergevano, in Europa e negli Stati Uniti, gruppi di intellettuali di formazioni diverse accomunati dal duplice obiettivo di salvaguardare la libertà della cultura dalla censura sovietica e dei partiti del Cominform e di promuovere i valori democratici. Si trattava di un insieme variegato: un ruolo privilegiato, tuttavia, lo ebbe la “sinistra non comunista”, per dirla con un modo che si è affermato negli Stati Uniti (dove si parla di Non Communist Left, NCL).
[NOTE]
77 Paul Buhle and Dave Wagner, Hide in Plain Sight: The Hollywood Blacklistees in Film and Television, 1950-2002, New York, St. Martin’s Press, 2003.
78 Irving Howe, The New York Intellectuals, in “Dissent”, October 1, 1969, https://www.dissentmagazine.org/online_articles/irving-howe-voice-still-heard-new-york-intellectuals (ultimo accesso 10 luglio 2018).
79 Alexander Bloom, Prodigal Sons: The New York Intellectuals and Their World, Cary, Oxford University Press, 1986, p. 6.
80 Successivamente, si unirono al gruppo intellettuali come Irving Howe, Irving Kristol, Daniel Bell, Delmore Schwartz, Leslie Fiedler, Seymour Martin Lipset, Nathan Glazer, Alfred Kazin, Robert Warshow, Melvin Lasky, Isaac Rosenfeld e Saul Bellow. Cfr Bloom, Prodigal Sons, cit., p. 6; Courtney Ferrier, Sidney Hook’s Pragmatic Anti-Communism: Commitment to Democracy as Method, in “Education and Culture”, Vol. 33, No. 1, 2017, pp. 89-105.
81 Giles Scott-Smith, The Politics of Apolitical Culture. The Congress for Cultural Freedom, the CIA and postwar American hegemony, Routledge, London and New York, 2002, p. 95.
82 Su questo si veda il capitolo 2.
83 Cfr. Jessica Gienow-Hecht, Culture and the Cold War in Europe, in Leffler and Westad (edited by), The Cambridge History of the Cold War, cit., pp. 398-419.
Alice Ciulla, Gli intellettuali statunitensi e la "questione comunista" in Italia, 1964-1980, Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2019