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sabato 27 agosto 2022

Ruggero Spesso, dell’Ufficio Studi della CGIL, paventava l’introduzione di macchine in grado di eliminare l’apporto muscolare dell’uomo e anche quello mentale


Una valida testimonianza del momento di grande apertura costituito dal dibattito interno alla CGIL tra 1954 e 1957 è costituito dai periodici sindacali che ospitavano interventi e analisi di dirigenti nazionali e locali. Il bisogno di linee guida nuove e in grado di intercettare le esigenze organizzative della produzione neocapitalistica fu al centro di una discussione generale sul ruolo dell’analisi del lavoro, con posizioni impensabili fino a pochi anni prima.
Su “Rassegna sindacale”, rivista della CGIL, Leonardi proponeva una lettura delle human relations che andava oltre il puro rifiuto ideologico di queste pratiche di organizzazione del lavoro. La sua esperienza di studio dell’OSL portò all’attenzione del sindacato il rischio di una opposizione puramente ideologica a tecniche intrinsecamente legate ai nuovi modi di produzione che si stavano diffondendo anche nelle aziende italiane: «per quanto riguarda la base tecnica si deve far osservare che le “relazioni umane” sono sorte e si sono sviluppate nelle grandi aziende moderne con produzione in grande serie o, addirittura, di massa, in un’epoca in cui si introducono i primi elementi per una maggiore applicazione di principi di automatizzazione» <235.
Il complesso delle human relations costituiva il corredo organizzativo al processo di automatizzazione. Al fine di ridurre le frizioni che esso implicava, divenivano necessarie la collaborazione da parte dei lavoratori e la volontaria partecipazione alle sorti della propria fabbrica: «ad una produzione integrata deve corrispondere una integrazione del lavoratore nell’azienda: e questa integrazione deve essere volontaria poiché nessuna costrizione o disciplina può ottenere la rinuncia da parte di uomini alla libertà [...] nessuno, insomma, può imporre la collaborazione. Questa può essere solo frutto di convinzione e di accettazione volontaria» <236.
Leonardi, individuando nelle relazioni umane il cristallizzarsi di una condizione di identificazione del lavoratore con l’azienda, osservava che il monopolio le impiegava per allentare i legami di classe, concedendo benefici in cambio di collaborazione. Per questo era necessario riportare l’attenzione sulle dinamiche interne alla fabbrica per adeguare la risposta sindacale a pratiche in grado di creare consenso: «le trasformazioni tecniche non pongono solo ai padroni la necessità di modificare la loro politica verso il personale, ma pongono uguali necessità di continuo rinnovamento dei temi e delle forme di lotta anche alle organizzazioni dei lavoratori» <237.
Attaccando chi faceva delle relazioni umane un’ideologia, ne coglieva gli aspetti più incisivi, anche al di fuori della fabbrica, motivo per cui sarebbe stato inevitabile spostare l’attenzione sull’insieme delle relazioni sociali: «pur svolgendosi nell’ambito aziendale, i programmi delle “relazioni umane” mantengono pienamente la loro natura di minaccia diretta di attacco generale, in tutte le direzioni e su tutti i punti, alla personalità del lavoratore presa nel suo complesso. Egli infatti, non viene insidiato solo nelle ore di lavoro, cioè come produttore, ma è aggredito integralmente, dentro e fuori la fabbrica, come produttore e come consumatore. Anche come consumatore di taluni beni e servizi, infatti, si cerca di isolarlo dal corpo nazionale almeno, si pensi all’abitazione, all’assistenza e alle svariate forme di divertimento e di cultura e così via» <238.
Da quanto risulta dagli archivi dell’USE, Leonardi fin dal 1955 aveva iniziato ad analizzare pratiche dell’OSL come la Misurazione Tempi e Metodi (Methods-Time Measurement, MTM) in quanto pratiche che avrebbero potuto garantire una maggiore accuratezza dei termini del cottimo, lo scarto dei movimenti inutili, l’esattezza di tempi e costi, la standardizzazione reale dei metodi, con il vantaggio anche di miglioramenti ergonomici alle macchine. A condizione, stando a Leonardi, che le organizzazioni dei lavoratori ne avessero controllato l’applicazione, evitando di consegnarla all’arbitrio degli Uffici Tempi <239.
Ruggero Spesso, dell’Ufficio Studi della CGIL, paventava l’introduzione di macchine in grado di eliminare l’apporto muscolare dell’uomo e anche quello mentale. L’intervento, che si ricollegava ad un’analisi dell’automazione già avviato in Europa, poneva problemi ad un sindacato che avrebbe dovuto essere all’altezza di sfide nuove: l’aumento del reddito, l’aumento dell’occupazione, la produzione continua, la modifica delle qualifiche e degli assetti sociali. La CGIL, per questo, aveva l’obbligo di tenere conto delle nuove variabili, per divenire attore e non lasciare all’anarchia lo sviluppo del progresso tecnico: «questo complesso di fenomeni, scientificamente predeterminabili, impone [...] che essi siano studiati nelle loro cause e nei loro effetti per affrontarli e quindi disciplinarli nella loro evoluzione. L’elemento “pianificazione” del processo economico e tecnico, e le sue implicazioni culturali, diviene così un fatto obiettivo, da cui non si può più prescindere» <240.
Con piano Spesso intendeva un programma di industrializzazione e di investimenti in aree non ancora interessate dallo sviluppo; questo avrebbe contribuito all’armonizzazione dei processi di automazione con il sindacato alla testa di una lotta volta a sottrarre all’influenza dei monopoli i processi di innovazione: «azione che può giungere sino a porsi come obiettivo la loro nazionalizzazione, ma che deve trovare il suo punto di partenza nelle particolari condizioni che nelle fabbriche possono essere poste da una avanzata dei processi di automazione affinché questa non si attui secondo gli interessi dei grandi monopoli» <241.
Il numero 11 del 1956 ospitava l’intervento dei responsabili della CdL di Busto Arsizio, centro industriale della Brianza, in cui la struttura produttiva si articolava in numerose aziende minori. L’articolo esaminava l’organizzazione del lavoro in questi fabbriche, ponendo all’attenzione del sindacato una questione poco nota e scarsamente approfondita nei primi anni Cinquanta. Le innovazioni tecnologiche applicate nella grande industria avevano riflessi su tutto il tessuto produttivo con i medesimi effetti riscontrati nella grande fabbrica e gli autori sottolineavano la necessità di uno studio che superasse la frammentazione di analisi: «La prima tendenza [...] è data dalla diminuzione graduale dei lavoratori occupati [...] di conseguenza con questo tipo di razionalizzazione del lavoro, il padronato fa sopportare tutta l’attività “ausiliaria” alla manodopera direttamente impegnata nel processo produttivo, determinando così non soltanto una intensificazione dei ritmi ma anche una certa dequalificazione e sopratutto una moltiplicazione di mansioni» <242.
L’imposizione dei ritmi da parte delle grandi imprese portava ad una dequalificazione generale delle mansioni, con effetti che il sindacato non poteva più ignorare.
Anche Silvio Leonardi tornava sulla questione della dequalificazione, nodo centrale della rivoluzione fordista che stava cambiando la struttura produttiva dell’Italia. Il sindacato, secondo l’analisi proposta da Leonardi, si trovava in crisi perchè rispondeva con discorsi vecchi ad una composizione operaia nuova, a cui venivano «richieste soprattutto regolarità, agilità, e prontezza di riflessi, fattori cioè che dipendono soprattutto dalla età (di qui la preferenza per gli elementi giovani e molto giovani) e che possono essere ben poco modificati dall’esperienza [...] la sua esperienza soggettiva ha scarsissima rilevanza riguardo alla formazione di una qualifica personale e non è tale da compensare neppure gli effetti dell’invecchiamento naturale» <243.
La razionalizzazione aziendale che asserviva il lavoratore senza contropartite era, secondo Leonardi un progetto volto a devalorizzare il lavoro e le qualifiche. Il sindacato non poteva più limitarsi a lottare per l’agganciamento della paga all’aumento della produttività, ma doveva cogliere la necessità di istituire una carriera anche per gli operai dequalificati, aumentando la parte fissa della paga personale: «oggi le categorie di lavorazione, fissate da parte padronale e modificate con notevoli margini di arbitrarietà, servono come base per il calcolo degli incentivi di cottimo, portano di fatto ad un’ulteriore svalorizzazione della paga personale e sono, tra l’altro, elemento di frattura degli interessi operai» <244.
Di fronte alle carenze teoriche che avevano limitato l’azione della CGIL, “Rassegna sindacale” nel 1956 raccoglieva l’invito di Porcari a incoraggiare la formazione di quadri e dirigenti che garantisse la loro autonomia di giudizio: «il dirigente e l’attivista sindacale deve conoscere profondamente anche i problemi delle propria categoria, le condizioni oggettive, anche nei loro minuti particolari, nelle quali si svolge il lavoro nelle fabbriche, e in certe determinate fabbriche» <245.
Sullo stesso argomento interveniva anche Palumbo che invitava ad affrontare il problema del rinnovamento tecnico e di come si ponevano di fronte ad esso i sindacalisti. Constatando i limiti della scuola di formazione della CGIL, si invitava la confederazione ad un ripensamento deciso affinché non venissero formati quadri nell’ottica del sindacato come cinghia di trasmissione, ma come un moderno apparato in grado di inchiestare il tessuto produttivo: «bisogna innanzitutto chiedersi se la scuola sindacale della CGIL non debba essa pure subire delle radicali trasformazioni [...] preparando dei sindacalisti, che pur mantenendo salda la loro prerogativa di difensori della classe lavoratrice, non siano esclusivamente degli agitatori, ma siano edotti delle moderne tecniche di organizzazione del lavoro e abbiano nozioni di economia politica, di sociologia, merciologia, ecc E se è giusto che una grande organizzazione come la CGIL abbia una scuola e dei suoi corsi, essa [...] dovrebbe tendere, in accordo con la CISL e la UIL, a far organizzare presso le Università, in talune particolari Facoltà (ad esempio quella di Economia e Commercio) e presso idonei Enti culturali, dei corsi o seminari di studio comuni, per l’aggiornamento dei sindacalisti» <246.
Con il dibattito seguito al 1956 ancora nel vivo, Foa ebbe la lucidità e la prontezza di rilanciare l’unità sindacale come risposta alla crisi della CGIL, convinto che solo ripartendo dal lavoro reale il sindacato avrebbe potuto fornire risposte ai nuovi bisogni generati dalla riorganizzazione della fabbrica: «si può pensare, come pensano i marxisti, che il capitalismo contiene in sé la legge della sua distruzione e del passaggio al socialismo; si può pensare, invece, che il capitalismo possa essere salvato mediante correzioni più o meno importanti [...] ma i problemi della difesa del lavoro come cardine dello sviluppo economico e della stessa democrazia politica [...] deve essere obiettivo comune a tutti» <247.
La rigida impostazione dogmatica che aveva caratterizzato gli interventi della direzione sindacale era spezzata, una breccia era stata aperta nel dogmatismo e interventi che andavano in questo senso erano ospitati dalle riviste sindacali. Nel 1957 Angelo di Gioia analizzava l’incapacità dei sindacati di intervenire nel processo di regolazione dell’adozione dell’organizzazione scientifica del lavoro. La CGIL, basando la sua azione solo sulla rivendicazione di aumenti salariali non era stata in grado di intervenire su questioni cruciali quali la riorganizzazione dei processi.
La crescente divisione del lavoro e la dequalificazione professionale erano processi insiti nelle dinamiche di meccanizzazione e automazione. Il sindacato avrebbe dovuto confrontarsi con l’organizzazione scientifica del lavoro accogliendo la complessità di un argomento così delicato che non poteva essere liquidato con la semplice condanna dell’uso del cronometro e il rifiuto dell’aumento dei ritmi, opponendo quindi ad una visione scientifica un’analisi scientifica che ne smentisse i presupposti: «la pretesa scientificità del sistema delle classi di lavorazione tende, infatti, a prospettare come norme tecniche obiettive elementi decisivi del rapporto di lavoro, per sottrarli così alla sfera della contrattazione sindacale; ma la stessa staticità del sistema è la riprova della sua scarsa fondatezza, non essendo possibile cristallizzare una volta per sempre elementi fondamentali delle condizioni di lavoro, mentre è indubbiamente utile una analisi dei posti di lavoro che ne metta in evidenza i mutamenti e le tendenze obiettive» <248.
Sebbene Di Gioia riconoscesse l’obbligo per la CGIL di costituirsi come soggetto inchiestante per cogliere la razionalità collettiva operaia, era forte la diffidenza nei confronti dei sociologi impegnati nelle aziende e visti come tecnici al servizio delle politiche padronali di sfruttamento: «nei confronti dei problemi della organizzazione del lavoro il sindacato ha, in primo luogo, il compito di conoscere e approfondire quanto viene prospettato o realizzato da parte imprenditoriale, come pure da parte di studiosi specializzati, anche se questi operano generalmente sotto l’ispirazione padronale. Spetta poi al sindacato farsi una propria valutazione di questi problemi, basandosi soprattutto su una indagine da condursi tra i lavoratori, che qualifichi le maestranze stesse come “ricercatore collettivo” della tecnica e della scienza della organizzazione del lavoro» <249.
L’inchiesta avrebbe dovuto mantenere l’ottica sindacale al fine di garantire la possibilità di una partecipazione dei lavoratori alle innovazioni in atto «di partecipare insomma al progresso tecnico, non solo mediante il continuo miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, ma conquistando il diritto di esercitare determinati controlli e introducendo nelle aziende forme - anche elementari o indirette - di cogestione» <250.
L’apertura a tematiche nuove e nuove prospettive di analisi riscontrabili tra il 1955 e il 1957 costituirono una parentesi, come rilevato anche da Accornero il quale sottolinea come negli anni seguenti si registrasse un ritorno della CGIL ad un’impostazione più ortodossa e allineata alle posizioni del PCI. Nondimeno, la breccia era stata aperta e questa ebbe il merito di portare l’impostazione analitica su posizioni che si sarebbero affermate definitivamente nel corso degli anni Sessanta.
Le prospettive crolliste e le letture malthusiane non tardarono a riaffacciarsi nel dibattito interno al sindacato, come nell’articolo di Giustiniani della Montecatini del 1960: «il capitalismo ha potuto mantenere un suo equilibrio e garantirsi una sorta di sviluppo, solo suscitando e creando un insieme di consumi che sono altrettanto parassitari di quelli configurati e previsti nelle impostazioni di Malthus, poiché sono egualmente avulsi da ogni bisogno reale, organico, storicamente maturo dell’umanità lavoratrice, ossia in concreto, della mano d’opera impiegata nel processo produttivo» <251.
Giustiniani criticava anche l’impostazione di Keynes, che a suo avviso aveva distorto le dinamiche sindacali: «si tratta in primo luogo di allargare,e stendere, rendere universale e completa la soddisfazione di quei bisogni che scaturiscono dalla posizione stessa di una forza lavoro pienamente ed economicamente impegnata nella produzione [...] l’insieme di quei consumi che garantiscono al lavoro al possibilità di continuare a essere impegnato, a livello tecnico e in modo economico, nel ciclo produttivo» <252.
In ogni caso, la sociologia del lavoro e l’adozione delle sue pratiche, dal 1955 furono argomenti ampiamente trattati in seno alla CGIL. Lo conferma il titolo di un convegno promosso dall’istituto Gramsci nel 1959, “Marxismo e sociologia”, il cui contenuto era riassunto dall’intervento di apertura di Lucio Colletti, pubblicato su “Società”.
Colletti riprendeva l’attualità del Libro I del "Capitale" di Marx affermando come in quest’opera l’oggetto di studio di Marx non fosse «la società, cioè l’astrazione della società “in generale”, ma questa società; vale a dire l’argomento dell’analisi non è un’idea (un oggetto ideale), ma un oggetto materialmente determinato o reale. Questo in primo luogo» <253.
Veniva accusata la sociologia borghese di essere metafisica, ad essa veniva opposta una sociologia che divenisse strumento di analisi di classe, ritornando a Marx il quale non si era limitato alla semplice teoria economica, ma «fece cioè a un tempo economia e storia, economia e sociologia [...] mai in Marx, dunque, categorie economiche che siano categorie economiche pure. Tutti i suoi concetti, al contrario, sono economici e sociologici insieme» <254.
Colletti riaffermava il ruolo della sociologia all’interno di categorie marxiste di analisi e svelamento della critica all’economia. Il nuovo utilizzo della sociologia avrebbe dovuto liberare questa disciplina dalla pretesa neutralità a cui l’aveva portata il pensiero borghese dopo Weber per riacquistare le caratteristiche di scienza delle lotte: «ecco l’unità organica di economia e sociologia: il concetto di classe: nel duplice significato sia di fattori o condizioni oggettive della produzione (naturalmente: a una certa fase storica della divisione del lavoro) sia di agenti politici dell’intero processo sociale umano» <255.
Allo stesso congresso “Marxismo e sociologia” partecipò anche un giovane studente romano, che in seguito avrebbe dato via ad una riflessione attorno all’uso dell’inchiesta operaia nel gruppo politico dei “Quaderni rossi”, Mario Tronti. Egli ribadiva con forza la necessità per i marxisti di impiegare strumenti sociologici, al fine di rinnovare proprio con l’analisi sociologica le categorie marxiane di lettura della società: «l’unica sociologia per noi è il marxismo. Cioè, l’unica analisi scientifica che noi abbiamo della società è il marxismo. Io direi ancora di più: che questa sociologia marxista non è qualcosa di fissato in canoni ormai acquisiti, ma è in continua elaborazione e sviluppo» <256.
Tronti al tempo stesso vedeva come sola prospettiva possibile per l’analisi all’interno del movimento operaio la figura di sintesi dello scienziato capace di tenere assieme economia, storia e sociologia: «questo scienziato marxista [...] riesce, con un equilibrio che è proprio un equilibrio scientifico, pratico, conquistato non una volta per tutte, ma quotidianamente, nella ricerca e nel contatto pratico, a garantire un legame concreto e con la teoria, da un lato, e con la pratica, cioè con la classe, con il Partito, dall’altro. Un doppio cammino che poi si unifica proprio all’interno del lavoro intellettuale, per cui si ritrova sia il marxismo teorico, sia la lotta pratica e politica del movimento operaio in generale» <257.
[NOTE]
235 S. Leonardi, Due faccie delle “Human Relations” in “Rassegna sindacale” n. 3, 1956, pp. 67-68.
236 Ivi, p. 68.
237 Ivi, p. 69.
238 Ivi, p. 70.
239 Cfr. ADL, cart. 13-II-B 6. Accanto a queste osservazioni si trova la recensione di Problemi umani del macchinismo industriale di G. Friedmann a cura dello stesso S. Leonardi.
240 R. Spesso, I sindacati e il progresso tecnico in “Rassegna sindacale” n. 8, 1956, p. 249.
241 Ivi, p. 250.
242 G. Cesari, G. Torno, Di fronte ai nuovi metodi di organizzazione del lavoro nelle aziende minori in “Rassegna sindacale” n. 11, 1956, p. 338.
243 S. Leonardi, Paghe e qualifiche nell’odierna azienda razionalizzata in “Rassegna sindacale” n. 13, 1956, pp. 401-402.
244 Ivi, p. 403.
245 L. Porcari, Un’autonomia politica di quadri del sindacato e per il sindacato in “Rassegna sindacale” n. 20-21, 1956, p. 591.
246 P. Palumbo, L’istruzione di cui abbiamo bisogno in “Rassegna sindacale” n. 20-21 1956, p. 594.
247 V. Foa, Cogliere il “nuovo” che s’impone al sindacato in “Rassegna sindacale” n. 23, 1956, p. 651.
248 A. Di Gioia, Compiti del Sindacato nei confronti dell’organizzazione “scientifica” del lavoro in “Rassegna sindacale” n. 15-16 1957, p. 436.
249 Ivi, p. 438.
250 Ivi, p. 439.
251 A.t., Questo capitalismo è malthusiano in “Rassegna sindacale” n. 30, 1960, p. 1479.
252 Ivi, p. 1481.
253 L. Colletti, Il marxismo come sociologia in “Società” n. 4, 1959, p. 623.
254 Ivi, p. 634.
255 Ibidem. Sul numero seguente di “Società” Angela Massucco Costa riprendeva l’analisi della sociologia aperta dall’intervento di Colletti analizzando la diffidenza della sinistra nei confronti della sociologia. Infatti, la disciplina doveva essere liberata da equivoci, dal momento che essa veniva percepita come scienza al servizio della pianificazione tecnocratica: «il difetto di una tale sociologia, prevalentemente e superficialmente descrittiva, e l’analogo difetto delle tecno-sociologie che operano sul terreno pratico per una ristrutturazione pianificata “razionalmente” della società, così da renderla conforme a un surrettizio normativo di organizzazione conservativa dei valori tradizionali, discendono dalla mancata accettazione di un criterio classificatorio ed euristico come quello marxista; che offre oggi, ad ogni ricerca sociologica che miri ad accertare i fattori o le condizioni particolari in cui si verifica la trasformazione storica nel solco economico-politico, il quadro di riferimento più netto e più fecondo per la comprensione della nostra società» in A. Massucco Costa, Prospettive nella ricerca sociologica in “Società” n. 5, 1959, p. 956.
256 M. Tronti, A proposito di marxismo e sociologia in G. Trotta, F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta. Da “Quaderni rossi” a “Classe operaia”, Roma, Deriveapprodi, 2008, p. 78.
257 Ivi, p. 79.
Daniele Franco, Dalla Francia all’Italia: impegno politico, inchiesta e transfers culturali alle origini della sociologia del lavoro in Italia, Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2009