Powered By Blogger

martedì 14 dicembre 2021

Giannini utilizzò la caricatura e lo sberleffo

Fonte: Biblioteca Nazionale Centrale di Roma

"Questo non è un giornale umoristico, pur pubblicando caricature e vignette; non è un giornale “pesante”, pur volendo onorarsi della collaborazione di grandi scrittori su argomenti di drammatico interesse; non è un giornale frivolo, pur non rinunziando alle pettegole Vespe. È il giornale dell’Uomo Qualunque, stufo di tutti, il cui solo ardente desiderio è che nessuno gli rompa più le scatole" <1.
Così si presentava, il 27 dicembre 1944, «L’Uomo Qualunque», un settimanale romano ideato e in larga parte scritto dal commediografo napoletano Guglielmo Giannini <2, destinato a essere - con una tiratura superiore alle 850.000 copie - il periodico di maggiore diffusione nell’Italia del secondo dopoguerra. Il successo fu tale che il giornale diede vita a un partito politico (il Fronte dell’Uomo Qualunque) capace di conquistare trenta <3 seggi all’Assemblea Costituente e affermarsi come partito di maggioranza in molti centri del Meridione in occasione delle elezioni amministrative dell’autunno 1946. Forte di un linguaggio semplice e diretto e di tematiche care alle necessità più immediate dell’uomo della strada, «L’Uomo Qualunque» fece della satira una delle armi più taglienti per denunciare il malcostume politico e attaccare la classe dirigente antifascista. Il giornale si serviva tanto della penna di Giannini, quanto dei disegni di Livio Apolloni, già collaboratore del «Travaso» e del «Marc’Aurelio» e di Giuseppe Russo, in arte Girus, collaboratore anche lui del «Travaso», ma anche dell’«Asino», del «Becco Giallo», del «Monocolo» e del «Corriere dei Piccoli». Non a caso il giornale si definiva un «settimanale politico satirico» <4. Fin dal primo numero, Giannini utilizzò la caricatura e lo sberleffo per attaccare tutto ciò che non sopportava dell’Italia antifascista. Quest’uso della satira, per quanto presente in tutte le sezioni del giornale, trovò la sua più perfetta applicazione nella rubrica «Le Vespe», una serie di capoversi, spesso indipendenti l’uno dall’altro, così chiamati per la loro capacità di pungere e «accennare di volo» <5, presentati come un efficace strumento di critica perché «a volte, sfottendo sfottendo...» si mettevano in risalto i veri problemi del Paese <6. «Le Vespe» riprendevano l’omonima rubrica presente nel primo giornale che Giannini aveva fondato, a diciotto anni, «Il domani», ma vi si poteva avvertire l’affinamento guadagnato dallo scrittore attraverso la collaborazione, qualche anno dopo, al giornale umoristico napoletano «Monsignor Perelli». Presentate come una «rubrica di pettegolezzi» e basate su aneddoti curiosi e sul gusto per il ridicolo, trattavano comunque temi di forte impatto politico, al punto che Giannini sosteneva che questa fosse «la più importante rubrica politica d’Italia». <7 Giannini amava andare controcorrente, si definiva un anarchico e, da buon uomo di teatro <8, aveva il gusto per tutto ciò che causava stupore o che urtava la moralità altrui e proprio per questa ragione l’uso delle parolacce divenne, fin dal primo numero, uno dei caratteri distintivi del settimanale: «noi non le abbiamo mai vendute in borsa nera le nostre parolacce: le abbiamo regalate, prodigate, con inesausta generosità» <9. Il linguaggio in sé - forse più del contenuto - fungeva da strumento di critica e di opposizione. Giannini voleva ostentatamente contrapporsi alla struttura di potere che si andava creando in Italia con la caduta del fascismo e rifiutava di riconoscerne la legittimità.
[NOTE]
1 GIANNINI, Guglielmo, in L’Uomo Qualunque (UQ), I, 1, 27 dicembre 1944.
2 Per un quadro generale su Guglielmo Giannini cfr. GIANNINI, Guglielmo, «La grande avventura dell’Uomo Qualunque raccontata da Guglielmo Giannini», in SCOGNAMIGLIO, Gennaro (a cura di), Enciclopedia del Centenario: Contributo alla storia politica, economica, letteraria e artistica dell’Italia meridionale nei primi cento anni di vita nazionale, vol. II, Napoli, D’Agostino, 1960.
3 Il gruppo qualunquista alla Costituente accolse poi altri sette deputati, eletti in altre liste.
4 GIANNINI, Guglielmo, «Le Vespe», in UQ, IV, 2, 8 gennaio 1947.
5 ID., «Le Vespe», in UQ, II, 2, 10 gennaio 1945.
6 ID., «Le Vespe», in UQ, II, 5, 31 gennaio 1945.
7 ID., «Le Vespe», in UQ, II, 15, 30 maggio 1945.
8 Giannini fu un commediografo di discreto successo, a lui può essere attribuita l’introduzione della commedia di genere poliziesco in Italia.
Maurizio Cocco, Le vespe qualunquiste e la satira politica, Diacronie, N° 11, 3/2012

Fonte: Biblioteca Nazionale Centrale di Roma

L'Uomo Qualunque
fu dapprima la testata di un giornale nato sotto il segno della protesta. L'aveva fondato Guglielmo Giannini che, da buon teatrante, autore di commedie senza troppe pretese, ma di grande mestiere, aveva vivissimo il senso del pubblico e sapeva coglierne a volo gli umori. Questi umori erano soprattutto dei malumori provocati, specialmente nel Sud, non soltanto dalle frustrazioni e dai disagi della sconfitta, quanto dalla diversa temperie in cui erano immersi i due tronconi del Paese. Occupato subito dagli Alleati, il Sud non aveva avuto la Resistenza, e quindi non ne condivideva le passioni. Subiva il vento del Nord come un sopruso, che gli risvegliava nel sangue nostalgie borboniche, e rifiutava tutto ciò che puzzasse di CLN.
Giannini intuì questo stato d'animo, e lo interpretò alla perfezione, soprattutto in due rubriche del suo giornale, le «vespe» e le «parolacce». Sebbene di madre inglese, era un napoletano verace, alla Scarfoglio, portava il monocolo, la sua eleganza era un po' da guappo, e se nei rapporti umani non mancava di finezze, nel suo linguaggio di giornalista sapeva adeguarsi a quello del loggione e della taverna. Ma fu proprio questa voluta rozzezza a renderlo efficace. Senza rifuggire dal turpiloquio, ostentato anzi come antitesi della nuova oratoria e pubblicistica, egli prese a smontarne i miti, l'enfasi resistenzialista e il virtuismo democratico. Ebbe il compito facilitato dai suoi avversari, specialmente da quelli di sinistra, che con le loro pretese di palingenesi e le loro smanie epuratrici stavano provocando nel Paese una crisi di rigetto. In pochi mesi L'Uomo Qualunque raggiunse quasi il milione di copie. E probabilmente fu proprio questo successo la sua disgrazia. Giannini se ne sentì indotto a creare addirittura un partito. Chi scrive può testimoniare ch'egli non aveva in realtà né vocazione né ambizione politica. Tant'è vero che, fondato il partito, egli l'offrì a Nitti («Ve lo volete accolla' - gli disse - 'sto pupazzo?»), che rifiutò. Il vecchio statista lucano sapeva benissimo che il qualunquismo non era affatto, come dicevano i suoi denigratori - che erano tutti - una riedizione del fascismo. Giannini non era mai stato fascista, aveva perso l'unico figlio nella guerra voluta dal fascismo, era l'interprete di una certa «maggioranza silenziosa» (ma non tanto) che anche sotto e contro il fascismo aveva protestato. Ma Nitti sapeva anche che un partito (ma Giannini lo chiamava «Movimento») senza radici nella storia né ancoraggio ideologico, basato soltanto sulla protesta, non poteva avere un domani. E così fu. Ma ciò non toglie che nel '46 avesse un presente. Glielo assicuravano gli altri partiti coi loro errori, e soprattutto con la loro pretesa di riscrivere la storia d'Italia a loro immagine e somiglianza e presentando il ventennio mussoliniano come un lungo golpe perpetrato da un manipolo di criminali contro il popolo.
Alla politica, che voleva impadronirsi di tutto - ed erano i primi segni di quella partitocrazia che tuttora avvelena l'Italia - Giannini oppose una vaga alternativa di «Stato amministrativo», non politico o almeno non politicante, che soddisfaceva soprattutto una piccola borghesia impiegatizia meridionale, allergica a una demonizzazione del fascismo in cui si sentiva coinvolta. Era una reazione di pelle, povera d'idee, su cui non si poteva costruire nulla di duraturo. Ma ciò non toglie che Giannini un servigio lo rese: sgonfiò, ridicolizzandoli, molti miti, smascherò molte bugie. Ci sono voluti decenni perché alcune delle verità sbandierate da Giannini, come ad esempio il fatto che il fascismo aveva goduto un imponente consenso popolare, venissero riconosciute e, sia pure a denti stretti, accettate.
La stella di Giannini declinò con la stessa rapidità con cui si era accesa. Il qualunquismo era stato un fenomeno spontaneo, reazionario nel senso etimologico della parola. E si esaurì quando la sua funzione divenne superflua, cioè quasi subito. Giannini morì povero e solo: nemmeno il giorno del funerale gli furono risparmiati scherni e beffe.
Indro Montanelli - Mario Cervi, Storia d'Italia. L'Italia della guerra civile. Dall'8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983

Fonte: Biblioteca Nazionale Centrale di Roma

Come nota Del Bosco, con il suo stile, «Giannini riusciva a cogliere e ad esprimere in termini plebei le inquietudini che serpeggiavano nel partito liberale e in alcuni settori della democrazia cristiana» <383.
Nelle parole di Salvatore Lupo, Giannini «rendeva nel suo stile colorito la stessa diffidenza che provava istintivamente una parte dell’opinione pubblica» <384.
Dietro la sua affermazione si affiancava quindi al suo ruolo di cantore del dissenso popolare, il suo essere, per dirla con Cofrancesco <385, un moderno Tersite, eroe plebeo e dileggiatore dei potenti. «L'Uomo Qualunque» era la vetrina in cui esporre vizi e difetti della classe politica; la sua berlina ideale era la vignetta «Pdf», nel margine inferiore della prima pagina di ogni numero, proprio sotto le «Vespe», in cui rinchiudere gli avversari e così dargli del «pezzo di fesso». Il più appariscente e distintivo elemento delle colonne qualunquiste erano le parolacce e i neologismi che condivano la cronaca e il commento politico.
Ebbero grande diffusione: secondo Giannini si ripetevano nei salotti mondani e perfino negli ambienti ecclesiastici, per certo costituivano qualcosa di nuovo e irriverente, «in quel tempo erano entusiasti delle mie parolacce - ricorda Giannini - non solamente il ceto medio in giacca scura e pantaloni grigi, ma anche zimarre molto e variamente colorate erano contentissime di udire quella esplosione di contumelie» <386. «Non è vero che ci scappano - precisava - le diciamo apposta» <387.
Nel ritratto di Montanelli, «se nei rapporti umani [Giannini] non mancava di finezza, nel suo linguaggio di giornalista sapeva adeguarsi a quello del loggione e della taverna. Ma fu proprio questa voluta rozzezza a renderlo efficace. Senza rifuggire dal turpiloquio, ostentato anzi come antitesi della nuova oratoria e pubblicistica, egli prese a smontarne i miti, l’enfasi resistenzialistica e il virtuismo democratico» <388. Con toni accesi, irriverenti, volgari e popolari, Giannini si scagliava contro l'epurazione, il fascismo, l'antifascismo, la guerra, il sistema politico italiano. Il suo era un discorso politico veicolato da barzellette, storielle verosimili, rime beffarde e canzonatorie.  
Scritti e vignette, nelle pagine del giornale qualunquista andavano di pari passo, spesso la vignetta principale che stava al centro della prima pagina (opera, quasi sempre, di Girus) era il contorno, se non proprio il riassunto, dell'editoriale del Fondatore; mentre il posto d'onore nel «Pdf» si guadagnava solo dopo una lunga esposizione al ronzio delle «Vespe».
Non fu però, come scrive Stelio Milio, il primo settimanale satirico-politico dell'Italia liberata «altre testate l'hanno preceduto, ma è il primo a fare della satira e della caricatura un poderoso ariete contro politicanti e parolai» <389. Ironia e satira furono, senza dubbio, fra le ragioni del successo di questo fenomeno, «in un Paese appena uscito dai drammi della guerra era assai diffusa una istintiva esigenza di tornare a sorridere: e Giannini riusciva ad assecondare anche questa» <390.
Sono temi e linguaggi, quelli del giornale, che entreranno poi nella ritualità politica del partito qualunquista - a cui daremo ampio spazio nei capitoli successivi - fra uso politico della commedia e un nuovo modo di fare politica; basti ora soffermarsi su una sorta di valore politico della risata che Giannini intendeva glorificare. Contro la dittatura - che, come i dittatori, è sempre uguale - l'arma della folla è il pernacchio che fa vacillare il despota sul piedistallo su cui si regge grazie al terrore <391.
La sua dichiarata e applicata volontà era di fare un giornale di evasione e divertente, perché «gli articoli sull’Avanti e sul Corriere di Roma vanno bene per gl’intellettuali, non per la gente ordinaria» <392. Era d'altronde il dichiarato obiettivo, anzi «dovere», del giornale quello di «sfatare certe vecchie e noiose leggende sulla presunta purità di determinate politiche e di provare, invece, che le politiche e i politici, quando sono professionali e dunque fini a se stesse, son tutte disperatamente uguali» <393.
Come nota Setta, l'ironia e la satira furono fra le ragioni del successo di Giannini, «in un Paese appena uscito dai drammi della guerra era assai diffusa una istintiva esigenza di tornare a sorridere: e Giannini riusciva ad assecondare anche questa» <394.
Quanto descritto finora prendeva forma consistente nel ritratto sarcastico e derisorio degli avversari politici. Girus e Giannini, interpretavano con grande efficacia quel gusto italiano per la risata che Gec ha definito scettico, «all'insegna filosofica partenopea Accà nisciuno è fesso». Se è vero, come continua Gec, che l'italiano «non prende mai nessuno sul serio o, meglio, ritiene che nessuno sia degno di esser preso sul serio» e per questa ragione è «uno scaraventatore di idoli giù dai piedistalli», nessun giornale, più de «L'Uomo Qualunque» rese al meglio, nell'Italia dell'immediato dopoguerra, questo bisogno. Girus, nelle sue vignette congegnate con arte addensava la sufficienza nei confronti degli «uomini politici che davano scandalo rissando come scaricatori di porto a Montecitorio, e trafficando, rubando, corrompendo in privato, in contrasto con povericristi famelici straindebitati» <395.
D'altronde, scriveva Giannini, «Girus come tutti i disegnatori, non fa che tradurre in disegno il pensiero dei direttori dei giornali» <396.
Giannini, invece ritraeva partiti, istituzioni e politici dagli angoli più bislacchi, li derideva e ne storpiava i nomi: il vento del Nord diventava «rutto del Nord», l'acronimo Cln veniva sciolto in «Consorzio Lavativi Nequitosi», il Partito d’Azione, veniva definito «il partito più ridicolo del bacino Centro-mediterraneo» e «il più ridicolo dei partiti a est del meridiano di Greenwich» <397. Così Piero Calamandrei diventava “Caccamandrei” o “Camaleontèi”, Luigi Salvatorelli il “filosofesso Servitorelli”.
A molti di questi venivano dedicati versetti irrisori, come a Fausto Gullo, ministro comunista promotore di una serie di interventi di riforma agraria, chiamato "Faustro Grullo": «Come l’acqua avversa il fuoco, come il molto aborre il poco, comunisti e proprietari son di solito avversari. Ma non è così citrullo il compagno Fausto Gullo, gran borghese, forte agrario, comunista e milionario» <398. La questione giuliana e le accuse ai comunisti di fare il gioco dei titini venivano risolte consigliando a De Gasperi di «offrire Scoccimarro alla Jugoslavia, e tenerci il Friuli» <399. Stesso trattamento riceveva Pietro Nenni, detto «capp’e provola» e paragonato a Mussolini per il suo accento: «Abbiamo udito romagnolità come “un vuomo”, come “l’Itaglia”, e se nel vecchio trombone ci fosse stato un po’ di miglior metallo si sarebbe potuto, chiudendo gli occhi, illudersi d’ascoltare “l’altro”». <400
Non un migliore trattamento era riservato a Carlo Sforza, ministro degli esteri e promotore del primo decreto in materia di epurazione: «Dicono che Sforza parli sempre di donne. Carino, lui! Tutto sta a vedere se le donne parlino di lui qualche volta» <401.
Era facile passare, nel pensiero gianniniano, dagli altari alla polvere: Nenni, prima di essere «il foruncolo al culo della vita politica italiana» <402, era stato lodato quale ideale di europeo e, nonostante a dibattito spento lo considerasse, a parte le differenze ideologiche, «un buon amico, un galantuomo, una persona stimabile e stimata» <403, non gli aveva perdonato il patto di unità d'azione con il Pci togliattiano. Nei mesi in cui Giannini girava per Roma in cerca di una identità politica - i mesi del suo più fervente repubblicanesimo, come abbiamo visto - s'incontrò con lo stesso Nenni prima di tracciarne un lodevole profilo biografico in prima pagina <404, chiedendogli perché non costituisse un partito laburista, ma questi gli rispose di non avere i mezzi del partito comunista. «Bisogna dire, a dispetto della simpatia che ispira quest'uomo, pieno di qualità, d'ingegno, di virtù, ch'egli non ha altro programma e altro obbiettivo che quello di far da staffetta al Comunismo: troppo poco per una forza politica che dispone di 75 voti nella Camera Italiana d'oggi e potrebbe esserne l'arbitra» <405. «Gli rimane però nel cranio provoloni un residuato di mussolinismo, di fascismo e anche di nennismo, che lo porta a romagnoleggiare per mascherare la sua sostanziale incapacità di trasformarsi da oppositore in costruttore. Sono ormai cinquant'anni che Pietro fa l'oppositore bisogna perdonargli se non sa far altro» <406.
Lo stesso era stato per Ferruccio Parri, accolto quale «uno dei nostri» <407, diventava rapidamente, per i suoi attacchi al ceto medio, "Fessuccio".
La sorte peggiore era quella riservata a partiti e movimenti contigui, facenti riferimento agli stessi settori dell'opinione pubblica (o, quando il giornale si fece partito, allo stessa fetta di elettorato). In ragione di ciò, Benedetto Croce, la «croce del partito liberale», veniva spedito nel Pdf quale «maledetto Croce» <408. «Nessuno più di lui rassomiglia a quel tale che trovatosi inopinatamente in possesso d’un cannone lo utilizzò andando con esso a caccia di passeri. Il più grande, il più clamoroso, il più significativo insuccesso politico italiano è quello di Benedetto Croce» <409.
Edmondo Cione, filosofo vicino agli ambienti della Rsi, che aveva più volte tentato l'ingresso nell'Uomo Qualunque, ma era sempre stato espulso per volontà di Giannini e quindi ne era diventato oppositore zelante, si trasformava in «Immondo Cione», a cui dare «del "piattone" (in napoletano "chiattillo") i cui esemplari sono numerosissimi, hanno cervelli da leone, s'attaccano al coglione, e come ogni carognone tipo Immondo Cione, sfruttano il fascistone sperando nell'elezione!» <410.
Per Lauro non venivano risparmiate contumelie di ogni sorta: il «pirata», un improvvisato aristocratico della moneta, uno di cui diffidare perché ha fatto i soldi troppo in fretta, un volgare affarista <411, «l'illustre scapocchione che ha speso un miliardo e mezzo per avere il piacere di sedere alla Camera e di contare meno del due di briscola dopo aver rovinato il partito monarchico creato da Alfredo Covelli» <412.
«Ciò che più esasperava gli avversari - secondo Giannini - erano i nomignoli, i qualificanti azzeccati, la beffa spietata che colpiva tanto più forte quanto più potente e temibile era ritenuto il personaggio che ne era oggetto.
[NOTE]
383 M. Del Bosco, Tutti fessi meno io cit.
384 Salvatore Lupo, Partito e Antipartito. Una storia politica dell’Italia Repubblicana (1946-78), Donzelli, Roma 2004, p. 48.
385 Cfr. D. Cofrancesco, Qualunquismo, in Dizionario del liberalismo italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, p. 845.
386 Cfr. Parole senza veli, in UQ, VII 51, 21 dicembre 1949.
387 G. Giannini, Le Vespe, in UQ, II, 19, 27 giugno 1945.
388 Cfr. I. Montanelli, Ritratti cit., p. 374.
389 Stelio Milio, Dal fascismo alla repubblica, in E. Gianeri (a cura di), Cento anni di satira politica in Italia cit., p. 84.
390 S. Setta, L'opposizione di destra, in Silvana Casmirri (a cura di), Partiti e istituzioni in Italia tra guerra e dopoguerra, ESI, Napoli 1994, p. 195.
391 Cfr. G. Giannini, Pernacchio al dittatore, in UQ, XVI, 30, 29 luglio 1959.
392 Id, Le Vespe, in UQ, II, 1, 3 gennaio 1945.
393 Cfr. Vecchi tromboni del politicantismo, in UQ, III, 36, 4 settembre 1946.
394 S. Setta, L'opposizione di destra, in Silvana Casmirri (a cura di), Partiti e istituzioni in Italia tra guerra e dopoguerra, ESI, Napoli 1994. p. 195.
395 Cfr. E. Gianeri, Cento anni di caricatura politica in E. Gianeri (a cura di), Cento anni di satira politica in Italia, cit., p. 17.
396 G. Giannini, Le Vespe, in UQ, II, 12, 9 maggio 1945.
397 G. Giannini, Le Vespe, in UQ, II, 36, 24 ottobre 1945.
398 G. Giannini, Le Vespe, in UQ, II, 20, 4 luglio 1945.
399 Id., Le Vespe, in UQ, II, 14, 23 maggio 1945.
400 Id., Le Vespe, in UQ, II, 14, 23 maggio 1945.
401 Id., Le Vespe, in UQ, III, 2, 10 gennaio 1946.
402 Id., Le Vespe, in UQ, IV, 11, 12 marzo 1947.
403 Id., Le Vespe, in UQ, IX, 47, 24 dicembre 1952.
404 Cfr. Id., L’Europeo Pietro Nenni, in UQ, I, 6, 7 febbraio 1945.
405 Id., Le cose più grandi di Pietro, in UQ, XI, 8, 24 febbraio, 1954.
406 Id., Le Vespe, in UQ, XII, 27, 28 settembre 1955.
407 Cfr. Specola, in UQ, II, 18, 20 giugno 1945.
408 La prima vignetta di questo tipo è in UQ, V, 18, 12 maggio 1948.
409 G. Giannini, Croce del partito liberale, in UQ, III, 44, 30 ottobre 1946.
410 Id., Le Vespe, in UQ, X, 2, 14 gennaio 1953.
411 Cfr. Certi fregnoni dicevano ch'eravamo morti, in UQ, V, 10, 10 marzo 1948.
412 G. Giannini, Il M.S.I. al bivio, in UQ, XVII, 16, 20 aprile 1960.
Maurizio Cocco, Il Qualunquismo Storico. Le idee, l’organizzazione di partito, il personale politico, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2014