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giovedì 23 dicembre 2021

Quello che Rubino ha scritto è come una lettera agli uomini


Dopo il giugno del 1943 né l'autore né la rubrica compariranno più sulla testata per lasciare spazio alle pressanti discussioni sulla ricostruzione che richiedevano tutta la carta che la redazione di "Stile" aveva a disposizione. Collaboratore della rivista tra il 1943 e il 1945 sarà Rubino Rubini, giovane poeta e traduttore, ligure di nascita ma laureatosi in lettere a Milano, che morirà partigiano a solo ventiquattro anni nei giorni seguenti la liberazione di Milano <290. Rubini si occupa principalmente di critica letteraria, commentando la produzione di scrittori italiani e anche stranieri, segno che dall'estate del 1943 "Stile" si stava lasciando alle spalle l'eredità fascista per aprirsi agli orizzonti internazionali. Il suo primo articolo uscì nel numero di giugno del 1943 ed era dedicato alla figura di Giovanni Boine, collaboratore della rivista "Riviera Ligure" (per cui aveva scritto anche Rubini), dove pubblicava racconti brevi e dichiarazioni di poetica <291. Interessante è notare la sua collaborazione con Lisa Ponti nel numero del luglio 1944, dove i due offrono al lettore un ritratto di Katherine Mansfield riportando vari estratti dei suoi poemetti e delle sue lettere tradotti da Rubini stesso per il testo Nuovi racconti, pubblicato a Milano nel 1944 <292.
Fondamentale nel suo lavoro per "Stile" era stato l'incarico di tradurre i testi di Le Corbusier, Les quatres routes del 1941 e La maison des hommes del 1942, che erano ritenuti da Ponti imprescindibili per i teorici della ricostruzione e di cui egli stesso citerà diversi estratti. L'articolo Le Corbusier 1939-Noi 1944 riporta infatti parti del primo capitolo di Les quatres routes per dimostrare come nonostante l'architetto francese fosse persuaso della vittoria contro il Reich, a sconfitta avvenuta non si fosse ritirato dalle scene, al contrario, aveva comunque pubblicato i suoi testi per "costruire il paese con uno spirito nuovo ed elevarlo nel suo sforzo costruttivo", in un atteggiamento di fiducia verso il futuro della propria nazione <293.
Sul numero 3 del 1945 sono raccolti una serie di articoli commemorativi scritti in occasione della morte di Rubini e Ponti introduce un suo articolo postumo (Una Terra) con una commossa evocazione del giovane "di cui resta in noi il ricordo vivo, e restano sovrattutto le testimonianze delle sue pagine vive e il nostro accorato pensare si rida di noi uomini, e spezzi incurante gli ingegni e i cuori migliori" <294.
Il testo di Rubini è un ricordo della sua terra, la Liguria, resa viva agli occhi del lettore tramite le descrizioni della natura, del clima, delle persone (in particolare dei suoi genitori), ma messa in relazione alla tragicità della guerra, che sconvolge la bellezza e l'equilibrio con l'assurdità della violenza: "I ricordi e la paura mi negano persino il diritto di parlare, sono un uomo senza destino ormai, la mia terra travolge gli steli e le cose di generazioni di fiori e di uomini, tutto si perde. [...] Mio padre mi scrive: 'Tre morti, un austriaco, un polacco, un italiano, sono sepolti nel cimitero nostro. Quando vado alla tomba del nonno metto un ramo di cipresso sulle loro fosse, così che se le loro mamme sono ancora vive sentiranno un leggero sollievo" <295.
L'ultima immagine che Rubini offre al lettore è invece quella della madre nella sua casa d'infanzia, ma anche qui è giunta la guerra che ha intaccato la purezza del luogo: "Mi chiedo perché e vedo mia madre seduta dietro la porta chiusa che attende il passaggio della guerra, sola, nella casa vecchia, mentre il vento si arriccia nell'impiglio degli ulivi e scuote i frutti che nessuno per quest'anno raccoglierà, e di notte la pioggia si rovescia dalle grondaie sui vicoli stretti del paese, mentre tutto poi trema e ha paura degli uomini e della morte" <296.
Su "Stile" viene pubblicato anche il testo poetico Litania degli italiani del 1944, che viene commentato da Lisa Ponti in un articolo che si chiama semplicemente Rubino. La poesia parla di un gruppo di giovani partigiani, che non vengono però descritti come "eroi della Resistenza", ma in modo realistico, con un'osservazione attenta e a tratti cruda, ricca di dettagli, che mostra al lettore dei personaggi reali, semplici ragazzi italiani: "Andremo tutti alla deriva, amici! dormiremo sotto i ponti, le vecchie ceste ci faran da cuscino. Dormiremo in piedi, attaccati ai muri delle carceri nei pomeriggi d'estate. Faremo l'amore sui tetti smaltati in dieci minuti mangeremo dai cartocci sulle panchine pubbliche e giorno per giorno ci aiuteremo a morire" <297.
Lisa Ponti lo descrive come un ragazzo "inquieto, disperato, fanciullesco. Magro, con una faccia appuntita. Penso a quando arrivava da noi e ci guardava lavorare poggiato allo stipite della porta, con le braccia incrociate, un po' corrucciato come un bambino" <298. Racconta anche le vicende relative alla sua morte con tale trasporto che il lettore inevitabilmente si sente coinvolto in questa vicenda umana: "Rubino non venne a colazione e lo maledicemmo ridendo. Ma passò il giorno. Passarono i giorni. Rubino? Eva [la moglie] divenne pallida e senza voce. Mandammo un messaggio radio. Dopo sette giorni qualcuno andò persino a vedere a Musoccio. Erano seppelliti da una settimana, tutti e sei, nel campo delle spie. Fu visto Rubino, in una bara stretta, spogliato e contratto" <299.
L'immagine che emerge dai ritratti di chi lo conosceva è quella di un ragazzo genuino e talentuoso strappato alla vita da una guerra che avrebbe dovuto essere breve e vittoriosa, ma che invece aveva devastato un continente.
"Tutto è autobiografico, quello che Rubino ha scritto è come una lettera agli uomini. Io credo che basti volerlo e ognuno diventa protagonista del proprio racconto. Lui no, non attendeva: sapeva invecchiare di un'ora, accorciando ogni tempo, senza pause, dieci anni in un anno, un anno in un mese" <300.
[NOTE]
290 G. P. [G. Ponti], Evocazione di Rubini, in "Stile", n. 3 (51) 1945, p. 29.
291 R. Rubini, Per un'immagine di Giovanni Boine, ivi, n. 31, luglio 1943, p. 43. Altri articoli: R. Rubini, Pensieri e riflessioni, ivi, n. 39, marzo 1944, p. 32; Id., Enrico Manuelli e i sentimenti, ivi, n. 40, aprile 1944; Id., Spiegazione di un sogno, ivi, n. 42, giugno 1944, p. 38.
292 Id., Sui poemetti di Katherine Mansfield, ivi, n. 43, luglio 1944, pp. 46; L. Ponti, Lettura della Mansfield, ivi, pp. 47-48.
293 G. Ponti e R. Rubini, Le Corbusier 1939-Noi 1944, ivi, n. 40, aprile 1944, p. 11. Cfr. G. Ponti, L'ora
dell'architettura, ivi, n. 27, marzo 1943, pp. 2-3; V. Casali, Le Corbusier: scritti e pensieri, Roma 2014.
294 G. Ponti, Evocazione di Rubini, in "Stile", cit., p. 29; R. Rubini, Una Terra, in "Stile", cit., p. 29.
295 R. Rubini, Una Terra, cit., p. 29.
296 Ibidem.
297 R. Rubini, Litania degli italiani, in "Stile", n. 3 (51) 1945, p. 31.
298 L. Ponti, Rubino, ivi, p. 33
299 Ibidem.
300 D. Porzio, Ricordo di Rubino, in "Stile", cit., p. 34.
Silvia Lattuada, Arti del tessile e dell’ago nell’editoria di Gio Ponti tra “Lo Stile” e “Fili”, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016

Esiste soluzione di continuità tra la poesia antecedente all’ermetismo e l’ermetismo? Qualche ricordo, alla buona: della poesia di D’Annunzio furono gloriosamente salvi lo studio accanito della forma, l’esemplare e costante premura d’osservazione. I crepuscolari ne subirono, a loro fisiche spese, l’impetuosità del contenuto. Gozzano lasciava i libri di Nietzsche per aiutare le disperate cetonie capovolte: doveva egli aver ben letto e sofferto Nietzsche se sapeva tradirlo così opportunamente (gli elementi in contrasto su un piano di convinzioni sono sempre uno all’altro complementari: Gozzano aveva nel sangue il “metodo” poetico del Poema paradisiaco e delle Elegie romane…) A fianco, i “vociani”, tanto distanti tra loro da formare un tutto di incertezze positive: crepuscolare Palazzeschi, pieno di tutto e ribelle alle sue condanne Papini, impressionista Soffici, ecc. Pascoli era nell’orecchio di tutti. Il suo tono, meno inquinato dalle barderie del costume, lasciava pure una traccia. Da Pascoli a Boine è breve il cammino. Ci vedo in mezzo Mario Novaro, un altro responsabile che è impossibile dimenticare, che cantava: È l’alba - incantata - apparizione del mondo! - oh che a Dio nei cieli, - freccia d’oro, - io mandi un saluto… Sfrondata la sua poesia da un intimo bagaglio di impressioni goethiane e naturalistiche, dagli echi pascoliani e talvolta carducciani, egli ha un posto ben evidente nel susseguirsi delle nuove scoperte poetiche, Boine gli si accosta, con un caratteristico frasario (un rosario) dolorante, un’incuria del verso, una particolare cura del nascosto ritmo: l’impressionismo italiano ha qui una voce ben distesa, lo conferma il frammentismo di Boine, quello di Sbarbaro. L’endecasillabo con i liguri, i toscani, con i futuristi, s’era già rotto: le estreme illazioni ne furono tratte da Ungaretti.
Comincia qui la particolar avventura degli “ermetici”. È assai interessante seguirne il respiro. (Ne estraggo subito Montale. Entrato nella storia letteraria con una incrollabile fede musicale – rotta e sussultoria, ma sempre intonata - il ligure è l’unico dei contemporanei che abbia soverchiato la sua esperienza sulle lezioni degli antecessori. L’occasione poetica, a tratti simile all’ispirazione crepuscolare, si personalizza nei risultati finali: vedi il pianto del bambino a cui fugge il pallone tra le case, la farfalla entrata nella stanza. Certe sue prove dannunziane - anche qui il contrasto è evidentissimo: staticità per conclusione ragionata di fronte a dinamicità per partito preso, sospirata divina indifferenza di fronte a perpetuo bollore - non durano mai più d’un verso, si perdono nell’inondante sua aria. Montale ha usato la sua tecnica per ricchezza spontanea e ne ha regalato un po’ a tutti. Del resto, oggi, in tanti poeti, laureati e novizi, il calcar le impronte di Montale mi par più improntitudine che obbedienza a giusti dettami. Ungaretti dunque, partito da certe sue esclamazioni a mo’ di poesia, attrasse le voglie ricostruttive dell’endecasillabo così provato - o della musicalità in tono classico: notevole quindi ogni sua dichiarazione d’attaccamento al leopardi. Toltagli però quella ben nota lucidità francese, il suo lavoro di riallacciamento invece di raggiungere al primo salto la sponda leopardiana, rivelò a fior d’acqua lo scoglio di quel primo impressionismo che nulla aveva di rivoluzionario, almeno nei programmi. Si pensi che gli ultimi appunti di Boine, pubblicati postumi sulla “Riviera Ligure”, erano stati affiancati dal destino impaginatore alle prime liriche quasi monostrofiche di Ungaretti… Il ritorno alla storia dell’uomo, alla felice (“allegra”) scoperta delle proprie inquietudini, non ci pare ormai extra ordinario: pure, Ungaretti uomo di pena, il cui sentimento appena bastava per un bozzetto lirico (il poco bene che mi nasce - così piano mi nasce… da cui non si può trarre gran dissetamento, se non l’esame del “come” gli nasce), attento solo alla sua schiavitù di parole, avaro persino con la propria espressione, formò realmente il clima di una nuova poetica i cui termini fissi erano sì, l’illuminazione favolosa, il mito, la divinazione metafisica, ma i cui risultati però imponevano una secchezza di umanità a stento sufficiente al poeta per scoprirsi in epigrammatiche conclusioni là dove un altro poeta più libero, più abituato alla verità, più confidente sarebbe corso via senza scandali né allarmi [...] Anche in Sinisgalli dunque un sentimento (un sentore) del tempo misurò il movimento dell’uomo: in ogni sua poesia il tempo è stato colto nei suoi momenti di transizione, alba, tramonto, corsa notturna della luna, quando cioè la luce, mutando, trasforma (rinnova) uomini e natura. In Ungaretti era (con ben altra nobiltà di tono) l’invito ad una conclusione morale, e vi si sentiva la faticosa responsabilità: “t’affretta, o tempo, a pormi sulle labbra - le tue labbra ultime”. Ciò in Sinisgalli resta soltanto come scoperta della momentaneità, un rifiuto ad esser deciso con i propri sentimenti: “sgocciola il giorno - dalle cime dei tetti”, “chiamavi l’ultima luce - all’inganno della fonte”, “l’aurora è appena uscita dai forni”… Colore: che par qui la maggior preoccupazione di Sinisgalli. A tratti nasce poi una rottura, un colpo violento, ed è il primo passo verso una maggior maturazione: “infanzia gridata dagli uccelli”, “la luce era gridata a perdifiato”, “i fanciulli… gridano a squarciagola”. Dalle prime poesie, stese su una discorsività assai semplice; con punteggiatura comunissima di punti e rare virgole; con aggettivazione sostantivata (“ansia di foglie”, “insidia delle cisterne”, “insidia delle serpi”); con metrica assolutamente libera, in cui l’incontro dell’endecasillabo e dei suoi derivati è casuale, quasi gratuito, Sinisgalli passò ad un gioco più accessibile di stesure, obbedendo a certi richiami autobiografici in cui veniva dolce la rima al mezzo, capitavan buone altre facili rime a fondo verso, nasceva cordialmente una cadenza di canzone  [...]
Rubino Rubini, “Vidi le Muse” di Sinisgalli, in "Stile" n. 37, gennaio 1944, articolo qui ripreso da Fondazione Leonardo Sinisgalli