Un processo di cristallizzazione di elementi musicali (un certo tipo di voce, di suono, di soggetto) come «nazionali» contribuisce naturalmente il contesto del regime: la canzone italiana è anche uno strumento di propaganda, e la sua «italianità» è funzionale alle politiche del Fascismo. In effetti, la codificazione di una «italianità» della canzone in concomitanza storica con la sua diffusione presso un pubblico radiofonico nazionale va ricercata, in prima battuta, nelle politiche culturali del regime fascista, e nei suoi tentativi di filtrare e controllare l’afflusso di musiche di origine straniera, soprattutto afroamericana.
Quelli che seguono la prima guerra mondiale sono nel mondo gli «anni del jazz», in cui si assiste alla diffusione globale di alcune musiche, soprattutto da ballo, sintetizzate nel contesto di comunità diasporiche di origine africana, o che hanno comunque una forte componente «africana».
In questi anni il termine «jazz», variamente storpiato dalla stampa italiana o usato in forme variabili («(il/lo) jazz band»), ha tutto fuorché un significato univoco, e raccoglie fatti musicali che oggi sarebbero distinti in generi diversi.
Se è vero che nella seconda metà degli anni venti il «jazz» è la moda musicale, lo è «[f]orse più la parola che la musica» (Mazzoletti 2004, p. 107).
«Jazz» indica per metonimia tutto un complesso di musiche afroamericane, mentre comincia ad assumere nel linguaggio degli specialisti un significato più ristretto, e più simile a quello contemporaneo (si comincia cioè a formare un canone di musicisti jazz).
La ricezione del «jazz» (o si dovrebbe dire dei «jazz») in Italia fino alla seconda guerra mondiale e le reazioni contrastanti nei suoi confronti da parte di pubblico e intellettuali sono state riccamente documentate da Adriano Mazzoletti (2004, pp. 175 e sgg.).
L’atteggiamento verso queste musiche non è univoco negli anni del Fascismo.
Il regime mostra nei confronti del jazz «sentimenti ancipiti» (Piazzoni 2011, p. 28) e, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, il tasso di tolleranza o di accettazione è abbastanza alto in alcuni periodi, specie nella pratica. Fino al 1942, con l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, non ci sono veri e propri divieti (Ortoleva 1993, p. 459) e i primi anni dell’era fascista segnano addirittura un’inversione di tendenza in positivo rispetto al periodo precedente: il regime non si era ancora espresso sul jazz, che era considerato musica da ballo, «e il ballo era di gran moda fra i gerarchi» (Mazzoletti 2004, p. 107).
Solo dal 1928 i giornali fascisti cominciano ad attaccare il jazz con più vigore. Si può citare questo noto passo: "è stupido, è ridicolo, è antifascista andare in solluchero per le danze ombelicali di una mulatta o accorrere come babbei a ogni americanata che ci venga d’oltreoceano! Dobbiamo crearle noi le nostre forme di vita, d’arte e di bellezza, così come ci stiamo creando la nostra forma di governo, le nostre leggi e le nostre originalissime istituzioni". <10
Nel 1929 esce l’aspro pamphlet Jazz Band di Anton Giulio Bragaglia (1929) - il cui successo fu comunque scarso (Mazzoletti 2004, p. 186) - e nello stesso anno Il popolo d’Italia invita alla «tutela del patrimonio musicale», a «dare un’impronta di schietta italianità oltre che alla nostra arte ai nostri costumi, ai nostri passatempi, ai nostri giochi»: "Eppure oggi, in pieno Fascismo, noi che possediamo un patrimonio musicale che è fra tutti quelli dei popoli civili indubbiamente il più ricco ed il più vario (si va dall’oratorio al melodramma, dalla sinfonia, al quartetto, dalla lirica alla danza) noi ci siamo rassegnati a riconoscere, incontestato e incontrastato, il predominio della musica selvaggia dei negri". <11
La propaganda fascista contro la musica «negroide» è ormai divenuta quasi un luogo comune, e viene perlopiù ricordata nei suoi elementi più aneddotici e folkloristici, come l’italianizzazione dei nomi propri e dei titoli dei brani.
La diffusione di determinati termini che oggi ci paiono indice di razzismo («negro» su tutti, che rimane in uso fino almeno agli anni settanta senza connotazioni dispregiative), così come certe stilizzazioni di tratti somatici nelle rappresentazioni grafiche (si veda la copertina del citato Jazz Band, Bragaglia 1929) vanno considerate nel contesto dell’epoca, in cui non costituivano una trasgressione razzista nel senso odierno. La stessa iconografia del musicista jazz, gli stessi luoghi comuni, si ritrovano con facilità sulle pagine dei rotocalchi popolari del dopoguerra - segno di come la guerra non rappresenti un particolare momento di rottura, in tal senso.
Ciò non significa che le politiche del Fascismo non attuassero discriminazioni razziste.
Questo è vero in particolare nel quadriennio che va dall’emanazione delle leggi razziali (1938) alla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti (fine del 1941), e ancora negli anni della guerra.
Ce lo conferma un editoriale su un Radiocorriere del 1939: l’autore - forse lo stesso direttore dell’Eiar Giulio Razzi - riporta di come l’ente abbia ridotto «la musica straniera ad una percentuale assolutamente trascurabile», e addirittura «eliminato le musiche di autori ebrei e negri». <12
E tuttavia, non è tanto con il razzismo in sé che si spiega l’atteggiamento del Fascismo nei confronti di queste musiche.
Le ragioni vanno piuttosto cercate in due temi chiave dell’ideologia fascista, strettamente connessi fra loro: quello dell’autarchia produttiva, cara al regime in tutti gli ambiti dell’industria (e quella culturale non fa eccezione), e quellodello spirito nazionale, dell’«italianità» - appunto.
2.3.2. Autarchia, pragmatismo e «italianità» della canzone
L’Eiar, allora, osteggia e ostracizza musica e musicisti stranieri innanzitutto in quanto stranieri, e dall’entrata in guerra in poi in quanto nemici.
Il caso del direttore d’orchestra inglese Claude Bampton, assunto nel 1935 e rapidamente licenziato anche per il peggioramento dei rapporti con la Gran Bretagna è esemplare (Mazzoletti 2004, p. 327-329).
La programmazione della radio esclude in primo luogo la musica d’importazione, quella «di carattere negro» e «con ritornelli cantati in inglese» (p. 328), mentre la musica italiana di influenza afroamericana riesce, complice qualche escamotage dei musicisti e il pragmatismo dei dirigenti, a trovare comunque i suoi spazi.
Lo stesso autore dell’editoriale sopra citato, nell’auspicare un miglioramento qualitativo della canzone italiana soprattutto per quanto riguarda il testo, è costretto a riconoscere che "la musica leggera che si produce in Italia non è sufficiente ad alimentare le ore di trasmissione ad essa dedicate, tanto che, volendo ricorrere solo limitatamente alla musica straniera, [l’Eiar] deve rimediare con frequenti ripetizioni delle stesse musiche". <13
Se prendiamo la propaganda per quello che è, troveremo come musiche di influenza afroamericana siano non solo ampiamente diffuse e ben metabolizzate all’interno dell’industria musicale italiana, ma addirittura necessarie al suo funzionamento. Nella pratica musicale si può riconoscere agevolmente una ricca compresenza di elementi «italiani» e «americani», ed è inesatto pensare che queste musiche circolassero solo perché tollerate dal regime, o per distrazione degli altrimenti solerti censori.
Le influenze afroamericane non sono sommerse, o annidate negli interstizi sfuggiti alla censura, ma almeno per certi periodi la loro natura è spesso esplicitata.
Solo così si spiegano certi riferimenti «ibridi» - come l’indicazione «stornello jazz», che compare su un 78 giri di «Fiorin fiorello» accanto alla dicitura «Prodotto italiano autarchico» (FIGURA 5.1).
Piuttosto, si tratta di rendere il jazz il «meno americano e negroide possibile», sostituendo «ai parossismi musicali alla Armstrong e alla Ellington […] interventi e improvvisazioni, appoggiati su un solo elemento base: la melodia», come scrive nel 1941 il popolare fascicolo periodico Canzoniere della radio, in un articolo dedicato al direttore inglese (ma naturalizzato italiano) Alberto Semprini. <14
Ma, purché di produzione italiana, e indipendentemente dallo stile - più tradizionalista o più moderno - la «musica leggera serviva il regime nel suo complesso» (Fabbri 2015a, p. 239), e le politiche di Eiar e MinCulPop sono orientate a un approccio nei suoi confronti il più pragmatico possibile.
Nel descrivere le modalità di azione del Ministero della Cultura Popolare, e in particolare del ministro Alessandro Pavolini (in carica dal 1939 al 1943), Nicola Tranfaglia ha parlato di «modalità proprie di una moderna dittatura di massa» (2005, p. xxvii), ricordando come il ministro della cultura popolare agisse in diretto rapporto con Mussolini, con cui aveva udienza quotidiana.
Di pragmatismo si tratta, perché l’«attenzione a non esagerare, a non dare indicazioni che si rivelino inattendibili o controproducenti» (ibidem) è al centro del lavoro quotidiano del ministro e dei suoi collaboratori.
Non sorprende che anche la canzone sia oggetto delle attenzioni del Ministero, con accostamenti tristemente grotteschi: ad esempio, che si chieda di tacere circa «la cittadinanza italiana delle Lescano» <15 e su notizie simili fino alla fine della guerra, perché questo genere di informazioni leggere «irrita i combattenti o determinate zone di opinione», poco dopo aver richiesto invece di «dare un certo rilievo alle liste dei caduti nelle incursioni aeree». <16
Nel Rapporto ai giornalisti del 23 novembre 1941 il ministro aveva esposto i «provvedimenti ministeriali nel campo della musica leggera per il miglioramento della canzonetta», evidenziando come l’argomento non fosse da prendere alla leggera, «perché la canzonetta è un indice come un altro della mentalità di un popolo e la sua voce in certe occasioni è anche utile». <17
Tuttavia l’Eiar, ammetteva Pavolini, è costretta a trasmettere canzonette «perché i combattenti le richiedono», e se trasmettesse solo musica melodica «coloro che hanno un gusto un po’ pervertito della musica esclusivamente ritmica, o sincopata, praticamente andrebbero a sentire altre stazioni straniere».
"In realtà" - continua il ministro - "a poco a poco è nata una musica leggera nostra in cui una certa vena melodica è risorta sullo sfondo ritmico che ha invaso il mondo compresa la Germania e il Giappone e quindi si tratta, insistendo, di avvicinarsi sempre di più a un tipo di musica nostra […]". <18
Ancora l’anno seguente, nel Rapporto ai giornalisti del 9 marzo 1942, Pavolini si sente in dovere di tornare sull’argomento, stimolato dalle polemiche che vede affiorare «specialmente nella terza pagina» dei giornali: il «desiderio delle masse e particolarmente dei combattenti» è quello di avere canzonette alla radio. Da ciò, le politiche culturali e l’Eiar hanno poco a poco "cercato di italianizzare il tipo della musica leggera corrente, quella di creazione italiana che ha ripreso la sua via di espansione e si diffonde un po’ dappertutto […]. Si è passato poi dalla musica sincopata dell’America a una musica con prevalente carattere ritmico in tutto il mondo. Su questo sfondo ritmico è rinata nella musica leggera italiana una vena melodica che designa queste canzoni come italiane. Si è cercato anche a poco a poco di modificare il modo di cantarle, la composizione delle orchestrine, ecc. Tutto questo però entro certi limiti perché il pubblico non è chiuso in una stanza ed obbligato ad ascoltare quello che noi trasmettiamo". <19
Insomma, il fine giustifica i mezzi, e Pavolini accetta esplicitamente la «contaminazione»: l’«italianità» della canzone - che secondo il ministro starebbe nella melodia opposta al ritmo, e non tanto nel contenuto delle canzoni (Piazzoni 2011, p. 33) - non può imporsi nei gusti dei «combattenti» senza assecondarli, senza appoggiarsi cioè al successo della musica afroamericana.
Casomai, il pubblico deve essere educato, progressivamente, a qualcosa di più «nostro», e meno «pervertito».·
Molto più di qualunque palinsesto radiofonico o articolo di giornale, questi documenti ministeriali possono essere letti come un’incredibile fonte circa i gusti musicali degli italiani fra anni trenta e quaranta, e su come fosse interpretata la «canzone italiana».
Quello che Pavolini descrive è però più che altro un auspicio, un tentativo di italianizzazione della canzone non destinato - per il momento - a lungo seguito: siamo nel 1942.
Dopo il 25 luglio del 1943 il ministro scapperà in Germania, e la canzone non sarà in cima alla sua agenda.
Nel periodo dell’occupazione tedesca, le politiche radiofoniche dell’Eiar sono sotto il diretto controllo nazista, e si assiste piuttosto a una «germanizzazione» del repertorio, anche di quello «italiano» (Malvano 2015, pp. 25 e sgg.).
[NOTE]
10 Carlo Ravasio, «Fascismo e tradizione», Il Popolo d’Italia, 30 marzo 1928. Citato in Borgna 1992, p. 107.
11 Guido Carlo Visconti, «Fuori i Barbari!», Il Popolo d’Italia, 13 settembre 1929. Citato in Mazzoletti 2004, p. 188.
12 «Ancora della musica leggera», Radiocorriere, a. 15, n. 10, 5-11 marzo 1939, p. 5. Citato in Fabbri 2015a, p. 233.
13 Ibidem.
14 Sergio Valeri, «Alberto Semprini», Canzoniere della radio, fascicolo 25, 1 dicembre 1941, pp. 5-6.
15 Sandra, Giuditta e Caterinetta Leschan - il Trio Lescano - erano olandesi cattoliche di madre ebrea.
16 Rapporto tenuto dall’Eccellenza Pavolini ai giornalisti, 17 giugno 1942. Citato in Tranfaglia 2005, p. 266.
17 Rapporto tenuto dall’Eccellenza Pavolini ai giornalisti, 23 novembre 1941. Citato in Tranfaglia 2005, pp. 202-203; si veda anche Piazzoni 2011.
18 Ibidem, corsivi miei.
19 Rapporto tenuto dall’Eccellenza Pavolini ai giornalisti, 9 marzo 1942. Citato in Tranfaglia 2005, p. 238. Corsivi miei.
Jacopo Tomatis, I generi della canzone in Italia: teoria e storia, dal fascismo al riflusso, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Torino, 2016