Secondo «l’Unità», il Servizio di Sicurezza del Ministero degli Interni mette in relazione gli attentati contro i giornalisti proprio con il nuovo tipo di violenza che caratterizza il 1977: "Al Viminale la tesi è questa: le ultime manifestazioni che si sono chiuse con sparatorie provocatorie ad arte hanno permesso ai vecchi brigatisti di identificare nell’area della cosiddetta autonomia, una serie di reclute, di giovani pronti ad entrare nella clandestinità. Secondo i vertici dei servizi di sicurezza, negli ultimi tempi, nelle formazioni terroristiche, che erano state orbate dalla presenza dei capi storici come Curcio e altri, sono entrate a far parte numerose forze fresche, contattate appunto durante episodi carichi di particolare tensione. L’altro ieri a Genova gli autonomi, durante una manifestazione, approvando gli attentati, gridavano «giornalista, sbirro maledetto, te lo scriviamo noi l’articolo perfetto», «Bruno qui, Montanelli lì, la controinformazione si fa così». Il risultato è la formazione di nuove squadre pronte a tutto" <951.
La campagna contro la stampa riprende il 18 settembre a Torino con l’attentato al giornalista de «l’Unità» Leone Ferrero. Alla Camera, Gian Carlo Pajetta presenta una interrogazione sulla nuova ondata di violenza facendo esplicito riferimento all’attentato contro Ferrero: "Ferrero non è stato colpito per una semplice questione di esercizio della libertà di stampa. Il nostro compagno è stato ed è teste in importanti processi politici; è un testimone, ha denunciato nomi e riferimenti specifici, non ha avuto paura di gridare d’essere un comunista e per questo i criminali gli hanno sparato ancora dopo avergli già frantumato due femori" <952. Berlinguer esprime al segretario del Pci torinese, Renzo Gianotti, la sua solidarietà “al compagno Ferrero, valoroso giornalista dell’Unità, per la nuova azione criminale e vile che reca la firma dei nemici delle istituzioni democratiche, delle organizzazioni dei lavoratori e della libera stampa” <953.
Il 21 settembre viene indetta una manifestazione al Palazzetto dello Sport a Torino dal «Comitato regionale per l’affermazione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana». Il tema è: "Il terrorismo criminale attenta alla vita dei cittadini e alla libertà di stampa. Unità antifascista in difesa dell’ordine democratico e repubblicano. I torinesi manifestano contro gli attentati a Leone Ferrero e allo stabilimento tipografico de «La Stampa»". Alfredo Reichlin, dal palco della manifestazione denuncia, con forza la distanza fra il Pci e Autonomia: "Il Paese ha un ampio movimento democratico, nel quale ha un peso notevole la classe operaia che, in tempi ravvicinati, pone il problema di una svolta. Da questo contesto era nata alla fine degli anni Sessanta la strategia della tensione, mentre oggi la tendenza è di puntare sullo sfascio, sull’anarchia, sui tentativi di creare focolai di guerra civile. Si attacca la democrazia per colpire sempre più direttamente il movimento popolare. […] tocca a quest’ultimo difendere dai pericoli eversivi le istituzioni democratiche e la libertà conquistata con la Resistenza" <954.
[NOTE]
951 Anche nuove reclute fra gli attentatori, in «l’Unità», 5 giugno 1977.
952 Il governo deve fare il suo mestiere, in «l’Unità», 22 settembre 1977.
953 Terroristi sparano a un redattore de l’Unità, in «l’Unità», 20 settembre 1977.
954 Manifestazione a Torino dopo i due attentati, in «l’Unità», 22 settembre 1977.
Francescopaolo Palaia, La Cgil e il Pci fra violenza terroristica e radicalità sociale (1969-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi "Sapienza" - Roma, Anno Accademico 2016-2017
La campagna contro la stampa riprende il 18 settembre a Torino con l’attentato al giornalista de «l’Unità» Leone Ferrero. Alla Camera, Gian Carlo Pajetta presenta una interrogazione sulla nuova ondata di violenza facendo esplicito riferimento all’attentato contro Ferrero: "Ferrero non è stato colpito per una semplice questione di esercizio della libertà di stampa. Il nostro compagno è stato ed è teste in importanti processi politici; è un testimone, ha denunciato nomi e riferimenti specifici, non ha avuto paura di gridare d’essere un comunista e per questo i criminali gli hanno sparato ancora dopo avergli già frantumato due femori" <952. Berlinguer esprime al segretario del Pci torinese, Renzo Gianotti, la sua solidarietà “al compagno Ferrero, valoroso giornalista dell’Unità, per la nuova azione criminale e vile che reca la firma dei nemici delle istituzioni democratiche, delle organizzazioni dei lavoratori e della libera stampa” <953.
Il 21 settembre viene indetta una manifestazione al Palazzetto dello Sport a Torino dal «Comitato regionale per l’affermazione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana». Il tema è: "Il terrorismo criminale attenta alla vita dei cittadini e alla libertà di stampa. Unità antifascista in difesa dell’ordine democratico e repubblicano. I torinesi manifestano contro gli attentati a Leone Ferrero e allo stabilimento tipografico de «La Stampa»". Alfredo Reichlin, dal palco della manifestazione denuncia, con forza la distanza fra il Pci e Autonomia: "Il Paese ha un ampio movimento democratico, nel quale ha un peso notevole la classe operaia che, in tempi ravvicinati, pone il problema di una svolta. Da questo contesto era nata alla fine degli anni Sessanta la strategia della tensione, mentre oggi la tendenza è di puntare sullo sfascio, sull’anarchia, sui tentativi di creare focolai di guerra civile. Si attacca la democrazia per colpire sempre più direttamente il movimento popolare. […] tocca a quest’ultimo difendere dai pericoli eversivi le istituzioni democratiche e la libertà conquistata con la Resistenza" <954.
[NOTE]
951 Anche nuove reclute fra gli attentatori, in «l’Unità», 5 giugno 1977.
952 Il governo deve fare il suo mestiere, in «l’Unità», 22 settembre 1977.
953 Terroristi sparano a un redattore de l’Unità, in «l’Unità», 20 settembre 1977.
954 Manifestazione a Torino dopo i due attentati, in «l’Unità», 22 settembre 1977.
Francescopaolo Palaia, La Cgil e il Pci fra violenza terroristica e radicalità sociale (1969-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi "Sapienza" - Roma, Anno Accademico 2016-2017
Le manifestazioni studentesche e operaie del Sessantotto sono per Serneri indice di mancanza di coesione sociale e di rifiuto dell’autorità <16. La convinzione che in tempi brevi attraverso azioni antifasciste dei militanti si riesca a sovvertire lo Stato e a rovesciare l’ordine politico e sociale si lega alla crescita della mobilitazione e alla diffusione della violenza. Accettandola come strumento, Panvini nota che intellettuali vicini al Pci e al Psi ritengono «che l’utilizzo della violenza organizzata stesse per aprire […] una nuova epoca di lotta di classe» <17. Le risposte delle forze dell’ordine con sgomberi e arresti, e della politica con il ripristino delle attività nelle università e nelle fabbriche, per quanto ritenute necessarie non fanno altro che aumentare l’astio e i risentimenti verso l’autorità.
Il terrorismo emerge da queste forme di azione collettiva dove è più evidente il conflitto sociale, dando continuità alle proteste. In realtà solo una piccola parte degli attivisti politici sceglie la lotta armata a fine anni Sessanta e di questi, una minima parte proviene dal Pci. Base di reclutamento è soprattutto la generazione successiva attiva in collettivi e gruppi autonomi. Le delusioni e le tensioni insite nella sfera economica e sindacale smuovono infatti alcuni settori della classe operaia a slegarsi dai sindacati e a trovare una nuova modalità di espressione nell’autonomia, in un insieme di collettivi e comitati operai e territoriali mancanti di un nucleo nazionale, come i Comitati autonomi operai romani, il Collettivo politico metropolitano milanese o i Collettivi politici veneti per il potere operaio. Corasaniti le valuta «specificità locali che inducono a considerarla, più che un’area omogenea (malgrado non manchino i tentativi di centralizzazione), un insieme di realtà che condividono alcune coordinate pratico-teoriche di fondo» <18. Non un vero e proprio partito quindi, ma un’area che raccoglie esponenti della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria contrapposta a quella riformista. L’iniziativa autonoma permette a questi settori di unire la sfera economica-sindacale con la dimensione politica, di guidare il processo rivoluzionario e di farsi portavoce delle loro istanze politiche senza passare attraverso partiti. Una parte di questa realtà diventa espressione della lotta armata, diffondendosi l’idea che le autorità statali, la magistratura e l’amministrazione pubblica hanno tutto l’interesse nel mantenere lo status quo all’interno di fabbriche, carceri e periferie degradate. Da parte delle forze dell’ordine si denota però una mancanza di efficienza necessaria a contrastare la violenza, sottovalutandola e, secondo Baravelli, non riconoscendo la specificità del terrorismo di sinistra e della sua lotta armata <19. Si aggiunge l’impreparazione politica e la scarsa comprensione del fenomeno. Si pensi al termine terrorismo di cui non si da in quegli anni una definizione precisa: «rifiutare di precisare la natura della minaccia consentiva agli attori politici di utilizzare l’ambiguità quale utilissimo strumento tattico ai fini della manovra parlamentare» <20.
Ceci osserva che a differenza del Pci, nella Dc si fa largo fin dal ’69 l’ipotesi degli opposti estremismi ovvero «contemporaneamente due disegni violenti ed eversivi, opposti ma convergenti (forse anche a livello operativo) nell’obiettivo: l’abbattimento delle istituzioni democratiche e repubblicane» <21. Vaste aree della Democrazia Cristiana riconoscono infatti i terroristi rossi come effettivamente militanti di sinistra decisi tanto quanto quelli di destra ad affermarsi sulla scena.
Trova ampio spazio nel Pci una diversa linea di pensiero secondo cui è assurdo parlare di due terrorismi. Il progetto eversivo di destra è il più pericoloso e inquietante con un piano nero che produce trame. Attraverso battaglie politiche contro la tesi degli opposti estremismi, il Partito Comunista accusa il malgoverno della Dc di aver prodotto le trame nere. A questo si aggiunge «la convinzione dell’esistenza di una strategia della tensione anche di sinistra» <22 con obiettivi simili a quelli dei neri e quindi il crollo delle istituzioni democratiche. Un unico terrorismo caratterizzato da diverse trame, ma con sempre un unico obiettivo. Le violenze del ’77 culminate col caso Moro ribaltano questa idea e la politica capisce che non si tratta di una successione di singoli atti slegati tra loro, ma di qualcosa di più profondo ed articolato nella società.
Ferraresi nota che riguardo al problema sulle differenze tra il terrorismo di destra e quello di sinistra, pur presentando «alcune sorprendenti analogie», il terrorismo rosso e quello nero differiscono radicalmente sul piano ideologico culturale. Prende in considerazione il tema della violenza e della sua giustificazione <23, un problema per i gruppi eversivi di sinistra che devono impregnare di significato e di identità le loro azioni. Devono essere legittimate e spiegate dal punto di vista sociale per non perdere il contatto con le masse, specificando i crimini presunti delle vittime e pubblicizzandone le prove, come se ci fosse un intento pedagogico attraverso la violenza che diviene così uno strumento della lotta armata. L’apporto del lavoro contro informativo e specificatamente quello della schedatura ricopre un ruolo chiave all’interno di queste azioni. Il rifiuto delle informazioni comunemente diffuse dai mezzi di comunicazione e l’uso di specifici mezzi generalmente trascurati dai canali di comunicazione tradizionali sono infatti fondamentali per la lotta armata: volantini di rivendicazione, manifesti politici, radio libere come Radio Sherwood a Padova dei Collettivi Veneti, e ancora manuali sull’utilizzo delle armi, su come affrontare un interrogatorio o come si individua la persona e il corretto obiettivo. E anche murales che denunciano censure e media, considerati asserviti agli interessi politici ed economici. Importanti in questo senso periodici come Lotta Continua connesso al movimento studentesco di Adriano Sofri, che assume toni aggressivi, e quotidiani come Il Manifesto più intellettuale e austero, Il Quotidiano dei Lavoratori, Il Re Nudo e Controinformazione. I periodici controinformativi, grazie anche alla mancanza di una legge sulla privacy, possono pubblicare nomi e cognomi e indirizzi di neofascisti e di persone ritenute informatrici trasformandoli in bersagli pubblici. Per Panvini, «controinformazione e violenza politica furono, dunque, intimamente connesse» <24. La controinformazione, inoltre, si può dotare di tutte quelle pratiche illegali che non sono permesse ai giornalisti professionisti: furto di documenti, appostamenti, pedinamenti. Nelle testate di estrema sinistra compaiono lunghe cronologie di violenze neofasciste, dando l’idea di una escalation. «Prevalse in determinati momenti di tensione, un utilizzo politico di questi dati, imposto dall’esigenza di denunciare ai propri militanti la presenza dei nemici da combattere» <25.
Fin dalle bombe di Piazza Fontana la schedatura è funzionale all’investigazione atta ad accertare il coinvolgimento di neofascisti nella strage. Le inchieste, in particolare quelle di Lotta Continua, sono preparate meticolosamente in manuali. Ben presto l’elenco di persone considerate colluse diventa un lungo elenco di obiettivi da colpire. Così non solo la violenza si specializza, ma assume un carattere selettivo e mirato, contro persone ritenute all’interno di un disegno eversivo e collusi con lo Stato, persone non considerate innocenti. «Il perseguimento del nemico nella sua individualità e identità personale fu un dato costante» <26. Le radio libere costituiscono uno strumento importante in questo senso, mezzo ideale per la circolazione di comunicati e rivendicazioni, «individuate dai brigatisti come dei megafoni attraverso i quali far giungere i propri messaggi a un pubblico che potenzialmente veniva ritenuto più sensibile» <27.
La violenza così si sposta dalle masse delle piazze che danno consenso popolare, alle strade e alle azioni selettive per strada, azioni esemplari utili a «suscitare il potenziale rivoluzionario nella collettività» <28.
In generale osserva Scavino, la violenza non sembra costituire un problema morale, ma viene vista come forma di azione politica, la cui legittimazione non ha carattere etico, ma strumentale, a seconda delle circostanze <29. Non un problema morale per politici e sindacalisti, ma elemento fisiologico nel conflitto sociale. Per estensione lotta armata e terrorismo diventano forme di azione politica legittimate o meno a seconda della situazione.
[NOTE]
16 Neri Serneri, Simone. Verso la lotta armata: la politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta. Bologna: Il Mulino, 2012.
17 Panvini, Guido. Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975. Torino: Einaudi, 2009.18
18 Corasaniti, Volsci. I Comitati autonomi operai romani negli anni Settanta (1971-1980), cit., 20
19 Baravelli, Andrea. Istituzioni e terrorismo negli anni Settanta. Roma: Viella, 2016. 21
20 Ibi. 25
21 Brizzi, Riccardo, Giovanni Maria Ceci, Michele Marchi, Guido Panvini e Ermanno Taviani. L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società. Roma: Carrocci, 2021. 24
22 Brizzi, et al., L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, cit., 26
23 Ferraresi, Minacce alla democrazia: la destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, cit., 308
24 Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975, cit., 150
25 Ibi. 146
26 Colozza, Roberto. “Lotta Continua e gli anni di piombo”. In Brizzi, et al., L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, cit., 149
27 Ares Doro, Raffaello. “La radio e l terrorismo negli anni Settanta”. In Brizzi, et al., L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, cit., 165
28 Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975, cit., 136
29 Scavino, Marco. “La piazza e la forza. I percorsi verso la lotta armata dal Sessantotto alla metà degli anni Settanta”. In Neri Serneri. Verso la lotta armata: la politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, cit., 120
Alessandro Stefani, «Terrorismo» e «Lotta Armata» nell'Italia degli anni Settanta. Analisi di un dibattito, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021-2022
Il terrorismo emerge da queste forme di azione collettiva dove è più evidente il conflitto sociale, dando continuità alle proteste. In realtà solo una piccola parte degli attivisti politici sceglie la lotta armata a fine anni Sessanta e di questi, una minima parte proviene dal Pci. Base di reclutamento è soprattutto la generazione successiva attiva in collettivi e gruppi autonomi. Le delusioni e le tensioni insite nella sfera economica e sindacale smuovono infatti alcuni settori della classe operaia a slegarsi dai sindacati e a trovare una nuova modalità di espressione nell’autonomia, in un insieme di collettivi e comitati operai e territoriali mancanti di un nucleo nazionale, come i Comitati autonomi operai romani, il Collettivo politico metropolitano milanese o i Collettivi politici veneti per il potere operaio. Corasaniti le valuta «specificità locali che inducono a considerarla, più che un’area omogenea (malgrado non manchino i tentativi di centralizzazione), un insieme di realtà che condividono alcune coordinate pratico-teoriche di fondo» <18. Non un vero e proprio partito quindi, ma un’area che raccoglie esponenti della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria contrapposta a quella riformista. L’iniziativa autonoma permette a questi settori di unire la sfera economica-sindacale con la dimensione politica, di guidare il processo rivoluzionario e di farsi portavoce delle loro istanze politiche senza passare attraverso partiti. Una parte di questa realtà diventa espressione della lotta armata, diffondendosi l’idea che le autorità statali, la magistratura e l’amministrazione pubblica hanno tutto l’interesse nel mantenere lo status quo all’interno di fabbriche, carceri e periferie degradate. Da parte delle forze dell’ordine si denota però una mancanza di efficienza necessaria a contrastare la violenza, sottovalutandola e, secondo Baravelli, non riconoscendo la specificità del terrorismo di sinistra e della sua lotta armata <19. Si aggiunge l’impreparazione politica e la scarsa comprensione del fenomeno. Si pensi al termine terrorismo di cui non si da in quegli anni una definizione precisa: «rifiutare di precisare la natura della minaccia consentiva agli attori politici di utilizzare l’ambiguità quale utilissimo strumento tattico ai fini della manovra parlamentare» <20.
Ceci osserva che a differenza del Pci, nella Dc si fa largo fin dal ’69 l’ipotesi degli opposti estremismi ovvero «contemporaneamente due disegni violenti ed eversivi, opposti ma convergenti (forse anche a livello operativo) nell’obiettivo: l’abbattimento delle istituzioni democratiche e repubblicane» <21. Vaste aree della Democrazia Cristiana riconoscono infatti i terroristi rossi come effettivamente militanti di sinistra decisi tanto quanto quelli di destra ad affermarsi sulla scena.
Trova ampio spazio nel Pci una diversa linea di pensiero secondo cui è assurdo parlare di due terrorismi. Il progetto eversivo di destra è il più pericoloso e inquietante con un piano nero che produce trame. Attraverso battaglie politiche contro la tesi degli opposti estremismi, il Partito Comunista accusa il malgoverno della Dc di aver prodotto le trame nere. A questo si aggiunge «la convinzione dell’esistenza di una strategia della tensione anche di sinistra» <22 con obiettivi simili a quelli dei neri e quindi il crollo delle istituzioni democratiche. Un unico terrorismo caratterizzato da diverse trame, ma con sempre un unico obiettivo. Le violenze del ’77 culminate col caso Moro ribaltano questa idea e la politica capisce che non si tratta di una successione di singoli atti slegati tra loro, ma di qualcosa di più profondo ed articolato nella società.
Ferraresi nota che riguardo al problema sulle differenze tra il terrorismo di destra e quello di sinistra, pur presentando «alcune sorprendenti analogie», il terrorismo rosso e quello nero differiscono radicalmente sul piano ideologico culturale. Prende in considerazione il tema della violenza e della sua giustificazione <23, un problema per i gruppi eversivi di sinistra che devono impregnare di significato e di identità le loro azioni. Devono essere legittimate e spiegate dal punto di vista sociale per non perdere il contatto con le masse, specificando i crimini presunti delle vittime e pubblicizzandone le prove, come se ci fosse un intento pedagogico attraverso la violenza che diviene così uno strumento della lotta armata. L’apporto del lavoro contro informativo e specificatamente quello della schedatura ricopre un ruolo chiave all’interno di queste azioni. Il rifiuto delle informazioni comunemente diffuse dai mezzi di comunicazione e l’uso di specifici mezzi generalmente trascurati dai canali di comunicazione tradizionali sono infatti fondamentali per la lotta armata: volantini di rivendicazione, manifesti politici, radio libere come Radio Sherwood a Padova dei Collettivi Veneti, e ancora manuali sull’utilizzo delle armi, su come affrontare un interrogatorio o come si individua la persona e il corretto obiettivo. E anche murales che denunciano censure e media, considerati asserviti agli interessi politici ed economici. Importanti in questo senso periodici come Lotta Continua connesso al movimento studentesco di Adriano Sofri, che assume toni aggressivi, e quotidiani come Il Manifesto più intellettuale e austero, Il Quotidiano dei Lavoratori, Il Re Nudo e Controinformazione. I periodici controinformativi, grazie anche alla mancanza di una legge sulla privacy, possono pubblicare nomi e cognomi e indirizzi di neofascisti e di persone ritenute informatrici trasformandoli in bersagli pubblici. Per Panvini, «controinformazione e violenza politica furono, dunque, intimamente connesse» <24. La controinformazione, inoltre, si può dotare di tutte quelle pratiche illegali che non sono permesse ai giornalisti professionisti: furto di documenti, appostamenti, pedinamenti. Nelle testate di estrema sinistra compaiono lunghe cronologie di violenze neofasciste, dando l’idea di una escalation. «Prevalse in determinati momenti di tensione, un utilizzo politico di questi dati, imposto dall’esigenza di denunciare ai propri militanti la presenza dei nemici da combattere» <25.
Fin dalle bombe di Piazza Fontana la schedatura è funzionale all’investigazione atta ad accertare il coinvolgimento di neofascisti nella strage. Le inchieste, in particolare quelle di Lotta Continua, sono preparate meticolosamente in manuali. Ben presto l’elenco di persone considerate colluse diventa un lungo elenco di obiettivi da colpire. Così non solo la violenza si specializza, ma assume un carattere selettivo e mirato, contro persone ritenute all’interno di un disegno eversivo e collusi con lo Stato, persone non considerate innocenti. «Il perseguimento del nemico nella sua individualità e identità personale fu un dato costante» <26. Le radio libere costituiscono uno strumento importante in questo senso, mezzo ideale per la circolazione di comunicati e rivendicazioni, «individuate dai brigatisti come dei megafoni attraverso i quali far giungere i propri messaggi a un pubblico che potenzialmente veniva ritenuto più sensibile» <27.
La violenza così si sposta dalle masse delle piazze che danno consenso popolare, alle strade e alle azioni selettive per strada, azioni esemplari utili a «suscitare il potenziale rivoluzionario nella collettività» <28.
In generale osserva Scavino, la violenza non sembra costituire un problema morale, ma viene vista come forma di azione politica, la cui legittimazione non ha carattere etico, ma strumentale, a seconda delle circostanze <29. Non un problema morale per politici e sindacalisti, ma elemento fisiologico nel conflitto sociale. Per estensione lotta armata e terrorismo diventano forme di azione politica legittimate o meno a seconda della situazione.
[NOTE]
16 Neri Serneri, Simone. Verso la lotta armata: la politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta. Bologna: Il Mulino, 2012.
17 Panvini, Guido. Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975. Torino: Einaudi, 2009.18
18 Corasaniti, Volsci. I Comitati autonomi operai romani negli anni Settanta (1971-1980), cit., 20
19 Baravelli, Andrea. Istituzioni e terrorismo negli anni Settanta. Roma: Viella, 2016. 21
20 Ibi. 25
21 Brizzi, Riccardo, Giovanni Maria Ceci, Michele Marchi, Guido Panvini e Ermanno Taviani. L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società. Roma: Carrocci, 2021. 24
22 Brizzi, et al., L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, cit., 26
23 Ferraresi, Minacce alla democrazia: la destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, cit., 308
24 Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975, cit., 150
25 Ibi. 146
26 Colozza, Roberto. “Lotta Continua e gli anni di piombo”. In Brizzi, et al., L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, cit., 149
27 Ares Doro, Raffaello. “La radio e l terrorismo negli anni Settanta”. In Brizzi, et al., L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, cit., 165
28 Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975, cit., 136
29 Scavino, Marco. “La piazza e la forza. I percorsi verso la lotta armata dal Sessantotto alla metà degli anni Settanta”. In Neri Serneri. Verso la lotta armata: la politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, cit., 120
Alessandro Stefani, «Terrorismo» e «Lotta Armata» nell'Italia degli anni Settanta. Analisi di un dibattito, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021-2022
Giorgio Amendola sostiene la necessità per il Pci di fare autocritica per non aver scelto di contrastare l’estremismo in precedenza con l’illusione di aumentare i consensi fra i giovani. Serve, secondo il dirigente comunista, maggiore lucidità di analisi per vedere il collegamento ideologico e politico tra le posizioni delle Br, di Autonomia, di Lotta continua, di Avanguardia operaia e del Manifesto. Un grande calderone politico quello tracciato da Amendola, come si vede, in cui finisce dentro ogni gruppo e tutto è tenuto insieme da collegamenti precisi. Durissimo è in particolare il giudizio che il dirigente comunista esprime nei confronti di Francesco Lorusso, il militante di Lotta continua ucciso da un carabiniere a Bologna l’11 marzo: "Lorusso era uno che credeva in quello che faceva. Aveva una concezione diversa dalla nostra; pensava che si deve distruggere lo Stato attuale non vedendo i suoi caratteri democratici, ma vedendolo come uno Stato della borghesia da spezzare per tentare altre vie. […] anche i giovani repubblichini che venivano a combattere contro di noi erano ragazzi generosi e in buona fede, che abbiamo dovuto fucilare perché ci sparavano alle spalle. Li rispettavamo per il loro coraggio, ma dovevamo fucilarli perché erano nemici! […] Mi tolgo il cappello di fronte a questo morto, ma non è uno dei nostri ammazzato dagli altri" <923.
Il giovane ucciso a Bologna viene definito «nostro nemico» e collocato quindi sul fronte avversario. In questo giudizio sta il nodo politico della questione: collocare sul piano degli avversari i membri dei movimenti estremisti che negano le basi della democrazia. Questo giudizio, dettato certamente dalla drammaticità della situazione e dalla necessità di porsi come argine in difesa del sistema democratico, è indicativo delle difficoltà del Pci nel leggere in modo corretto la complessità di quella galassia e alimenta ancora di più la frattura, ormai insanabile con quel mondo.
Aldo Tortorella affronta invece la questione relativa all’istruzione partendo dal fatto che è nelle scuole e nelle università che la crisi dei giovani si sta manifestando con maggiore evidenza. La situazione è disastrosa soprattutto a causa delle scelte sbagliate della Dc, sostenute in molti casi dai partiti della sinistra e dai sindacati, che hanno trasformato scuola e università in parcheggi per i giovani dove si spendono ingenti risorse pubbliche con risultati scarsi e dove sta crescendo la frustrazione degli studenti privi di reali prospettive occupazionali. L’autocritica è molto severa: "Abbiamo confuso il diritto allo studio con il diritto alla laurea, che con il primo non ha nulla a che vedere. In conseguenza di questo errore abbiamo attenuato la battaglia per la istruzione dei primi gradi, che è quella fondamentale, e cioè per la scuola dell’infanzia, per la scuola dell’obbligo, per il prolungamento e per la funzione di quest’ultima finalizzata non solo a obiettivi di ulteriori specializzazioni, ma diretta a fornire ai giovani la possibilità di intendere e di padroneggiare meglio e più di quanto non avvenga ora, gli strumenti per una propria formazione culturale" <924. La critica è serrata e soprattutto rivolta nei confronti del sindacato le cui proposte, definite demagogiche, hanno prodotto effetti negativi.
Gerardo Chiaromonte, nel suo intervento, pone il tema di come isolare gli estremisti indicando due strade: non partecipare a manifestazioni dove sono presenti elementi violenti; chiarire le posizioni all’interno della Fgci. I gruppi dirigenti provinciali dell’organizzazione giovanile del Pci, dice Chiaromonte, «devono sviluppare una intensa opera di discussione, di orientamento, di chiarificazione, per superare sbandamenti e dubbi che ci sono stati nei giorni scorsi e posso esserci ancora fra i nostri giovani». Secondo il dirigente comunista il partito ha infatti trascurato i compiti di iniziativa e di dibattito culturale e ideale fra i giovani: "Siamo stati indulgenti verso alcune teorizzazioni che niente avevano e hanno a che vedere con la nostra visione del mondo e della storia, confondendo il dibattito e la pluralità dei contributi con un qualche indifferentismo culturale e teorico, e, a volte, con una rinuncia alla polemica contro posizioni a noi estranee" <925.
[NOTE]
923 I comunisti e la questione giovanile, Atti della sessione del Comitato centrale del Pci, Roma, 14-16 marzo 1977, cit., Intervento di Amendola, p. 105.
924 Ivi, Intervento di Tortorella, p. 188.
925 Ivi, Intervento di Chiaromonte, p. 222.
Francescopaolo Palaia, Op. cit.
Il giovane ucciso a Bologna viene definito «nostro nemico» e collocato quindi sul fronte avversario. In questo giudizio sta il nodo politico della questione: collocare sul piano degli avversari i membri dei movimenti estremisti che negano le basi della democrazia. Questo giudizio, dettato certamente dalla drammaticità della situazione e dalla necessità di porsi come argine in difesa del sistema democratico, è indicativo delle difficoltà del Pci nel leggere in modo corretto la complessità di quella galassia e alimenta ancora di più la frattura, ormai insanabile con quel mondo.
Aldo Tortorella affronta invece la questione relativa all’istruzione partendo dal fatto che è nelle scuole e nelle università che la crisi dei giovani si sta manifestando con maggiore evidenza. La situazione è disastrosa soprattutto a causa delle scelte sbagliate della Dc, sostenute in molti casi dai partiti della sinistra e dai sindacati, che hanno trasformato scuola e università in parcheggi per i giovani dove si spendono ingenti risorse pubbliche con risultati scarsi e dove sta crescendo la frustrazione degli studenti privi di reali prospettive occupazionali. L’autocritica è molto severa: "Abbiamo confuso il diritto allo studio con il diritto alla laurea, che con il primo non ha nulla a che vedere. In conseguenza di questo errore abbiamo attenuato la battaglia per la istruzione dei primi gradi, che è quella fondamentale, e cioè per la scuola dell’infanzia, per la scuola dell’obbligo, per il prolungamento e per la funzione di quest’ultima finalizzata non solo a obiettivi di ulteriori specializzazioni, ma diretta a fornire ai giovani la possibilità di intendere e di padroneggiare meglio e più di quanto non avvenga ora, gli strumenti per una propria formazione culturale" <924. La critica è serrata e soprattutto rivolta nei confronti del sindacato le cui proposte, definite demagogiche, hanno prodotto effetti negativi.
Gerardo Chiaromonte, nel suo intervento, pone il tema di come isolare gli estremisti indicando due strade: non partecipare a manifestazioni dove sono presenti elementi violenti; chiarire le posizioni all’interno della Fgci. I gruppi dirigenti provinciali dell’organizzazione giovanile del Pci, dice Chiaromonte, «devono sviluppare una intensa opera di discussione, di orientamento, di chiarificazione, per superare sbandamenti e dubbi che ci sono stati nei giorni scorsi e posso esserci ancora fra i nostri giovani». Secondo il dirigente comunista il partito ha infatti trascurato i compiti di iniziativa e di dibattito culturale e ideale fra i giovani: "Siamo stati indulgenti verso alcune teorizzazioni che niente avevano e hanno a che vedere con la nostra visione del mondo e della storia, confondendo il dibattito e la pluralità dei contributi con un qualche indifferentismo culturale e teorico, e, a volte, con una rinuncia alla polemica contro posizioni a noi estranee" <925.
[NOTE]
923 I comunisti e la questione giovanile, Atti della sessione del Comitato centrale del Pci, Roma, 14-16 marzo 1977, cit., Intervento di Amendola, p. 105.
924 Ivi, Intervento di Tortorella, p. 188.
925 Ivi, Intervento di Chiaromonte, p. 222.
Francescopaolo Palaia, Op. cit.