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giovedì 22 settembre 2022

Nel corso della primavera del ’44 fecero ritorno sulle montagne emiliane

Lizzano in Belvedere (BO). Fonte: Mapio.net

Dei sei che avevano animato il primo tentativo di insediamento sugli Appennini bolognesi a La Ca’ [n.d.r.: località di Lizzano in Belvedere (BO)], tre (Lossanti, Venzi e Fergnani) andarono a combattere in Veneto, raggiunti da altri giovani bolognesi che fecero la stessa scelta su indicazione del PCI bolognese (come Sergio Galanti, Luciano Romagnoli, Gino Monti, Vincenzo Toffano, per citare tra gli altri, nomi che ritroveremo in queste pagine. Anche Rino Gruppioni (Spartaco), che era riuscito a mettersi in salvo dal rastrellamento tedesco di Ca’ Berna, si unì a Lossanti e De Luca ad Erto, nella valle del Vajont.
Innocenzo Fergnani (nome di battaglia “Tino”), che era stato in aeronautica come sergente maggiore dal maggio ’42 all’8 settembre ’43, abbandonata Vidiciatico, dopo una breve parentesi nel Modenese, rimase in Veneto a combattere nella valle del Vajont tra gli uomini della brigata Buscarin, della divisione Belluno, perdendo poi la vita nel gennaio 1944 a Forno di Zoldo, senza che per diverso tempo a Bologna si risapesse della sua fine, per un equivoco sulle sue reali generalità, essendo conosciuto in Veneto come ‘Tino Ferdiani’.
Libero Lossanti (nome di battaglia “Capitan Lorenzini”)  e Venzi (“Nino”), invece, dopo essere stati impiegati in Veneto in zone diverse, si ritrovarono a combattere insieme nella valle del Vajont, poi nel corso della primavera del ’44 fecero ritorno sulle montagne emiliane nella zona del Monte La Faggiola, nella casa abbandonata “La Dogana”, dove dettero vita a quella 4a brigata partigiana, che poi divenne la 36a brigata Bianconcini Garibaldi, una delle più numerose e meglio organizzate tra le formazioni partigiane, che entrambi guidarono rispettivamente come  comandante e vicecomandante fino alla metà di giugno. Il 14 giugno ’44 Lossanti fu ucciso ed il comando della brigata passò a Bob Tinti, fino alla Liberazione.
Umberto Rubbi (“Sergio”, “il vecchio”), il più anziano del gruppo (classe 1895) tornò a Bologna ed entrò a far parte della 7a Gap, di cui divenne uno degli artificieri, rifornendo di bombe a tempo ed esplosive, bottiglie incendiarie e tritolo non solo la formazione bolognese, ma nei primi tempi anche Toscana e Romagna, preparando le bombe sia per l’attentato al bordello di via San Marcellino sia al ristorante Diana e, nel gennaio, entrando in azione come vedetta esterna in via Zamboni, durante l’attentato diretto contro Eugenio Facchini.
Giorgio Frascari, invece, dal febbraio ’44 lavorò come tipografo alla stamperia clandestina di via Bengasi con Dalife Mazza e Vittorio Gombi, per pubblicare la rivista clandestina comunista La lotta, manifestini e materiale informativo interno ed esterno, fino al ’45, quando la tipografia fu spostata in via Belle Arti 7 fino alla Liberazione.
Monaldo Calari, in qualità di commissario politico, sarà tra gli animatori e le colonne portanti della 63ª brigata Garibaldi, che si andò formando tra la primavera/estate del ‘44, chiamata “Bolero” alla morte in combattimento del suo comandante Corrado Masetti (nome di battaglia Bolero), il 30 ottobre 1944. Nella 63ª confluirono infatti molti degli uomini presenti nell’autunno ’43 sull’Alta Valle del Reno e altri la brigata ne raccolse combattenti in pianura e nelle valli di montagna comprese nella zona ad ovest di Bologna, tra Sasso Marconi e Casalecchio. Calari cadde assieme al suo comandante Bolero, altra medaglia d’oro al valor militare, sterminato con l’altra ventina di uomini della brigata Comando, dai Paracadutisti Tedeschi nella battaglia di Casteldebole, mentre tentavano di attraversare il Reno in piena per unirsi alle forze partigiane chiamate in città in vista dell’insurrezione, che avrebbe dovuto avvenire in novembre, ma che non ci fu per l’arresto dell’avanzata degli alleati sulla Linea Gotica.
Redazione, I sei de La Ca’, più uno, Memorie Resistenti 

[...] Dare la libertà alle vittime delle rappresaglie fasciste, ai partigiani fatti prigionieri ed ai tanti oppositori civili, fu il compito che il Comando Unico Militare Emilia Romagna (CUMER) affidò alla 7ª Brigata GAP di Bologna.
Ricevuto l’incarico si doveva decidere come realizzare l’impresa. Il carcere di San Giovanni in Monte era situato al centro della città, a pochi passi dalle caserme della brigata nera, dal comando tedesco e dagli uffici della Questura e Prefettura, ai quali competeva la vigilanza sul reclusorio.
Il primo passo fu quello di darne avviso ad alcuni esponenti di primo piano della Resistenza, lì rinchiusi, con la collaborazione di guardie carcerarie amiche.
La prima idea fu quella di entrare attraverso la parte lesionata della struttura carceraria a causa del bombardamento del 29 gennaio ’44, ma venne presto abbandonata, dopo una perlustrazione, per le difficoltà intrinseche e perché si sarebbe riusciti a liberare solo un numero limitato di reclusi.
Si pensò quindi ad un escamotage per potere entrare nel carcere con piena libertà di movimenti. L’idea vincente venne infine concepita: inscenare la consegna di partigiani fatti prigionieri.
Dodici i gappisti impegnati nell’operazione: cinque vestiti da repubblichini: Massimo Barbi, Nello Casali “Romagnino”, Bruno Gualandi “Aldo” , Roveno Marchesini “Ezio” e Vincenzo Sorbi “Walter” ; tre con divisa tedesca: Berardino Menna “Napoli”, Lino Michelini “William” e Arrigo Pioppi “Bill”; quattro i partigiani “catturati”: Giovanni Martini “Paolo”, Renato Romagnoli “Italiano”, Dante Drusiani “Tempesta” e Vincenzo Toffano “Terremoto”.
Giunti sul piazzale fronteggiante il carcere a bordo di due millecento, sequestrate, “Napoli”, ex prigioniero di guerra fuggito da un campo di concentramento in Germania, in un improbabile tedesco e con voce rombante nel silenzio della notte, ormai erano le dieci di sera, convinse i poliziotti di guardia ad aprire il portone esterno e poi il secondo che da accesso  al carcere vero e proprio. Lasciati all’esterno tre partigiani a fare la guardia con il compito di disarmare i militi di guardia al momento opportuno, nove partigiani, assunta la loro vera veste di liberatori, si palesarono ai secondini di servizio i quali guidarono i partigiani nei vari reparti ed in poco tempo tutte le porte delle celle furono aperte ed i detenuti, comuni compresi, si riversarono nell’ampio cortile interno. A questo punto due contrattempi si frapposero allo svolgersi del colpo di mano. Il primo era che non si trovavano le chiavi del portone interno e il secondo che si udì una sparatoria proveniente dall’esterno che fece temere il peggio. Per quanto riguarda la chiave, con la forza convincente dei mitra, sortì all’improvviso e l’esodo di massa ebbe luogo.  Si chiarirono poi le ragioni della sparatoria. Mentre i militi fascisti di guardia all’esterno non avevano fatto opposizione al disarmo, un poliziotto sopraggiunto aveva reagito. Nella sparatoria conseguente lui stesso rimase ucciso mentre “William” fu ferito ad una gamba in modo tale da portarne le conseguenze per tutta la vita.
Mentre i prigionieri politici e comuni (liberati anche per far confusione), si allontanavano lungo le vie di accesso al reclusorio, quattro partigiani prigionieri ai quali eravamo particolarmente interessati: Monaldo Calari “Enrico”, Amos Facchini “Joe”, Nerio Nannetti “Sergio” e Sonilio Parisini “Sassi” presero il posto di quattro partigiani che avevano partecipato all’assalto i quali si allontanarono a piedi mentre le auto raggiungevano le basi di partenza: la Bolognina.
Alcune considerazioni finali. Vi è una particolarità in quella sera che non è stata mai messa in evidenza. Nonostante l’ora tarda, i prigionieri non erano a letto ma tutti furono pronti ad uscire celermente. Quindi bisogna supporre che l’incursione fosse già nota ed i reclusi preparati all’evento nella massima segretezza.
Dall’attiguo carcere femminile, non interessato all’operazione, era stato dato l’allarme ma nessuno intervenne accampando banali scuse del tipo la mancanza di benzina. Circolò anche la notizia che i partigiani che assaltarono il carcere fossero molti di più di quello che erano: dodici combattenti per la Libertà. Naturalmente ci fu anche un rimbalzo di responsabilità per l’insufficiente vigilanza ed il mancato intervento.
Come sempre i commenti dei tedeschi non furono resi noti ma si percepì la rabbia per lo “smacco” subito. Comunque nessuna notizia ufficiale fu diramata.
Dopo qualche giorno in trafiletto sul locale giornale  “il Resto del Carlino” invitava i detenuti evasi a presentarsi spontaneamente poiché sarebbero stati trattati con benevolenza [...]
Redazione, 9 agosto 1944. Una giornata di gioia nella tragedia della guerra, ANPI Provinciale di Bologna

La 63a brigata Garibaldi fu costituita nella primavera-estate 1944 quando furono accorpati numerosi nuclei armati che operavano nella zona ad ovest di Bologna, in pianura e in montagna.
I nuclei più grossi erano quelli di Monte San Pietro guidato da Amleto Grazia "Marino" e Monaldo Calari "Enrico". Comandante fu nominato Corrado Masetti "Bolero".
La brigata nell'autunno contava oltre 230 uomini, molti dei quali disertori dell'esercito tedesco o ex prigionieri sovietici.
Ai primi d’ottobre la brigata fu attaccata da ingenti forze tedesche a Rasiglio (Sasso Marconi), perché occupava un'importante posizione strategica alle spalle della linea del fronte.
Lo scontro durò più giorni, con gravi perdite partigiane, sia in caduti sia in prigionieri, 13 dei quali furono trasferiti a Casalecchio di Reno e trucidati nei pressi del ponte della ferrovia.
Verso la fine d’ottobre, quando alla brigata giunse l'ordine di convergere su Bologna, per prendere parte a quella che si riteneva l'imminente insurrezione, fu deciso di inviare in città il distaccamento del Comando, forte di una ventina d’uomini, al comando di Masetti e Calari. Dopo essersi aperto la strada combattendo, il gruppo non poté attraversare il fiume Reno in piena e a Casteldebole fu attaccato e distrutto dalle SS tedesche.
Nell'inverno la brigata fu ricostituita con la nuova denominazione di 3a brigata Nino Nannetti. Renato Capelli "Leo" fu nominato comandante, Raffaele Vecchietti "Gianni" commissario politico e Adelfo Maccaferri "Brunello" e Bruno Corticelli vice comandanti. Dopo l'arresto di Capelli, in marzo il comando fu assunto da Beltrando Pancaldi "Ran".
La brigata - che ai primi d’aprile assunse il nome di 63a brigata Bolero Garibaldi - era organizzata su sei battaglioni intestati a caduti: Nello Zini a Bazzano; Gastone Sozzi a Monteveglio; Angelo Artioli a Calderara di Reno; Umberto Armaroli a Sala Bolognese; Antonio Marzocchi ad Anzola Emilia, San Giovanni in Persiceto, Sant'Agata Bolognese e Crevalcore e Monaldo Calari a Monte San Pietro.
Era inquadrata nella divisione Bologna montagna “Lupo”.
La brigata ebbe 1.548 partigiani e 706 patrioti.
I caduti furono 242 e i feriti 69.
Nazario Sauro Onofri, 63a brigata Garibaldi Bolero, Storia e Memoria di Bologna