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venerdì 9 settembre 2022

La fine del secondo conflitto mondiale rappresenta per Venezia un momento di cruciale importanza


Piuttosto che costituire una semplice fase di transizione e ricostruzione, il periodo che segue la fine del secondo conflitto mondiale rappresenta per Venezia un momento di cruciale importanza, dove vengono posati i binari politici su cui la progettualità urbana correrà nei decenni successivi. Se infatti fino a questo momento si era protratto «anche se con segni progressivi di notevole difficoltà, il tentativo di mantenere nella città storica tutte le funzioni direzionali, gran parte dei servizi e di concentrare, nella stessa, lo sviluppo economico e quello demografico»; è a partire dal 1951 che essa tocca il suo «punto critico», avviluppandosi in un rapido e inarrestabile processo di decadenza <1.
In questi anni, infatti, si rinsalda progressivamente quell’intreccio tra sviluppo edilizio, scelte urbanistiche, sfruttamento turistico, espulsione delle classi medie e produttive, ghettizzazione del sottoproletariato urbano, deindustrializzazione e ipertrofia della rendita immobiliare, le cui premesse erano state poste nei decenni precedenti <2. Anziché utilizzare la cesura costituita dal disordine post-bellico per un effettivo rinnovamento del discorso pubblico e delle pratiche di progettazione della città, si ritessono quindi senza soluzione di continuità le fila del disegno volpiano, mantenendolo come criterio orientativo fondamentale della ricostruzione e avviandolo perciò a definitiva concretizzazione <3. «Quasi tutti i grandi progetti degli anni successivi sono infatti riproposizioni (talvolta neppure aggiornate) di quelli elaborati negli anni Trenta» <4.
La stessa giunta guidata dal sindaco comunista Giobatta Gianquinto (1948-1951), espressione di una coalizione delle sinistre, non risulterà in grado di operare una rottura con le precedenti amministrazioni, cedendo infine definitivamente terreno alla Democrazia Cristiana, che con le elezioni del 1951 darà inizio ai suoi venticinque anni di governo ininterrotto della città lagunare. Espressione diretta del precedente blocco d’ordine, il partito costituiva del resto il «riferimento obbligato sia per le forze economiche interessate all'ulteriore sviluppo industriale della città sia per i ceti medi legati alla vocazione turistica del centro storico e delle isole» <5.
A prevalere in modo trasversale in questo periodo sarà comunque lo spontaneismo, ovvero la ricerca di soluzioni rapide ai gravi e urgenti problemi della città, avente come criteri esclusivi la ripresa economica, qualunque essa fosse, e il massimo incremento possibile dei redditi. Un atteggiamento politico che condurrà ad una situazione di "anarchia spesso irreparabile dell’iniziativa privata, confusione incredibile di iniziative dei pubblici poteri, incapacità degli addetti ai lavori di mettere mano autorevolmente al problema generale della pianificazione e della disciplina urbanistica [...]. Se ne conclude che dal 1945 al 1955, gli anni chiave della ricostruzione, il periodo in cui sarebbe stato tutto sommato facile imporre una disciplina e adottare una pianificazione, la chiarificazione del problema urbanistico veneziano, che sembrava possibile e matura alla vigilia del conflitto, si perdeva nei meandri paludosi di una serie incontrollabile di interessi particolari, di visioni ristrette, di croniche incapacità direttive" <6.
Incapacità che si cercherà di mascherare tramite la pressante richiesta di aiuti governativi. Il sindaco democristiano Angelo Spanio, in una conferenza stampa nel Maggio del 1952, poteva così dichiarare che:
"la città unica […] minaccia di soccombere all’offesa delle maree, delle correnti, della salsedine. […] Venezia è patrimonio comune, e questo patrimonio si trova sotto la perenne minaccia di fenomeni lenti ma continui e inesorabili che, se non si provvede in tempo, la trasformeranno in una città morta. […] Siamo certi che le legittime aspirazioni di questa ‘regina’ malata troveranno nel Governo, e nel mondo intero, pronta comprensione" <7.
Più delle maree, il problema enorme che vive la città è in realtà ancora lo stato drammatico delle sue abitazioni, che coincide con il picco storico del sovraffollamento urbano. Nel 1948, da un’ulteriore inchiesta di Vivante, la situazione si rivelerà addirittura peggiore rispetto a quella registrata nel 1909, con un aumento degli alloggi al piano terra. Al 1952, i tre quinti della popolazione risultavano sistemati in «misere abitazioni», mentre 50.000 persone vivevano in «baracche, tuguri malsani, in case pericolanti» <8. Vista l’urgenza di una capillare operazione di risanamento edilizio, la soluzione venne ancora una volta individuata nello sfollamento della città storica verso la terraferma; laddove la logica seguita, in linea con il Piano Fanfani del 1949, era quella di assegnare all’iniziativa privata il compito di risolvere la questione, garantendole un’adeguata remunerazione e incentivi statali. Principio che si tradusse in un ipertrofico moto edificatorio nelle aree periferiche, che il Comune si impegnava a concedere a prezzi irrisori e ad urbanizzare, «valorizzando aree altrimenti poco redditizie per investimenti del capitale privato e fornendogli, a spese della collettività, una rendita aggiuntiva» <9. La scelta dell’amministrazione cadrà quindi sull’area di San Giuliano, posta sul margine lagunare, in quanto consentiva una replica del meccanismo edificatorio che aveva caratterizzato Porto Marghera e garantiva una sorta di continuità simbolica quale stimolo al trasferimento, nella speranza che la presenza di un ambiente lagunare avrebbe reso «più facile lo spostamento dei veneziani, notoriamente ‘riluttanti’ ad abbandonare la loro città» <10.
Altro punto di convergenza trasversale nell’immediato Dopoguerra sarà l’incentivazione dello sviluppo turistico, percepito come fondamentale strumento di rilancio della città, nonostante esso non avesse all’epoca un ruolo così centrale e si inserisse piuttosto nel progressivo processo di terziarizzazione dell’economia urbana <11. L’importanza del turismo nella ripresa post-bellica fu però particolarmente enfatizzata a livello pubblico, in modo ben più evidente rispetto agli altri settori, tanto che nel 1948 in un comizio pre-elettorale il democristiano Giovanni Ponti poteva dichiarare che «l’industria del forestiero è la vita di Venezia […]. A chi vuol mostrarsi superiore disprezzando dollari e sterline è bene dire: vengano i dollari, le sterline, i rubli: si tratta del pane di Venezia» <12.
Una visione sposata e promossa anche sul piano nazionale, al punto che il sindaco Gianquinto stesso si trovava a lamentarne l’ostinata pervicacia. "Non c’è volta in cui io mi rechi a Roma per parlare ai vari membri del governo di questioni di vitale importanza per Venezia, che non mi senta dire ‘Venezia è città di turismo; voi avete nel turismo grandi risorse e, quindi, una situazione diversa dalle altre città. I bisogni di Venezia sono meno pressanti che altrove’. Ciò non è vero. Non nego che il turismo costituisca una attività economica cospicua della città, ma che Venezia possa essere vista e ritenuta UNICAMENTE come città di turismo internazionale è una ingiustizia e l’asserirlo una menzogna" <13.
Al più presto furono quindi riprese le attività culturali, con la riapertura della Mostra del Cinema nel 1946 e della Biennale d’arte nel 1948. Specialmente sulla prima le categorie puntavano per dilatare la stagione turistica, e ad essa fu richiesto di spostare il proprio calendario da Agosto a Settembre. Se sulla centralità strategica del turismo si conveniva, aperto restava invece il dibattito circa la sua connotazione. Obiettivo principale della giunta di sinistra era infatti quello di incrementare un turismo di massa a favore dei ceti meno abbienti. Si auspicava cioè che «la nostra città d’arte e di storia e la stazione balneare del Lido servano all’elevazione culturale e allo svago di larghe masse popolari» <14. Una visione cui si opponevano invece DC e categorie commerciali, in primis la CIGA, che deteneva il monopolio delle strutture alberghiere e prediligeva un turismo di lusso, percepito come assai più remunerativo e idoneo al tenore della città, che soggiornasse a lungo e fosse distribuito nel corso dell’anno.
In ogni caso, nel 1952, con il riavvio del ciclo economico e produttivo della città, il movimento turistico supererà l’apice raggiunto nel 1938, contando 651.036 arrivi e 1.670.085 presenze. Le strutture alberghiere, invece, passarono dai 151 esercizi con 9.075 posti letto del 1958 ai 188 esercizi con 10.954 posti letto del 1972 (+20%), concentrati in larga prevalenza nelle zone centrali e in quelle prossime ai terminal <15, con un’apertura stagionale di sette mesi l’anno. Si tratta dell’incremento di offerta «più ampio della storia recente, superato soltanto da quanto sta accadendo in questi ultimi anni», che corrisponde ad un parallelo sviluppo della domanda, aumentata in un solo decennio (1957-67) del 70% <16. L’espansione più rilevante delle strutture alberghiere si riscontra tuttavia nella terraferma (+ 70%), con Mestre che comincia proprio in questa fase ad assumere un «ruolo di supporto per le carenze del sistema ricettivo, sia quantitative, sia tipologiche, che cominciano ad essere avvertite nel Centro Storico, [presentandosi come] destinataria di un flusso “frettoloso ed economico” che non trova accoglienza nella Città Antica» <17. In generale, la Terraferma veneziana nello stesso periodo vedrà incrementare le presenze del 90%, gli arrivi del 130% <18.
[NOTE]
1 G. Zanon, “Popolazione, sviluppo economico, abitazioni: materiali per un confronto”, in E. Barbiani, Edilizia popolare a Venezia, op. cit., pp. 178-196, p. 179
2 Vedi M. G. Dri, op. cit., p. 50
3 Vedi L. Pietragnoli, M. Reberschak, “Dalla ricostruzione al ‘problema’ di Venezia”, in M. Isnenghi, “Il Novecento”, op. cit., pp. 2225-2277, p. 2234
4 Ibidem
5 G. Riccamboni, “Cent'anni di elezioni a Venezia”, in M. Isnenghi, “Il Novecento”, op. cit., pp. 1183-1250, p. 1229
6 Vedi W. Dorigo, Una legge contro Venezia, op. cit., p. 76
7 L. Pietragnoli, M. Reberschak, op. cit., p. 2225
8 Ivi, p. 2226
9 Ivi
10 Ivi, p. 36
11 «Nel centro esistevano, nel primo dopoguerra, una serie di attività terziarie connesse a grandi lavori di costruzione, attività di produzione e distribuzione di energia, banche e assicurazioni, attività cioè che erano proprie di tutti i grandi centri urbani e che avrebbero potuto costituire una base su cui innestare un processo di crescita che si poteva rivelare dinamico nel prosieguo del tempo come doveva accadere per altre importanti città. La presenza di elevate quote del terziario negli anni Cinquanta ha ben poco a che fare con la specializzazione turistica che si dovrà invece affermare per Venezia negli anni successivi e che ha costituito un aspetto particolarmente limitativo dello sviluppo della città negli anni più recenti», in G. Tattara, “Il mercato del lavoro nel veneziano”, in M. Reberschak, Venezia nel secondo dopoguerra, op. cit., pp. 51-72, p. 72
12 M. G. Dri, op. cit., p. 26
13 Ibidem
14 Cit. in P. Sartori, “La prima amministrazione comunale e la giunta Gianquinto”, in M. Reberschak, Venezia nel secondo dopoguerra, op. cit., pp. 157-182
15 Su 142 esercizi della città storica nel 1972, 84 erano infatti nell’area realtino-marciana e 40 tra la stazione ferroviaria e piazzale Roma.
16 E. Barbiani, G. Zanon, "Condizioni di competitività delle strutture ricettive del Comune di Venezia e della regione turistica", Rapporto COSES, 536, 2004, p. 6.
17 Ivi, p. 7
18 Ibidem
Clara Zanardi, La 'bonifica umana'. La Venezia degli esodi nello sguardo dei rimasti, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2018/2019