Lago di Trebecco in Val Tidone (valle posta tra le province di Pavia e di Piacenza). Fonte: Wikipedia |
Le prime repressioni nazifasciste
L’8 settembre 1943 anche in Val Tidone si era gioito all’annuncio che l’Italia era uscita dalla guerra e alla prospettiva quindi di un prossimo ritorno alle loro famiglie dei soldati che non avevano ancora perso la vita sui diversi fronti in Europa e in Africa. Il giorno dopo però, partite da Tortona ed entrate nel territorio piacentino proprio da Castel San Giovanni, arrivarono le truppe hitleriane ad instaurare l’ancor più duro e sanguinoso regime nazifascista, di oppressione e di guerra. I fascisti rimessi al potere dai nazisti provvidero fra l’altro a consegnargli i cittadini italiani di origine ebraica, per lo sterminio nelle camere a gas. Nella Val Tidone toccò a Tina Pesaro: incarcerata a Piacenza nel dicembre ’43 e deportata poi in Germania morirà trentunenne nel lager di Dachau, mentre la zia Enrica si sottrarrà alla stessa fine con il suicidio. Le forze di polizia del regime intervennero inoltre nel gennaio ’44 a Castel San Giovanni contro “una vasta organizzazione clandestina antifascista” colpevole di aver diffuso volantini portati li da Milano. Fra gli imputati Italo Tosca e Giuseppe Venerando che saranno poi in effetti due importanti protagonisti della lotta partigiana.
Il primo episodio di lotta armata partigiana: l’agguato a Vidiano di Piozzano
Cresceva intanto soprattutto una diffusa resistenza alla pretesa di Mussolini di riportare sotto le armi e nella guerra a fianco dell’esercito tedesco gli ex militari italiani sfuggiti alla cattura e alla deportazione in Germania, ed arruolare per lo stesso fine i nuovi giovani di leva delle classi 1924-‘26. La grande maggioranza dei precettati non si presentava e le locali Stazioni dei carabinieri - incorporati, contro il loro volere, nella Guardia Nazionale Repubblicana assieme alla Milizia fascista - assolvevano di malavoglia al compito di prelevare di forza i renitenti ed anzi spesso facevano preavvertire le famiglie in modo che i ricercati non si facessero trovare. Le autorità fasciste iniziarono quindi a organizzare direttamente da Piacenza delle spedizioni alla caccia dei renitenti. Appunto in occasione di una di queste avvenne, nel territorio della Val Tidone, il primo episodio di resistenza armata popolare, con un esito funesto per gli incursori.
Era la mattina del 24 gennaio del 1944, un autobus militare, con 15 agenti della Gnr (tutti carabinieri perché i miliziani fascisti si erano sottratti alla spedizione), salendo da Piozzano stava raggiungendo la frazione di Vidiano per catturare i giovani di leva della zona, quando ad una curva fu investito da una nutrita scarica di fucileria che arrestò l’automezzo e colpì a morte due degli agenti mentre quattro rimasero feriti e gli altri nove si arresero. A tendere l’agguato erano stati abitanti della zona, una trentina, in gran parte genitori dei giovani di leva ricercati, muniti dei loro fucili da caccia, più alcuni ex militari a cui pure era arrivato il richiamo in servizio e che invece avevano cominciato a costituire un gruppo di resistenza, avevano reperito quattro moschetti e usavano ritrovarsi a La Sanese, un caseggiato posto in un punto strategico, al confine fra i comuni di Piozzano, di Pecorara, di Bobbio e di Travo.
L’agguato aveva peraltro un carattere di reazione improvvisata, tant’è che si incaricò l’autista dell’automezzo di ritornare subito a Piacenza con i due cadaveri ed i feriti da curare, e cosi le autorità fasciste e naziste, chiedendo aiuto anche a quelle della provincia di Pavia, poterono organizzare già in giornata un poderoso rastrellamento della val Luretta, inviando centinaia di armati. Un rastrellamento che si protrasse per quattro giorni ma che non portò all’individuazione né dei partecipanti all’agguato né alla cattura di renitenti alla leva, che avevano provveduto a nascondersi o al lasciare la zona, ma, dopo atti di intimidazioni verso tutta la popolazione ed i suoi sei parroci, si concluse con l’arresto ed il trasporto nel carcere di Piacenza di 20 persone fra cui i sacerdoti don Varesi di Groppo e don Tinelli di Vidiano, accusati di connivenza con i ribelli.
I ribelli della “Compagnia Carabinieri Patrioti”
Il clamoroso fatto di Vidiano accelerò il processo di formazione del movimento partigiano, facendo fra l’altro comprendere ai carabinieri della Gnr che rischiavano di essere le vittime prese di mezzo fra la funzione repressiva che gli assegnavano le autorità fasciste e la resistenza armata popolare che andava prendendo piede. Nello stesso mese di gennaio il gruppetto di resistenti di La Sanese fu raggiunto dal tenente Fausto Cossu con un primo gruppo di carabinieri che con lui, che aveva già conosciuto l’internamento in Germania, avevano abbandonato il corpo a Bologna. Per i primi mesi del ’44 l’attività di “Fausto” fu rivolta essenzialmente a provvedersi delle prime armi e a convincere i carabinieri della Stazioni della Val Tidone e della Val Trebbia a disertare dalla Repubblica di Salò per unirsi al suo gruppo. Cercava di evitare nel frattempo attacchi e scontri con le forze di Salò. Riuscì in tal modo a costituire, con sede a La Sanese, quella che denominò inizialmente la “Compagnia Carabinieri Patrioti”, una formazione partigiana che si distingueva dalle altre per le caratteristiche militari dell’addestramento e della disciplina.
La “Banda Piccoli” dell’antifascista Giovanni Molinari
Contemporaneamente, su indicazione dei dirigenti del partito comunista in via di organizzazione anche a Piacenza, si portò in alta Val Tidone un vecchio esponente dell’antifascismo piacentino, Giovanni Molinari, classe 1900, originario di Fiorenzuola d’Arda. Suo fratello Carlo nel 1921 era stato ucciso dai fascisti e lui stesso nel 1930 era stato inviato al confino nell’isola di Ponza. Il suo obiettivo era di aggregare i primi sparsi ribelli della zona e di farne una banda decisa a dare battaglia ai fascisti, militari o civili che fossero. Nel volgere dei primi mesi del ’44 si adunò attorno a lui una composita formazione di una sessantina di ribelli che dal suo nome di battaglia fu conosciuta come “Banda Piccoli”. Comprendeva soggetti spericolati e disinvolti quale il Giovanni Lazzetti di Castel San Giovanni che diventerà in seguito noto come il “Ballonaio”. Fu questa banda a mettere in atto le prime sistematiche azioni di guerriglia nel territorio dell’alta Val Tidone, quali l’agguato mortale teso al commissario prefettizio e al segretario del fascio saliti da Pianello a Pecorara a rappresentavi l’autorità fascista, il disarmo del presidio militare a Passo Penice e della caserma di Pecorara, nel corso della quale perse la vita un sergente della milizia, il fallito attacco a quella di Pianello dove ad essere ucciso fu un partigiano. Quello di Piccoli, come altri dei primordi del movimento partigiano, era peraltro un raggruppamento con scarsa disciplina e insufficiente attenzione alle reazioni della popolazione locale. Suscitavano in particolare allarme e riprovazione le requisizioni compiute a carico d’imprese e persone accusate di trascorsi e simpatie fasciste.
Molinari e i più stretti compagni avevano come rifugio una tenda sul Monte Lazzaro e una vecchia casa sulle pendici, a circa tre chilometri di distanza da La Sanese dove stava il raggruppamento di Fausto. A questi, impegnato a favorire il processo di diserzione dalla Repubblica di Salò - anche l’intero presidio di Pianello passò infine a lui con tutte le armi in dotazione - non andavano a genio gli orientamenti e le azioni di Molinari e dei suoi uomini, nella stessa zona in cui operava il suo gruppo. Si arrivò, il 4 e 5 giugno del ’44, con la giustificazione di impedire ulteriori vessazioni sulla popolazione, all’uso delle armi contro la Banda Piccoli, all’uccisione di Molinari e di altri tre esponenti della stessa, e all’assorbimento di parte dei restanti, compreso il Ballonaio, nella formazione partigiana di Fausto.
[...] La Banda Piccoli e la sua eliminazione ad opera di “Fausto”: una memoria divisa nella storia della Resistenza piacentina
L’attività della Banda Piccoli e la sua dispersione da parte della Compagnia Carabinieri Patrioti al comando di Fausto Cossu, con la messa a morte dei componenti Enrico Amboli, anni 24, di Castel S. Giovanni, Luigi Lodigiani, anni 22, di Piacenza, Giuseppe Gabrieli , anni 34, di Fiorenzuola, nonché del loro capo Giovanni Molinari, andò a costituire una ferita rimasta aperta nella storia della Resistenza piacentina, oggetto peraltro di una memoria divisa. Gli storici piacentini del movimento partigiano, da Antonino La Rosa a Giuseppe Berti - salvo il fiorenzuolano Franco Sprega nell’opera “Il filo della memoria” - hanno scelto di non soffermarsi sulla vicenda. Il doloroso episodio è invece presente nella memorialistica e nelle testimonianze dei partigiani protagonisti, con valutazioni appunto nettamente divergenti.
Nel volume “Il coraggio del No”, uscito a Pavia nel 1976, si può leggere la motivazione di Cossu: “La banda Piccoli si era data a fare delle razzie. Noi avevamo accertato molte rapine e violenze. La nostra condanna a morte dei responsabili ebbe un riflesso positivo nella popolazione e permise poi lo sviluppo del movimento partigiano in tutta la zona”. Anche tanti che fece il partigiano vicino a Fausto hanno espresso l’opinione che questi prese quella drammatica decisione per evitare che l’immagine della Resistenza fosse pregiudicata. Diverse testimonianze invece di chi aveva condiviso quei mesi del ’44 con Molinari convergono nel sottolineare che in quel tempo il loro era l’unico gruppo in Val Tidone in campo a fronteggiare le forze nazifasciste, che le requisizioni fatte erano indispensabili per la loro sopravvivenza e che furti e violenze gratuite, in quella condizione di crisi della legalità, venivano semmai commesse da individui estranei alla Resistenza. Il parroco di Pecorara, don Arcelloni, nelle sue memorie, di recente ripubblicate su iniziativa dell’Anpi , scrisse “Sì, ci furono anche delle razzie, ma in parte spiegabili e scusabili, perché quelle prime piccole bande che non ricevevano ancora aiuti avevano pur bisogno di provvedere alle più elementari necessità”.
Il comandante Fausto Cossu dopo la Liberazione fu inquisito per quell’episodio di sangue dalla Procura militare di Torino che però, dopo aver ascoltato una trentina di testimoni, lo mandò assolto in istruttoria. Ma anche a Molinari, Amboli, Gabrieli e Lodigiani, fu riconosciuta dalla competente commissione ministeriale la qualifica di “partigiani combattenti” per il riscatto dell’Italia.
E’ stato infine lo storico bolognese Mirco Dondi nel volume “La Resistenza fra unità e conflitto” edito nel 2004, a ricostruire in dettaglio la vicenda , arrivando infine alla conclusione che la stessa va ricondotta a quella fase d’avvio della lotta partigiana, caratterizzata anche da conflitti ideologici e personali, nonché dalla mancanza di comuni regole di comportamento, fase che venne superata con la maturazione unitaria del movimento, politico e militare, di Liberazione.
Romano Repetti, Gli inizi del movimento partigiano in Val Tidone, Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza
L’8 settembre 1943 anche in Val Tidone si era gioito all’annuncio che l’Italia era uscita dalla guerra e alla prospettiva quindi di un prossimo ritorno alle loro famiglie dei soldati che non avevano ancora perso la vita sui diversi fronti in Europa e in Africa. Il giorno dopo però, partite da Tortona ed entrate nel territorio piacentino proprio da Castel San Giovanni, arrivarono le truppe hitleriane ad instaurare l’ancor più duro e sanguinoso regime nazifascista, di oppressione e di guerra. I fascisti rimessi al potere dai nazisti provvidero fra l’altro a consegnargli i cittadini italiani di origine ebraica, per lo sterminio nelle camere a gas. Nella Val Tidone toccò a Tina Pesaro: incarcerata a Piacenza nel dicembre ’43 e deportata poi in Germania morirà trentunenne nel lager di Dachau, mentre la zia Enrica si sottrarrà alla stessa fine con il suicidio. Le forze di polizia del regime intervennero inoltre nel gennaio ’44 a Castel San Giovanni contro “una vasta organizzazione clandestina antifascista” colpevole di aver diffuso volantini portati li da Milano. Fra gli imputati Italo Tosca e Giuseppe Venerando che saranno poi in effetti due importanti protagonisti della lotta partigiana.
Il primo episodio di lotta armata partigiana: l’agguato a Vidiano di Piozzano
Cresceva intanto soprattutto una diffusa resistenza alla pretesa di Mussolini di riportare sotto le armi e nella guerra a fianco dell’esercito tedesco gli ex militari italiani sfuggiti alla cattura e alla deportazione in Germania, ed arruolare per lo stesso fine i nuovi giovani di leva delle classi 1924-‘26. La grande maggioranza dei precettati non si presentava e le locali Stazioni dei carabinieri - incorporati, contro il loro volere, nella Guardia Nazionale Repubblicana assieme alla Milizia fascista - assolvevano di malavoglia al compito di prelevare di forza i renitenti ed anzi spesso facevano preavvertire le famiglie in modo che i ricercati non si facessero trovare. Le autorità fasciste iniziarono quindi a organizzare direttamente da Piacenza delle spedizioni alla caccia dei renitenti. Appunto in occasione di una di queste avvenne, nel territorio della Val Tidone, il primo episodio di resistenza armata popolare, con un esito funesto per gli incursori.
Era la mattina del 24 gennaio del 1944, un autobus militare, con 15 agenti della Gnr (tutti carabinieri perché i miliziani fascisti si erano sottratti alla spedizione), salendo da Piozzano stava raggiungendo la frazione di Vidiano per catturare i giovani di leva della zona, quando ad una curva fu investito da una nutrita scarica di fucileria che arrestò l’automezzo e colpì a morte due degli agenti mentre quattro rimasero feriti e gli altri nove si arresero. A tendere l’agguato erano stati abitanti della zona, una trentina, in gran parte genitori dei giovani di leva ricercati, muniti dei loro fucili da caccia, più alcuni ex militari a cui pure era arrivato il richiamo in servizio e che invece avevano cominciato a costituire un gruppo di resistenza, avevano reperito quattro moschetti e usavano ritrovarsi a La Sanese, un caseggiato posto in un punto strategico, al confine fra i comuni di Piozzano, di Pecorara, di Bobbio e di Travo.
L’agguato aveva peraltro un carattere di reazione improvvisata, tant’è che si incaricò l’autista dell’automezzo di ritornare subito a Piacenza con i due cadaveri ed i feriti da curare, e cosi le autorità fasciste e naziste, chiedendo aiuto anche a quelle della provincia di Pavia, poterono organizzare già in giornata un poderoso rastrellamento della val Luretta, inviando centinaia di armati. Un rastrellamento che si protrasse per quattro giorni ma che non portò all’individuazione né dei partecipanti all’agguato né alla cattura di renitenti alla leva, che avevano provveduto a nascondersi o al lasciare la zona, ma, dopo atti di intimidazioni verso tutta la popolazione ed i suoi sei parroci, si concluse con l’arresto ed il trasporto nel carcere di Piacenza di 20 persone fra cui i sacerdoti don Varesi di Groppo e don Tinelli di Vidiano, accusati di connivenza con i ribelli.
I ribelli della “Compagnia Carabinieri Patrioti”
Il clamoroso fatto di Vidiano accelerò il processo di formazione del movimento partigiano, facendo fra l’altro comprendere ai carabinieri della Gnr che rischiavano di essere le vittime prese di mezzo fra la funzione repressiva che gli assegnavano le autorità fasciste e la resistenza armata popolare che andava prendendo piede. Nello stesso mese di gennaio il gruppetto di resistenti di La Sanese fu raggiunto dal tenente Fausto Cossu con un primo gruppo di carabinieri che con lui, che aveva già conosciuto l’internamento in Germania, avevano abbandonato il corpo a Bologna. Per i primi mesi del ’44 l’attività di “Fausto” fu rivolta essenzialmente a provvedersi delle prime armi e a convincere i carabinieri della Stazioni della Val Tidone e della Val Trebbia a disertare dalla Repubblica di Salò per unirsi al suo gruppo. Cercava di evitare nel frattempo attacchi e scontri con le forze di Salò. Riuscì in tal modo a costituire, con sede a La Sanese, quella che denominò inizialmente la “Compagnia Carabinieri Patrioti”, una formazione partigiana che si distingueva dalle altre per le caratteristiche militari dell’addestramento e della disciplina.
La “Banda Piccoli” dell’antifascista Giovanni Molinari
Contemporaneamente, su indicazione dei dirigenti del partito comunista in via di organizzazione anche a Piacenza, si portò in alta Val Tidone un vecchio esponente dell’antifascismo piacentino, Giovanni Molinari, classe 1900, originario di Fiorenzuola d’Arda. Suo fratello Carlo nel 1921 era stato ucciso dai fascisti e lui stesso nel 1930 era stato inviato al confino nell’isola di Ponza. Il suo obiettivo era di aggregare i primi sparsi ribelli della zona e di farne una banda decisa a dare battaglia ai fascisti, militari o civili che fossero. Nel volgere dei primi mesi del ’44 si adunò attorno a lui una composita formazione di una sessantina di ribelli che dal suo nome di battaglia fu conosciuta come “Banda Piccoli”. Comprendeva soggetti spericolati e disinvolti quale il Giovanni Lazzetti di Castel San Giovanni che diventerà in seguito noto come il “Ballonaio”. Fu questa banda a mettere in atto le prime sistematiche azioni di guerriglia nel territorio dell’alta Val Tidone, quali l’agguato mortale teso al commissario prefettizio e al segretario del fascio saliti da Pianello a Pecorara a rappresentavi l’autorità fascista, il disarmo del presidio militare a Passo Penice e della caserma di Pecorara, nel corso della quale perse la vita un sergente della milizia, il fallito attacco a quella di Pianello dove ad essere ucciso fu un partigiano. Quello di Piccoli, come altri dei primordi del movimento partigiano, era peraltro un raggruppamento con scarsa disciplina e insufficiente attenzione alle reazioni della popolazione locale. Suscitavano in particolare allarme e riprovazione le requisizioni compiute a carico d’imprese e persone accusate di trascorsi e simpatie fasciste.
Molinari e i più stretti compagni avevano come rifugio una tenda sul Monte Lazzaro e una vecchia casa sulle pendici, a circa tre chilometri di distanza da La Sanese dove stava il raggruppamento di Fausto. A questi, impegnato a favorire il processo di diserzione dalla Repubblica di Salò - anche l’intero presidio di Pianello passò infine a lui con tutte le armi in dotazione - non andavano a genio gli orientamenti e le azioni di Molinari e dei suoi uomini, nella stessa zona in cui operava il suo gruppo. Si arrivò, il 4 e 5 giugno del ’44, con la giustificazione di impedire ulteriori vessazioni sulla popolazione, all’uso delle armi contro la Banda Piccoli, all’uccisione di Molinari e di altri tre esponenti della stessa, e all’assorbimento di parte dei restanti, compreso il Ballonaio, nella formazione partigiana di Fausto.
[...] La Banda Piccoli e la sua eliminazione ad opera di “Fausto”: una memoria divisa nella storia della Resistenza piacentina
L’attività della Banda Piccoli e la sua dispersione da parte della Compagnia Carabinieri Patrioti al comando di Fausto Cossu, con la messa a morte dei componenti Enrico Amboli, anni 24, di Castel S. Giovanni, Luigi Lodigiani, anni 22, di Piacenza, Giuseppe Gabrieli , anni 34, di Fiorenzuola, nonché del loro capo Giovanni Molinari, andò a costituire una ferita rimasta aperta nella storia della Resistenza piacentina, oggetto peraltro di una memoria divisa. Gli storici piacentini del movimento partigiano, da Antonino La Rosa a Giuseppe Berti - salvo il fiorenzuolano Franco Sprega nell’opera “Il filo della memoria” - hanno scelto di non soffermarsi sulla vicenda. Il doloroso episodio è invece presente nella memorialistica e nelle testimonianze dei partigiani protagonisti, con valutazioni appunto nettamente divergenti.
Nel volume “Il coraggio del No”, uscito a Pavia nel 1976, si può leggere la motivazione di Cossu: “La banda Piccoli si era data a fare delle razzie. Noi avevamo accertato molte rapine e violenze. La nostra condanna a morte dei responsabili ebbe un riflesso positivo nella popolazione e permise poi lo sviluppo del movimento partigiano in tutta la zona”. Anche tanti che fece il partigiano vicino a Fausto hanno espresso l’opinione che questi prese quella drammatica decisione per evitare che l’immagine della Resistenza fosse pregiudicata. Diverse testimonianze invece di chi aveva condiviso quei mesi del ’44 con Molinari convergono nel sottolineare che in quel tempo il loro era l’unico gruppo in Val Tidone in campo a fronteggiare le forze nazifasciste, che le requisizioni fatte erano indispensabili per la loro sopravvivenza e che furti e violenze gratuite, in quella condizione di crisi della legalità, venivano semmai commesse da individui estranei alla Resistenza. Il parroco di Pecorara, don Arcelloni, nelle sue memorie, di recente ripubblicate su iniziativa dell’Anpi , scrisse “Sì, ci furono anche delle razzie, ma in parte spiegabili e scusabili, perché quelle prime piccole bande che non ricevevano ancora aiuti avevano pur bisogno di provvedere alle più elementari necessità”.
Il comandante Fausto Cossu dopo la Liberazione fu inquisito per quell’episodio di sangue dalla Procura militare di Torino che però, dopo aver ascoltato una trentina di testimoni, lo mandò assolto in istruttoria. Ma anche a Molinari, Amboli, Gabrieli e Lodigiani, fu riconosciuta dalla competente commissione ministeriale la qualifica di “partigiani combattenti” per il riscatto dell’Italia.
E’ stato infine lo storico bolognese Mirco Dondi nel volume “La Resistenza fra unità e conflitto” edito nel 2004, a ricostruire in dettaglio la vicenda , arrivando infine alla conclusione che la stessa va ricondotta a quella fase d’avvio della lotta partigiana, caratterizzata anche da conflitti ideologici e personali, nonché dalla mancanza di comuni regole di comportamento, fase che venne superata con la maturazione unitaria del movimento, politico e militare, di Liberazione.
Romano Repetti, Gli inizi del movimento partigiano in Val Tidone, Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza