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domenica 24 marzo 2024

Sindona non voleva rivelare solo la lista dei 500


Il 3 agosto 1979 la segretaria di Michele Sindona a New York ricevette una telefonata anonima, la voce comunicò che Sindona era stato rapito: «Michele Sindona è nostro prigioniero, presto riceverete altre notizie <56».
Il finto rapimento fu l’ultimo tentativo del banchiere di risolvere le sue problematiche di bancarotta fraudolenta, estorsione ed incriminazione per l’omicidio dell’avvocato e commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli.
La messinscena del finto rapimento, che durò due mesi e mezzo, venne preparata con meticolosa cura dal banchiere e dalla mafia siculo-americana. Volendo essere sicuro che nessuno dubitasse del sequestro programmò diversi impegni professionali per i giorni successivi, un appuntamento con un petroliere americano ed un principe arabo saudita.
La simulazione prevedeva dei finti comunicati di giustizia proletaria e delle lettere ai famigliari, nelle quali non mancò di mostrarsi vittima indifesa.
Dal suo finto carcere rivoluzionario di Palermo, il 25 settembre si fece sparare alla gamba sinistra.
Sindona affermò che i presunti giustizieri proletari pretesero documenti d’operazioni finanziarie illecite del padronato.
"Evidentemente qua mi hanno sopravvalutato e credono che io sappia tutto su tutti e che abbia elementi o documenti di tutta importanza da creare importanti coinvolgimenti. Ho già chiarito che posso dare qualche documento di cui posso venire in possesso solo se liberato. D’altra parte le persone implicate non hanno mai sollevato un dito per difendermi e non mi sento in nessun modo di proteggerli. Ho fatto presente che l’elenco dei 500 non esiste se ci si intende riferire ai nomi di persone che hanno depositato all’estero nelle banche da me controllate delle specifiche somme" <57.
La «lista dei 500» rivelava i nomi di coloro che esportarono capitali dall’Italia attraverso la Finbank di Ginevra, nella lista figuravano persone collegate ai partiti politici tra cui la Democrazia cristiana. Il possesso di tale lista costituiva un forte strumento di ricatto nei confronti degli interessati, per indurli a corrispondere a Sindona favori o denaro che avrebbe utilizzato per saldare il debito che aveva accumulato nei confronti di Cosa Nostra <58.
Fingendo d’essere messo sotto torchio dai terroristi il banchiere fece intendere che, messo ormai alle strette, avrebbe finito per confessare.
Michele Sindona era infuriato con gli “amici” che non furono in grado di tutelare i suoi interessi, lasciando che la Banca d’Italia continuasse ad indagare su di lui. Dalle numerose lettere inviate alla famiglia dalla prigionia fornì un elenco delle notizie che interessavano ai rapitori.
Il banchiere non voleva rivelare solo la lista dei 500, ma anche tutti i fondi esteri controllati dalla Democrazia cristiana, le operazioni irregolari per conto di determinati politici, alcuni finanziamenti a politici appartenenti al Partito socialista italiano ed al Partito socialista democratico, tutti i falsi bilanci e le speculazioni bancarie.
Da questa lista sarebbe potuto nascere uno scandalo dalle proporzioni gigantesche. Probabile, dunque, che la prima attuazione di questo piano fosse quella di rivelare questi contenuti a Carmine Pecorelli, piano fallito per la prematura morte del giornalista.
[NOTE]
56 SIMONI-TURONE, Il caffè di Sindona, p. 11.
57 Lettera di Michele Sindona all’avvocato Rodolfo Guzzi, Ivi, p. 18.
58 Tribunale di Palermo, sentenza 23 ottobre 1999, cap. IV, p. 1918.
Giacomo Fiorini, Penne di piombo: il giornalismo d’assalto di Carmine Pecorelli, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2012-2013