La crescita del Partito Comunista testimoniata dai risultati elettorali del 1963 apparve come un pericolo di fronte al quale non abbassare l’allerta. La paura dei conservatori, anche interni alla Dc, si fece sempre più forte di fronte alla progressiva avanzata della sinistra sia nei palazzi del potere con i socialisti tra i banchi del governo sia nelle piazze dove risuonavano forti gli slogan comunisti. La tensione esplose quando il braccio di ferro <122 tra Nenni e Moro innescò una crisi di governo. Dondi parla della mancata riforma urbanistica come casus belli tra Psi e Dc ma aggiunge alle cause anche che “il presidente Antonio Segni avversava il centro sinistra” <123 non permettendo di sopravvivere al primo esecutivo organico guidato da Moro. Lo stallo creatosi tra le forze della maggioranza aveva aperto al Quirinale l’ipotesi di un governo tecnico <124 ma la cosa che apparve una “anomalia nel cerimoniale” <125 e, al contempo, una “minacciosa esibizione di forza” <126 fu l’incontro tra il generale Giovanni De Lorenzo, che la Colarizi indica come l’ideatore del Piano Solo <127, e il Presidente della Repubblica Segni.
Il Piano Solo fu “elaborato e definito nell’ambito dell’Arma” <128 tant’è vero che “l’esecuzione avrebbe dovuto essere realizzata soltanto dai carabinieri” <129. La definizione di Piano Solo fu “del colonnello Luigi Bittoni (poi divenuto generale, inserito negli elenchi della P2) per minimizzare la portata a semplice piano di difesa delle aree vitali” <130. De Lorenzo aveva organizzato l’esecuzione nei minimi dettagli con la deportazione in Sardegna di 731 oppositori politici e l’occupazione di uffici governativi, delle radio, della Rai e delle sedi dei partiti di sinistra. Un’iniziativa avvallata dal presidente Segni il quale voleva, secondo Dondi “favorire le condizioni per formare una coalizione di centro-destra, senza disdegnare in prospettiva l’istituzione di una repubblica presidenziale” <131. Aldo Moro e Pietro Nenni avvertirono il peso della situazione e delle intimidazioni; una condizione che pesava sulle trattative per la formazione dell’esecutivo e che portò a varare un programma scarno dal punto di vista di riforme significative. L’incapacità del governo di portare alla luce del sole ciò che stava accadendo fu dettata dalla regia politica <132 che stava dietro il Piano.
Una regia politica da ricondurre non solo alla “relazione diretta tra il presidente della Repubblica e il capo del Sifar” <133 ma anche dalla solidità che la posizione di De Lorenzo poteva vantare per l’appoggio dell’allora titolare del dicastero della Difesa Giulio Andreotti e di un altro democristiano, Taviani, il quale era alla guida del Ministero degli Interni. Una relazione quella tra i tre che “nell’ambito degli apparati di sicurezza [costituiva] una sorta di vertice a tre” <134 conclude Dondi. Nel memoriale stilato da Moro, durante i giorni del suo rapimento, il leader democristiano rivelò il diretto coinvolgimento del Quirinale nel tentativo di golpe del 1964, parlando di una pesante interferenza <135 e spiegando che il tentativo messo in piedi da De Lorenzo non venne attuato solo perché “il Presidente Segni ottenne, come voleva, di frenare il corso del centrosinistra. L’apprestamento militare, caduto l’obbiettivo politico […], fu disdetto dallo stesso Capo dello Stato” <136.
Nenni parlò spesso del “tintinnar di sciabole” <137, che risuonava forte nei palazzi istituzionali di Roma, ma gli italiani ne vennero a conoscenza solo tre anni dopo nell’estate del 1964. Fu un’inchiesta dell’Espresso redatta da Lino Jannuzzi e Eugenio Scalfari a portare alla luce il progetto autoritario. I militari che vennero coinvolti nel Piano continuarono le loro carriere. De Lorenzo divenne addirittura deputato del Partito monarchico e altri, come il generale dell’Arma Palumbo, finirono “per operare nelle successive trame della strategia della tensione” <138.
L’ombra scura <139 che il progetto del SIFAR proiettò sul sistema democratico italiano ebbe un eco assordante al momento dello scoppio delle proteste del 1968, quando i fenomeni sociali e politici entrarono in una delle fasi più critiche della storia repubblicana. La presenza di forze sleali alla Repubblica “trova una spiegazione nella relativa fragilità dello Stato democratico italiano” <140 che era nato da un’esperienza dittatoriale la quale aveva lasciato in dote “un personale statale vagliato dal regime e di provata fede fascista” <141. Ciò non può che rafforzare la considerazione conclusiva di Dondi sul tentato colpo di stato: “in mancanza di un chiarimento sull’individuazione dei responsabili del Piano, la parte sana della democrazia italiana si autocondanna a vivere sotto la minaccia di un potere che non è in grado di dominare e con il quale deve continuamente misurarsi” <142.
Al fallimento del progetto di De Lorenzo seguì la formazione del secondo esecutivo del centrosinistra organico guidato da Moro al quale parteciparono Psi, Psdi e Pri e che avrebbe avuto una durata relativamente lunga che va dal 1964 al 1966. La direzione della Democrazia Cristiana pose due condizioni ai socialisti affinché il governo potesse prendere vita: la prima fu quella di non ostacolare il corretto funzionamento dell’economia di mercato e la seconda di allargare l’intesa con i socialisti anche a livello delle amministrazioni locali nelle quali ancora vi erano residui di alleanza tra Psi e Pci. Dalla partecipazione a questo secondo esecutivo Moro si astennero sia la corrente democristiana di Fanfani sia quella socialista di Lombardi e, oltre a quella delle destre, “scontata era l’opposizione del Pci” <143 per il quale il programma era troppo scarno.
A pochi mesi dal suo insediamento il nuovo esecutivo dovette affrontare le dimissioni di Segni (colpito da un ictus) e l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Non si giunse d’immediato ad un accordo il che, scrive Salvadori, “mise in luce i dissensi che travagliavano i partiti di centrosinistra ed i comunisti” <144. Il 28 dicembre 1964 venne eletto Giuseppe Saragat, che ricevette anche l’endorsement del Pci e di buona parte della Dc. Il governo, superata l’elezione del presidente della Repubblica, operò per affrontare la recessione economica che il paese stava attraversando ma nel farlo, scrive Salvadori, “scaricava i costi maggiori sulle masse lavoratrici e, subendo il condizionamento delle forti spinte conservatrici, accantonò programmazione e riforme incisive” <145. Anche all’interno dei partiti la nuova prospettiva del centro-sinistra aveva creato spaccature profonde: basti ricordare la corrente di Lombardi nel Psi piuttosto che quelle di Ingrao e di Amendola nel Pci, per non parlare poi dello complesso scacchiere interno alla Dc nella quale lo scontro tra “la fitta rete di clientele” <146, protetta dai conservatori del partito, e il progressismo riformistico <147, istanza della sinistra cattolica, creò non pochi problemi a Moro sia come segretario sia come Presidente del Consiglio.
Nel febbraio del 1966 Moro formò il suo terzo esecutivo, un quadripartito che avrebbe guidato le iniziative governative sino alla fine delle IV legislatura nel 1968. Salvadori sottolinea che “il bilancio - dell’azione di governo - mise in luce la mancanza di incisività del Centro-sinistra e la difficoltà a superare i continui contrasti tra l’ala più conservatrice della Dc e i socialisti” <148. Ad ogni modo alcune nuove leggi vennero approvate tra cui la riforma del
sistema pensionistico mentre rimase lettera morta <149 la riforma universitaria, invocata da molti giovani e incompiuti si rivelarono anche i progetti di riforma tributaria e del diritto di famiglia. Ma ancor più grave fu che le riforme approvate risultarono poco efficaci a causa della mancanza di strumenti tecnici, amministrativi e finanziari.
L’incapacità dei governi Moro di attuare un vero percorso riformistico condusse ad una contestazione politica non più solo interna ai partiti ma estesa anche all’intera cittadinanza, per la quale le mancate riforme divennero un peso insostenibile a fronte della fase di recessione dell’economia italiana. Alla crisi economica si sommava il mal contento delle masse giovanili che, propagatosi dalle università americane a quelle europee ed italiane, crebbe sempre più a fronte di vicende internazionali, come la guerra del Vietnam, tanto da costringere i governi di centro-sinistra ad esprimersi a favore di un onorevole disimpegno <150 degli Usa nel sud-est asiatico. Atteggiamento simile venne preso dalle istituzioni anche a seguito dello scoppio del conflitto tra Paesi arabi e Israele nel 1967.
Partito dall’Università di Berkeley, passato poi per Parigi, Roma, Berlino ed anche Praga il vento della contestazione <151 aveva portato nelle piazze studenti e avanguardie. La società era ormai in movimento da diversi anni e la classe politica italiana, con la scelta dell’apertura a sinistra, sembrava aver “percepito la portata di questa trasformazione […]. Ma la svolta è così accelerata da palesare l’affanno di tutti i partiti, della maggioranza e dell’opposizione” <152.
[NOTE]
122 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 85.
123 M. DONDI, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Editori Laterza, Bari, 2015, p. 18.
124 Ibidem.
125 Ibidem.
126 Ibidem.
127 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 85.
128 M. DONDI, op. cit., p. 18.
129 Ivi, p. 19.
130 V. ILARI, Il generale col monocolo. Giovanni De Lorenzo (1907-1973), Nuove Ricerche, Ancona, 1995, p. 212.
131 M. DONDI, op. cit., p. 19.
132 Ivi, p. 20.
133 V. ILARI, op. cit., p. 93.
134 M. DONDI, op. cit., p. 21.
135 M. DONDI, op. cit., p. 22.
136 Ibidem.
137 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 86.
138 M. DONDI, op. cit., p. 23.
139 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 86.
140 Ibidem.
141 Ibidem.
142 M. DONDI, op. cit., p. 23.
143 M. L. SALVADORI, Storia d’Italia, cit., p. 394.
144 M. L. SALVADORI, Storia d’Italia, cit., p. 394.
145 Ibidem.
146 Ivi, p. 395.
147 Ibidem.
148 Ivi, p. 400.
149 Ibidem.
150 Ibidem.
151 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 90.
152 Ibidem.
Marco Martino, Italia, Cile: destini politici e percorsi partitici alla base del Compromesso Storico tra PCI e DC, Tesi di Laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2019-2020
Il Piano Solo fu “elaborato e definito nell’ambito dell’Arma” <128 tant’è vero che “l’esecuzione avrebbe dovuto essere realizzata soltanto dai carabinieri” <129. La definizione di Piano Solo fu “del colonnello Luigi Bittoni (poi divenuto generale, inserito negli elenchi della P2) per minimizzare la portata a semplice piano di difesa delle aree vitali” <130. De Lorenzo aveva organizzato l’esecuzione nei minimi dettagli con la deportazione in Sardegna di 731 oppositori politici e l’occupazione di uffici governativi, delle radio, della Rai e delle sedi dei partiti di sinistra. Un’iniziativa avvallata dal presidente Segni il quale voleva, secondo Dondi “favorire le condizioni per formare una coalizione di centro-destra, senza disdegnare in prospettiva l’istituzione di una repubblica presidenziale” <131. Aldo Moro e Pietro Nenni avvertirono il peso della situazione e delle intimidazioni; una condizione che pesava sulle trattative per la formazione dell’esecutivo e che portò a varare un programma scarno dal punto di vista di riforme significative. L’incapacità del governo di portare alla luce del sole ciò che stava accadendo fu dettata dalla regia politica <132 che stava dietro il Piano.
Una regia politica da ricondurre non solo alla “relazione diretta tra il presidente della Repubblica e il capo del Sifar” <133 ma anche dalla solidità che la posizione di De Lorenzo poteva vantare per l’appoggio dell’allora titolare del dicastero della Difesa Giulio Andreotti e di un altro democristiano, Taviani, il quale era alla guida del Ministero degli Interni. Una relazione quella tra i tre che “nell’ambito degli apparati di sicurezza [costituiva] una sorta di vertice a tre” <134 conclude Dondi. Nel memoriale stilato da Moro, durante i giorni del suo rapimento, il leader democristiano rivelò il diretto coinvolgimento del Quirinale nel tentativo di golpe del 1964, parlando di una pesante interferenza <135 e spiegando che il tentativo messo in piedi da De Lorenzo non venne attuato solo perché “il Presidente Segni ottenne, come voleva, di frenare il corso del centrosinistra. L’apprestamento militare, caduto l’obbiettivo politico […], fu disdetto dallo stesso Capo dello Stato” <136.
Nenni parlò spesso del “tintinnar di sciabole” <137, che risuonava forte nei palazzi istituzionali di Roma, ma gli italiani ne vennero a conoscenza solo tre anni dopo nell’estate del 1964. Fu un’inchiesta dell’Espresso redatta da Lino Jannuzzi e Eugenio Scalfari a portare alla luce il progetto autoritario. I militari che vennero coinvolti nel Piano continuarono le loro carriere. De Lorenzo divenne addirittura deputato del Partito monarchico e altri, come il generale dell’Arma Palumbo, finirono “per operare nelle successive trame della strategia della tensione” <138.
L’ombra scura <139 che il progetto del SIFAR proiettò sul sistema democratico italiano ebbe un eco assordante al momento dello scoppio delle proteste del 1968, quando i fenomeni sociali e politici entrarono in una delle fasi più critiche della storia repubblicana. La presenza di forze sleali alla Repubblica “trova una spiegazione nella relativa fragilità dello Stato democratico italiano” <140 che era nato da un’esperienza dittatoriale la quale aveva lasciato in dote “un personale statale vagliato dal regime e di provata fede fascista” <141. Ciò non può che rafforzare la considerazione conclusiva di Dondi sul tentato colpo di stato: “in mancanza di un chiarimento sull’individuazione dei responsabili del Piano, la parte sana della democrazia italiana si autocondanna a vivere sotto la minaccia di un potere che non è in grado di dominare e con il quale deve continuamente misurarsi” <142.
Al fallimento del progetto di De Lorenzo seguì la formazione del secondo esecutivo del centrosinistra organico guidato da Moro al quale parteciparono Psi, Psdi e Pri e che avrebbe avuto una durata relativamente lunga che va dal 1964 al 1966. La direzione della Democrazia Cristiana pose due condizioni ai socialisti affinché il governo potesse prendere vita: la prima fu quella di non ostacolare il corretto funzionamento dell’economia di mercato e la seconda di allargare l’intesa con i socialisti anche a livello delle amministrazioni locali nelle quali ancora vi erano residui di alleanza tra Psi e Pci. Dalla partecipazione a questo secondo esecutivo Moro si astennero sia la corrente democristiana di Fanfani sia quella socialista di Lombardi e, oltre a quella delle destre, “scontata era l’opposizione del Pci” <143 per il quale il programma era troppo scarno.
A pochi mesi dal suo insediamento il nuovo esecutivo dovette affrontare le dimissioni di Segni (colpito da un ictus) e l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Non si giunse d’immediato ad un accordo il che, scrive Salvadori, “mise in luce i dissensi che travagliavano i partiti di centrosinistra ed i comunisti” <144. Il 28 dicembre 1964 venne eletto Giuseppe Saragat, che ricevette anche l’endorsement del Pci e di buona parte della Dc. Il governo, superata l’elezione del presidente della Repubblica, operò per affrontare la recessione economica che il paese stava attraversando ma nel farlo, scrive Salvadori, “scaricava i costi maggiori sulle masse lavoratrici e, subendo il condizionamento delle forti spinte conservatrici, accantonò programmazione e riforme incisive” <145. Anche all’interno dei partiti la nuova prospettiva del centro-sinistra aveva creato spaccature profonde: basti ricordare la corrente di Lombardi nel Psi piuttosto che quelle di Ingrao e di Amendola nel Pci, per non parlare poi dello complesso scacchiere interno alla Dc nella quale lo scontro tra “la fitta rete di clientele” <146, protetta dai conservatori del partito, e il progressismo riformistico <147, istanza della sinistra cattolica, creò non pochi problemi a Moro sia come segretario sia come Presidente del Consiglio.
Nel febbraio del 1966 Moro formò il suo terzo esecutivo, un quadripartito che avrebbe guidato le iniziative governative sino alla fine delle IV legislatura nel 1968. Salvadori sottolinea che “il bilancio - dell’azione di governo - mise in luce la mancanza di incisività del Centro-sinistra e la difficoltà a superare i continui contrasti tra l’ala più conservatrice della Dc e i socialisti” <148. Ad ogni modo alcune nuove leggi vennero approvate tra cui la riforma del
sistema pensionistico mentre rimase lettera morta <149 la riforma universitaria, invocata da molti giovani e incompiuti si rivelarono anche i progetti di riforma tributaria e del diritto di famiglia. Ma ancor più grave fu che le riforme approvate risultarono poco efficaci a causa della mancanza di strumenti tecnici, amministrativi e finanziari.
L’incapacità dei governi Moro di attuare un vero percorso riformistico condusse ad una contestazione politica non più solo interna ai partiti ma estesa anche all’intera cittadinanza, per la quale le mancate riforme divennero un peso insostenibile a fronte della fase di recessione dell’economia italiana. Alla crisi economica si sommava il mal contento delle masse giovanili che, propagatosi dalle università americane a quelle europee ed italiane, crebbe sempre più a fronte di vicende internazionali, come la guerra del Vietnam, tanto da costringere i governi di centro-sinistra ad esprimersi a favore di un onorevole disimpegno <150 degli Usa nel sud-est asiatico. Atteggiamento simile venne preso dalle istituzioni anche a seguito dello scoppio del conflitto tra Paesi arabi e Israele nel 1967.
Partito dall’Università di Berkeley, passato poi per Parigi, Roma, Berlino ed anche Praga il vento della contestazione <151 aveva portato nelle piazze studenti e avanguardie. La società era ormai in movimento da diversi anni e la classe politica italiana, con la scelta dell’apertura a sinistra, sembrava aver “percepito la portata di questa trasformazione […]. Ma la svolta è così accelerata da palesare l’affanno di tutti i partiti, della maggioranza e dell’opposizione” <152.
[NOTE]
122 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 85.
123 M. DONDI, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Editori Laterza, Bari, 2015, p. 18.
124 Ibidem.
125 Ibidem.
126 Ibidem.
127 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 85.
128 M. DONDI, op. cit., p. 18.
129 Ivi, p. 19.
130 V. ILARI, Il generale col monocolo. Giovanni De Lorenzo (1907-1973), Nuove Ricerche, Ancona, 1995, p. 212.
131 M. DONDI, op. cit., p. 19.
132 Ivi, p. 20.
133 V. ILARI, op. cit., p. 93.
134 M. DONDI, op. cit., p. 21.
135 M. DONDI, op. cit., p. 22.
136 Ibidem.
137 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 86.
138 M. DONDI, op. cit., p. 23.
139 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 86.
140 Ibidem.
141 Ibidem.
142 M. DONDI, op. cit., p. 23.
143 M. L. SALVADORI, Storia d’Italia, cit., p. 394.
144 M. L. SALVADORI, Storia d’Italia, cit., p. 394.
145 Ibidem.
146 Ivi, p. 395.
147 Ibidem.
148 Ivi, p. 400.
149 Ibidem.
150 Ibidem.
151 S. COLARIZI, Storia politica, cit., p. 90.
152 Ibidem.
Marco Martino, Italia, Cile: destini politici e percorsi partitici alla base del Compromesso Storico tra PCI e DC, Tesi di Laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2019-2020