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venerdì 11 agosto 2023

Sempre nel ’43, scrive "La mer" sul treno che lo sta conducendo a Perpignan, insieme al pianista Léo Chauliac


[...] Dicono sia merito di Chevalier se Trenet è entrato nell’empireo della canzone francese, ma il fiuto di Jacques Canetti e Mistinguett, uniti all’intuito dell’editore musicale Raoul Breton e di sua moglie, che Jean Cocteau chiamava la “Marquise”, sono stati i veri fautori della gloria inaspettata della surreale Y a d’la joie (“C’è gioia”) con quel refrain trascinante che Charles Trenet firmò con Michel Emer e di cui Chevalier era al tal punto invidioso da non voler più incrociare la vena creativa del giovane collega: «La tour Eiffel part en balade, / comme une folle elle saute la Seine à pieds joints. / […] Mais voilà que soudain je m’éveille dans mon lit. / Donc j’avais rêvé, oui, car le ciel est gris…» <3.
La stampa definiva Trenet «le fou chantant» <4 - un termine coniato, ai suoi esordi da solista, dal gestore di un locale di Marsiglia - ma il folletto di Narbonne, cresciuto nel sud della provincia francese, vicino a Perpignan, era molto più di questo. Charles Trenet fu il primo chansonnier moderno del Novecento per le sue invenzioni testuali, per le sue contaminazioni tra le arti che praticava e per la sua capacità di tenere la scena. Certamente aveva molti padri ispiratori: primo fra tutti Chevalier, meno fra tutti il capostipite della canzone realista Aristide Bruant, ma la sua leggerezza di scrittura era tutt’altro che superficiale. Aveva per compagni di strada la “bohème” di Montparnasse e il poeta Max Jacob, che Trenet sommava agli insegnamenti teatrali di Antonin Artaud e a un métissage che univa swing, fox-trot e valse musette ed era per l’epoca un mix musicale detonante.
La sua agilità da saltimbanco, salti sul pianoforte compresi, faceva il resto.
Eppure, raramente lo si vede citato nei vari studi sulla canzone francese alla pari di Brassens o di Ferré (quest’ultimo, va detto, fu un suo grande ammiratore e a inizio carriera sognava perdutamente di fargli interpretare una propria composizione) proprio perché decise subito di abbandonare le connotazioni narrative dei canti di strada o le rime rassicuranti della tradizione melodica locale, per avvicinare la chanson alla poesia colta. Max Jacob diceva di lui che «ha dato vita alla poesia con la sua voce, e la sua voce alla vita della poesia».
La differenza con i parenti stretti di Bruant e, dopo di lui, i maudits, è che il suo approccio alla scena non aveva nulla di tragico, melanconico, disperato o barricadero. Trenet volava sulle parole e ne rideva, con stile scenico tuttavia impeccabile (in questo, Chevalier non era passato invano), ma spesso quel che raccontava non aveva nulla di spensierato. Spensierate erano le invenzioni linguistiche e il modo di porgerle al pubblico, quello sì: con quel bel faccione sorridente, il feltro rotondo calzato all’indietro, i riccioli biondi a punteggiare la fronte e gli occhioni azzurri ed estasiati, Trenet mostrava un ottimismo vissuto con forza, come un acuto sberleffo alle assurdità della vita. Niente a che vedere con la dentatura sparata fino all’ultima fila del bel Maurice, o l’impegno sociale di tanti suoi colleghi. E in questo, molti suoi brani, come Je chante, sono emblematici di un ribellismo sognatore, fantasioso e spiazzante, simile a quei paesaggi che lo chansonnier respirava nelle campagne del suo Midì.
Louis Charles Augustin Georges Trenet nasce a Narbonne il 18 maggio 1913, nella casa dei genitori che oggi è un museo a lui dedicato, così come la via in cui si trova. È figlio di un notaio con la passione per il violino e passa l’adolescenza a Perpignan dove, dopo la separazione dei genitori, raggiunge il padre nel ’22. E poiché la vita è l’arte dell’incontro, come dicono i poeti, la fortuna del giovane Charles è che ne incontra parecchi: prima il franco-catalano Albert Bausil, che gli fa conoscere i versi di Max Jacob; poi, grazie a un soggiorno berlinese dalla madre (risposatasi con il romanziere e sceneggiatore Benno Vigny), Fritz Lang e Kurt Weill, che avevano dalla loro la poesia del cinema e delle sette note. È così che Charles ha modo di ascoltare anche quelle di due maestri della composizione pianistica: George Gershwin e Fats Waller.
Nel 1930 è a Parigi, vuole studiare disegno e architettura, sogna un futuro da pittore - sarà lui stesso a inventarsi in seguito i manifesti di scena - e si tuffa nel poliedrico mondo artistico di Montparnasse. Scrive poesie sul «Mercure de France» diretto da Paul Léautaud, ma anche racconti e romanzi che usciranno anni dopo, mentre i suoi fortunati incontri continuano: Antonin Artaud, allora noto soprattutto come attore per registi quali Abel Gance, Raymond Bernard e Carl Theodor Dreyer; Jean Cocteau, che gli presenta nelle serate passate alla Coupole il poeta e scrittore Max Jacob; e soprattutto lo svizzero Johnny Hess, che non era né famoso né poeta, ma suonava il piano, aveva due anni meno di Charles ed era bravo. È lui che in Francia divulgherà il termine giovanile “zazou”, per definire i ragazzi che sotto l’occupazione nazista giravano vestiti all’inglese e adoravano il jazz.
L’incontro con Hess avviene nel jazz-club alla moda del College Inn di Montparnasse, nel 1932, e apre a Trenet le porte dello spettacolo. Poco prima il suo patrigno Benno Vigny, di passaggio a Parigi per girare l’unico film da lui diretto, Bariole, gli aveva commissionato delle canzoni e Charles ci aveva provato, ma sembrava solo uno scherzo, anche se il previdente ragazzo di Narbonne si era iscritto come autore alla SACEM. Con Hess è diverso, i due amano lo stesso mondo musicale e l’intesa scatta immediatamente: Trenet firma i testi ed Hess le note. Prima inventano jingles per Publicis, poi vengono ingaggiati al Palace dal patron dei teatri brillanti parigini, Henri Varna, su consiglio della diva Mistinguett (che come talent-scout non sbagliava un colpo), infine divertono al teatro-cabaret Le Fiacre con la java “cinese” Sur le Yang-Tse-Kiang. Si fanno chiamare Charles e Johnny, firmano per l’etichetta Pathé come «artisti di slow-fox» e scrivono Vous qui passez sans me voir, portata al successo dal cantante swing Jean Sablon - quello che a metà degli anni Trenta utilizzò per primo il microfono, per dar forza alla sua voce da crooner; ma Trenet ha un altro passo e quando nel 1936 viene chiamato a prestare il servizio militare, al suo ritorno a Parigi il sodalizio con il compagno di scena si scioglierà. Hess non aveva atteso, come convenuto, che il suo partner terminasse gli obblighi di leva, preferendo lanciarsi in solitudine come cantante-pianista. La scelta destabilizza Trenet, che contava sull’appoggio ritmico e compositivo di Hess, ma che lo aveva in qualche modo già prevenuto. Infatti, quando nell’autunno del ’36 viene inviato alla base militare d’Istres, sconfigge la noia e la naja componendo le prime canzoni, come la celebre Y a d’la joie. Gli obblighi militari, che non dovevano peraltro essere così rigidi, gli portano fortuna. Alla prima licenza si dirige negli uffici parigini di Raoul Breton con le composizioni nate in caserma; l’editore si entusiasma per la surreale Y a d’la joie e la propone a Chevalier, che traccheggia, fino a quando, prima Mistinguett e poi il pubblico vero, lo convincono di trovarsi di fronte a una genialata poetica, che per il suo repertorio brillante e totalmente spensierato risultava un unicum. Ringrazierà pubblicamente Trenet, fino a quando il suo autore non deciderà di cantarla lui stesso: in fondo doveva ancora costruirsi un repertorio… e un’immagine.
Il repertorio continuerà a inventarselo indossando la divisa, come per Je chante e Fleur bleue, e il suo miglior soprannome glielo regala nel marzo del ’37 il direttore del Mélodie, un bar-cabaret situato nel seminterrato di un albergo di lusso di Marsiglia, che per annunciare al meglio la presenza serale di Trenet - visto che “Charles et Johnny” non esistevano più - gli affibbia un appellativo sul cartellone. Da allora, Charles Trenet diventa per tutti “le fou chantant”.
Siamo a un passo dal disastro bellico e l’esposizione universale di Parigi del 1937 si svolge sotto il segno di un apparente svagatezza, tra jazz e valse musette. E qui entra in scena un altro talent-scout di eccezione, Jacques Canetti, che inserisce il nome di Trenet nel programma da lui ideato per Radio-Cité: Music-hall des jeunes. Era una trasmissione ripresa al Théâtre des Ambassadeurs e condotta dall’elegante Jean Tranchant, autore-compositore noto a Parigi negli anni tra le due guerre, come interprete chic e romanticamente ottimista. Quando Trenet, presentato da Tranchant, sale sul palco in completo blu elettrico intonando Y a d’la joie, è un trionfo. Il pubblico richiede con forza il bis e Canetti è costretto a richiamarlo in scena, contro tutte le regole imposte dall’emittente. Il giorno dopo Mistinguett, presente in sala come ospite d’onore, ne parla a Mitty Goldin, che lo ingaggerà nel suo music-hall A.B.C. giusto per aprire lo show della vedette in locandina, la cantante di formazione classica Lys Gauty, quella che rese celebre in Francia Parlami d’amore Mariù, composta nel 1932 da Cesare Andrea Bixio per la voce di Vittorio De Sica nel film di Mario Camerini Gli uomini che mascalzoni… Quando Lys Gauty la interpretò l’anno dopo, il brano fu tradotto senza alcuna attinenza al testo originale e diventò Le chaland qui passe (“La chiatta di passaggio”), struggente canzone esistenziale dove la metafora tra la fugacità dell’amore e una chiatta trascinata dalla corrente di un fiume ci riporta alla precarietà della vita, ottenendo un successo inaspettato. Non solo, nel 1934 il poetico cineasta Jean Vigo terminava il suo secondo e ultimo lungometraggio, L’Atalante, un capolavoro ambientato proprio su una chiatta fluviale. E visto che all’epoca il film fu considerato un fiasco, i suoi produttori sostituirono le musiche originali con il brano cantato da Lys Gauty e rinominarono il film stesso Le chaland qui passe, basandosi proprio sulla notorietà di quell’interpretazione. Il regista morì di lì a poco, la pellicola sparì e fu recuperata molti anni dopo, quando tutta la Nouvelle Vague celebrò il suo autore come genio incompreso. Rimangono in ogni caso la canzone e la voce di Lys Gauty, che quando cedette il palco dell’A.B.C. al giovane Trenet - che indossava un cappello di feltro all’indietro confezionato per l’occasione, per distinguersi dalla paglietta alla Chevalier e ammorbidire la rotondità del viso - non poteva certo immaginare di lanciare uno dei grandi nomi della canzone francese.
Non fu che l’inizio per Trenet, che tornerà in quel music-hall da protagonista del cartellone. E quando nel dicembre del ’37 è libero dagli obblighi militari, prima registra Je chante e Fleur bleue e poco dopo la sua versione di Y a d’la joie, mentre con quel piccolo capolavoro altrettanto surreale che è Boum! si guadagna il primo riconoscimento ufficiale: il Grand Prix du Disque dell’Académie Charles-Cros. Lo omaggia in camerino Jean Cocteau e si complimentano con lui gli interpreti storici di quel genere musicale, come Félix Mayol, mentre Mistinguett sostiene che Trenet canti meglio di Chevalier la surreale Y a d’la joie, scatenando la rabbia di quest’ultimo (che rifiuterà poi di incidere Ménilmontant, brano offertogli dal fou chantant, da lui definito a suo tempo un dilettante). Dovranno passare vent’anni prima che i due si stringano nuovamente la mano, e in quel lasso di tempo la carriera di Trenet subirà notevoli saliscendi.
I guai per il “cantante folle” cominciano con lo scoppio della guerra: richiamato alle armi, mentre stava seguendo i lavori di una casa appena acquistata in Costa Azzurra, viene destinato nuovamente a Istres. Riesce a farsi esonerare con uno stratagemma, riprende in qualche modo le esibizioni nella cosiddetta zona libera, ritrovando a Nizza il collega Tino Rossi e Mistinguett, ma scopre che la sua futura abitazione sul mare è stata requisita da un funzionario locale. A quel punto non gli resta che rientrare nella sua dimora abituale di Parigi, dove effettua una trionfale rentrée nel febbraio del ’41. Ma trovare altri ingaggi non è così semplice in tempi bellici. Si adatta ad esibirsi in tour con un circo, collabora con le sue canzoni a produzioni cinematografiche e quando accetta un contratto per una rivista alle Folies-Bergère, scopre tra il pubblico le divise della Gestapo. Per reazione canta meno del previsto ed evita alla fine della sua esibizione di rispondere agli applausi, uscendo rapidamente di scena. Lo fa per diverse sere, fino a quando il direttore Paul Derval rescinde l’impegno. Nonostante tutto, Trenet rimane a Parigi e registra altre canzoni.
Durante l’occupazione nazista, passa dal venir sospettato di collaborazionismo (per aver accettato di recitare in una commedia di Sacha Guitry, a sua volta tacciato di simpatie verso il nemico) al dover dimostrare agli occupanti la propria discendenza “ariana”. Le accuse verso Guitry si riveleranno infondate e quella commedia non andrà mai in porto, ma i dubbi verso la posizione di Trenet continuarono, da una parte e dall’altra della barricata. Nel 1943, come Édith Piaf e Maurice Chevalier, Trenet si presta a cantare per i deportati francesi in Germania. Questo non gli guadagna le simpatie dei resistenti guidati da De Gaulle anche se, per assurdo, è proprio in quest’anno difficile che scrive la struggente Que reste-t-il de nos amours? e Douce France, letta come un inno nostalgico alla Francia libera (la eseguirà con provocatoria nonchalance proprio a Berlino). Quando poi la censura nazista bolla Douce France di patriottismo, per tutta risposta musica il poema di Verlaine Chanson d’automne e recita in film popolari, dichiarando che durante l’Occupazione, «i treni e i teatri di provincia non erano abbastanza riscaldati, così mi son detto che era meglio fare del cinema». Sempre nel ’43, scrive La mer sul treno che lo sta conducendo a Perpignan, insieme al pianista Léo Chauliac («E con una canzone d’amore, il mare ha cullato il mio cuore per la vita»), ma la canzone uscirà solo nel ’46 su insistenza del solito Breton, al quale Trenet avrebbe dovuto fare un monumento.
Alla fine del conflitto, viene accusato dal côté intellettuale parigino di aver veicolato con i suoi testi un’ideologia reazionaria, legata ai valori nostalgici della terra e della gioventù, e nonostante la sua abituale autoironia ne esce molto provato. Così abbandona la Francia e intraprende un lungo tour nelle Americhe, tra Stati Uniti, Brasile e Canada francofono, rifugiandosi nello show business d’oltreoceano. Dovrà dire grazie all’impresario William Morris, che nel periodo bellico non l’aveva mai dimenticato, e ai suoi nuovi ammiratori, come Charlie Chaplin. Saranno anni di trionfi e nuove canzoni, ma nel suo autoesilio scrive in una camera d’albergo a New York anche l’amara e premonitrice L’âme des poètes. Quando nel ’54 rientra a Parigi viene acclamato da tutti, però anche la musica cambia, la televisione incombe e il ribellismo dei nuovi chansonniers rende meno attuali le rime di Trenet, che dirada le apparizioni affrontando gli anni Sessanta come una sorta di traversata nel deserto, esibendosi in locali fuori moda e rifugiandosi nelle campagne francesi, dove dipinge, si occupa dei suoi interessi immobiliari e nel ’65 pubblica il romanzo Un noir éblouissant per Glasset [...]
[NOTE]
3 «La Tour Eiffel se ne va a spasso / come una folle salta la Senna a piè pari. / […] Ma ecco all’improvviso mi sveglio nel letto / avevo quindi sognato, sì, perché il cielo è grigio…».
4 “Il cantante folle”.
Giangilberto Monti e Vito Vita, Gli anni d’oro della canzone francese 1940-1970, Gremese Editore, Roma, 2022