L’impegno di De Gasperi fu quello di perseguire la sintesi tra queste eterogenee (tra loro e al loro interno) correnti, che proprio la scelta del nome rappresenta al meglio: "Il nuovo nome, dunque, non fu scelto da De Gasperi per accentuare il carattere confessionale del partito rispetto all’esperienza popolare; al contrario fu chiesto a De Gasperi e agli ex-popolari (che avrebbero preferito il vecchio nome) dai giovani e dai guelfi, i quali desideravano prendere le distanze dall’esperienza popolare". <534
Concentrandoci invece sull’altro figura che abbiamo richiamato, secondo Giuseppe Carlo Marino, che proprio alla figura del 'ministro di polizia' ha dedicato un importante studio, "tra gli esponenti del popolarismo prefascista, Scelba - appena quarantacinquenne all’indomani della liberazione - era tra gli elementi più giovani sui quali potesse fondarsi l’ipotesi di una continuità storica, e quindi di un travaso, dell’esperienza del vecchio Ppi nella Dc. […] Il progetto che la sosteneva - l’idea di un Centro cattolico-popolare al quale ancorare le sorti di una repubblica capace di imporsi, se necessario, tanto all’estremismo di sinistra che a quello di destra - avrebbe orientato e vincolato per molto tempo la politica italiana del dopoguerra. […] Tutte le idee e le iniziative scelbiane rientravano nell’alveo di una fondamentale elaborazione sturziana. Poco o niente che non vi fosse direttamente o indirettamente incanalabile poteva appartenere a Scelba o essergli accreditato". <535
Scelba, allievo di Sturzo e formatosi politicamente nel cattolicesimo antifascista e conservatore presente in alcuni circoli della sua Caltagirone (di dove era originario anche il prete siciliano), rimane per tutta la vita un personaggio storico che potremmo definire “sintetico” e paradossale: repubblicano e antifascista, liberale e conservatore, fautore di una politica che produsse una permanente tensione tra la forza e il diritto, in nome di un anticomunismo conforme alla guerra ideologica dell’ordine bipolare. A suo modo Sturzo era portatore di un progetto di correzione del vecchio liberalismo prefascista e non solo perché questo si era consegnato, nella sua interpretazione, al fascismo; ma anche e soprattutto perché, fedele alla filosofia (in realtà ben più progressista) di don Romolo Murri, che per primo aveva parlato di una 'democrazia cristiana' e della possibilità per il popolo di organizzarsi sindacalmente e politicamente, egli mirava realmente all’ingresso delle masse nella vita politica dello Stato unitario.
"Il 'liberalismo' sturziano passava attraverso una rottura con il ceto politico della vecchia Italia liberale che negli anni Venti, per arginare l’avanzata del popolo nello Stato, si era consegnata al fascismo. Si trattava di un liberalismo anomalo che stava addirittura agli antipodi della concezione borghese-capitalistica. Era la moderna espressione di un concetto della libertà (o, meglio, delle libertà) formatosi nella tradizione di un lungo confronto politico-religioso dei cattolici con Cesare, un concetto che faceva parte di una complessa dottrina della persona, e dei suoi diritti, profondamente ostile all’individualismo borghese: la persona in radicale alternativa all’individuo, ovvero come soggetto civile portatore di una coscienza dei doveri e dei diritti derivante all’appartenenza al popolo". <536
I concetti di classe e di conflitto sono estranei a questa filosofia politica, interpretati anzi come elementi di disordine e inganno da parte dei marxisti; Scelba poi interpreterà ancora più negativamente la mobilitazione sindacale e gli episodi conflittuali legati al lavoro, senza mai appropriarsi dunque della tradizione più progressista del cattolicesimo sociale di Murri. In questo senso, l’utilizzo della forza non è estraneo al popolarismo: esso non solo lo prevede come atto necessario da parte dello Stato di fronte al sovversivismo e all’estremismo (che portano quindi a rompere legittimamente, esattamente come per il vecchio liberalismo, il teorico principio di neutralità governativa nei conflitti sociali), ma diviene fondamentale nel dopoguerra nell’intento della Democrazia cristiana di accreditarsi come unica forza politica in grado di arginare il pericolo comunista.
Non soltanto: De Gasperi porta avanti infatti anche "Il proposito di fare della Dc un 'partito nazionale', nel senso di legare definitivamente i cattolici allo Stato democratico e di farne contemporaneamente i garanti di una convivenza politica tollerante e pluralista. […] Egli cercò di individuare una strada nuova attraverso cui i cattolici avrebbero potuto fare ritorno a un impegno politico democratico […]. L’evoluzione del mondo cattolico e la sua maturazione personale lo spinsero a distaccarsi da motivi ghibellini […] e seguendo una prospettiva, in senso lato, neoguelfa di attenzione per la visione cattolica delle questioni italiane". <537
Fare della DC 'un partito nazionale' e, di più, 'il partito italiano', significa dunque accettare libertà e democrazia politica, inserendo al suo interno la costante della forza per il mantenimento dell’ordine. Questa operazione è politica e culturale al tempo stesso: De Gasperi infatti costruisce un ponte con la tradizione liberale moderata risalente alla fase pre-giacobina della Rivoluzione francese, di cui anche il cattolicesimo politico condividere determinati valori: "la libertà è [per De Gasperi] quella, storicamente ben definita, nata con la rivoluzione del 1789 che ha posto fine ai privilegi e alle prerogative dell’antico regime. De Gasperi tende a sottolineare l’apporto dei cattolici e del clero francese alla prima fase della rivoluzione […] [assieme alla] distinzione nella Rivoluzione francese fra 'movimento costituzionale (cahiers)' e 'i violenti' ". <538
Inoltre, il leader democristiano è profondamente consapevole dell’errore commesso dal Partito popolare con il rifiuto dello Stato liberale proprio di fronte al montare del fascismo. In un momento di fragilità della democrazia, il movimento cattolico deve integrare nel proprio patrimonio politico-culturale quello liberale: "Inserendo Tocqueville nella genealogia della Democrazia cristiana De Gasperi si stacca dalla mentalità negativa nei confronti dello Stato della tradizione intransigente di origine lamnesiana, traduce l’opposizione allo Stato accentratore in una nuova concezione dello Stato". <539
Nel medesimo ambito avviene anche un’altra operazione che avrà fortuna nell’ambito della storiografia cattolica: in una paradossale convergenza con il canone storiografico gramsciano-azionista, anche quello cattolico accetta e fa propria l’interpretazione della Resistenza come 'secondo Risorgimento'; su questo punto, Pavone si è espresso piuttosto criticamente: "quello secondo cui la Resistenza rappresenterebbe l’inserzione nello Stato delle masse cattoliche che ne erano state escluse durante il Risorgimento […] costituisce, sul piano della logica storica, un evidente equivoco […]. Gli editori degli scritti di De Gasperi rivolgono al leader democristiano la lode di aver contribuito 'a dare al nuovo Stato una base popolare che non ebbe lo Stato risorgimentale' […]. Abbiamo all’inizio di questo scritto ricordato la tesi del Volpe sul fascismo come immissione delle masse nello Stato: mutatis mutandis, molte delle obiezioni che abbiamo mosso al Volpe potremmo ora ripeterle a queste posizioni cattoliche. […] fra i due atteggiamenti non esiste solo un’affinità ideologica, ma anche una continuità "in re", se è vero che la 'pace' fra Italia e Chiesa […] ebbe una sua manifestazione essenziale proprio nella Conciliazione fascista, e che la Democrazia Cristiana, assumendo il carattere di partito di massa, ha fruito, non da sola del resto, anche di certe eredità fasciste. […] In realtà, la formula della inserzione delle masse cattoliche nello Stato da un lato esprime la prevalenza finale avuta, nella Resistenza, dalla continuità dello Stato, dall’altro sta ad indicare le sempre maggiori pretese che di fronte ad esso Strato hanno accampato i cattolici, fino a rovesciare l’iniziale significa della formula […]: tanto che oggi l’Italia soffre insieme della sussistenza dello Stato liberale borghese e del suo sovvertimento ad opera dei cattolici". <540
[...] Fu comunque Scelba colui che esplicitò in modo più preciso e paradigmatico il neopopolarismo della Democrazia cristiana che, storicamente, viene a coincidere con la formula politica centrista: "Democrazia cristiana uguale centrismo, in quanto - continua Don Sturzo - il nostro programma è un programma temperato e non estremo; siamo democratici ma escludiamo le esagerazioni dei demagoghi; vogliamo la libertà, ma non cediamo alla tentazione di volere la licenza; ammettiamo l’autorità statale, ma neghiamo la dittatura anche in nome della Nazione; rispettiamo la proprietà privata, ma ne proclamiamo la funzione sociale; vogliamo rispettati e sviluppati tutti i fattori di vita nazionale, ma neghiamo l’imperialismo nazionalistico; e così via, dal primo all’ultimo punto del nostro programma, ogni affermazione non è mai assoluta ma relativa, non è per sé stante ma è condizionata, non arriva agli estremi ma tiene la via del centro. Questa posizione non è tattica, è programmatica, cioè non deriva da una posizione pratica di adattamento o di opportunità; ma da una posizione teorica di programma e di idealità. La Dc è per essenza costituzionalmente un partito di centro". <543
Una linea che esclude tanto l’opzione dossettiana delle sinistre interne, più attente alla questione sociale, quanto quella neoguelfa dei Comitati civici di Gedda, più sensibile alle istanze autoritarie dei settori ultraconservatori. In particolare la destra democristiana affondava le sue radici nel ritorno, a inizio anni Trenta, alla cultura intransigente, dopo la sconfessione vaticana del popolarismo sturziano, il compromesso con il fascismo e, successivamente, la delusione verso l’impossibilità di utilizzare il regime come strumento di cristianizzazione della società.
[NOTE]
534 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1978, p. 70
535 G. C. Marino, La repubblica della forza. Mario Scelba e le passioni del suo tempo, pp. 24-25, Franco Angeli 1995
536 Ibidem, pp. 29-30
537 A. Giovagnoli, op. cit., pp. 37-38
538 P. Scoppola, op. cit., pp. 78-79
539 Ibidem, p. 84
540 C. Pavone, op. cit., pp. 64-65
543 M. Scelba, Discorso al Convegno sturziano di Torino (5-6 ottobre 1959), cit. in G. C. Marino, op. cit., p. 33
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017
Concentrandoci invece sull’altro figura che abbiamo richiamato, secondo Giuseppe Carlo Marino, che proprio alla figura del 'ministro di polizia' ha dedicato un importante studio, "tra gli esponenti del popolarismo prefascista, Scelba - appena quarantacinquenne all’indomani della liberazione - era tra gli elementi più giovani sui quali potesse fondarsi l’ipotesi di una continuità storica, e quindi di un travaso, dell’esperienza del vecchio Ppi nella Dc. […] Il progetto che la sosteneva - l’idea di un Centro cattolico-popolare al quale ancorare le sorti di una repubblica capace di imporsi, se necessario, tanto all’estremismo di sinistra che a quello di destra - avrebbe orientato e vincolato per molto tempo la politica italiana del dopoguerra. […] Tutte le idee e le iniziative scelbiane rientravano nell’alveo di una fondamentale elaborazione sturziana. Poco o niente che non vi fosse direttamente o indirettamente incanalabile poteva appartenere a Scelba o essergli accreditato". <535
Scelba, allievo di Sturzo e formatosi politicamente nel cattolicesimo antifascista e conservatore presente in alcuni circoli della sua Caltagirone (di dove era originario anche il prete siciliano), rimane per tutta la vita un personaggio storico che potremmo definire “sintetico” e paradossale: repubblicano e antifascista, liberale e conservatore, fautore di una politica che produsse una permanente tensione tra la forza e il diritto, in nome di un anticomunismo conforme alla guerra ideologica dell’ordine bipolare. A suo modo Sturzo era portatore di un progetto di correzione del vecchio liberalismo prefascista e non solo perché questo si era consegnato, nella sua interpretazione, al fascismo; ma anche e soprattutto perché, fedele alla filosofia (in realtà ben più progressista) di don Romolo Murri, che per primo aveva parlato di una 'democrazia cristiana' e della possibilità per il popolo di organizzarsi sindacalmente e politicamente, egli mirava realmente all’ingresso delle masse nella vita politica dello Stato unitario.
"Il 'liberalismo' sturziano passava attraverso una rottura con il ceto politico della vecchia Italia liberale che negli anni Venti, per arginare l’avanzata del popolo nello Stato, si era consegnata al fascismo. Si trattava di un liberalismo anomalo che stava addirittura agli antipodi della concezione borghese-capitalistica. Era la moderna espressione di un concetto della libertà (o, meglio, delle libertà) formatosi nella tradizione di un lungo confronto politico-religioso dei cattolici con Cesare, un concetto che faceva parte di una complessa dottrina della persona, e dei suoi diritti, profondamente ostile all’individualismo borghese: la persona in radicale alternativa all’individuo, ovvero come soggetto civile portatore di una coscienza dei doveri e dei diritti derivante all’appartenenza al popolo". <536
I concetti di classe e di conflitto sono estranei a questa filosofia politica, interpretati anzi come elementi di disordine e inganno da parte dei marxisti; Scelba poi interpreterà ancora più negativamente la mobilitazione sindacale e gli episodi conflittuali legati al lavoro, senza mai appropriarsi dunque della tradizione più progressista del cattolicesimo sociale di Murri. In questo senso, l’utilizzo della forza non è estraneo al popolarismo: esso non solo lo prevede come atto necessario da parte dello Stato di fronte al sovversivismo e all’estremismo (che portano quindi a rompere legittimamente, esattamente come per il vecchio liberalismo, il teorico principio di neutralità governativa nei conflitti sociali), ma diviene fondamentale nel dopoguerra nell’intento della Democrazia cristiana di accreditarsi come unica forza politica in grado di arginare il pericolo comunista.
Non soltanto: De Gasperi porta avanti infatti anche "Il proposito di fare della Dc un 'partito nazionale', nel senso di legare definitivamente i cattolici allo Stato democratico e di farne contemporaneamente i garanti di una convivenza politica tollerante e pluralista. […] Egli cercò di individuare una strada nuova attraverso cui i cattolici avrebbero potuto fare ritorno a un impegno politico democratico […]. L’evoluzione del mondo cattolico e la sua maturazione personale lo spinsero a distaccarsi da motivi ghibellini […] e seguendo una prospettiva, in senso lato, neoguelfa di attenzione per la visione cattolica delle questioni italiane". <537
Fare della DC 'un partito nazionale' e, di più, 'il partito italiano', significa dunque accettare libertà e democrazia politica, inserendo al suo interno la costante della forza per il mantenimento dell’ordine. Questa operazione è politica e culturale al tempo stesso: De Gasperi infatti costruisce un ponte con la tradizione liberale moderata risalente alla fase pre-giacobina della Rivoluzione francese, di cui anche il cattolicesimo politico condividere determinati valori: "la libertà è [per De Gasperi] quella, storicamente ben definita, nata con la rivoluzione del 1789 che ha posto fine ai privilegi e alle prerogative dell’antico regime. De Gasperi tende a sottolineare l’apporto dei cattolici e del clero francese alla prima fase della rivoluzione […] [assieme alla] distinzione nella Rivoluzione francese fra 'movimento costituzionale (cahiers)' e 'i violenti' ". <538
Inoltre, il leader democristiano è profondamente consapevole dell’errore commesso dal Partito popolare con il rifiuto dello Stato liberale proprio di fronte al montare del fascismo. In un momento di fragilità della democrazia, il movimento cattolico deve integrare nel proprio patrimonio politico-culturale quello liberale: "Inserendo Tocqueville nella genealogia della Democrazia cristiana De Gasperi si stacca dalla mentalità negativa nei confronti dello Stato della tradizione intransigente di origine lamnesiana, traduce l’opposizione allo Stato accentratore in una nuova concezione dello Stato". <539
Nel medesimo ambito avviene anche un’altra operazione che avrà fortuna nell’ambito della storiografia cattolica: in una paradossale convergenza con il canone storiografico gramsciano-azionista, anche quello cattolico accetta e fa propria l’interpretazione della Resistenza come 'secondo Risorgimento'; su questo punto, Pavone si è espresso piuttosto criticamente: "quello secondo cui la Resistenza rappresenterebbe l’inserzione nello Stato delle masse cattoliche che ne erano state escluse durante il Risorgimento […] costituisce, sul piano della logica storica, un evidente equivoco […]. Gli editori degli scritti di De Gasperi rivolgono al leader democristiano la lode di aver contribuito 'a dare al nuovo Stato una base popolare che non ebbe lo Stato risorgimentale' […]. Abbiamo all’inizio di questo scritto ricordato la tesi del Volpe sul fascismo come immissione delle masse nello Stato: mutatis mutandis, molte delle obiezioni che abbiamo mosso al Volpe potremmo ora ripeterle a queste posizioni cattoliche. […] fra i due atteggiamenti non esiste solo un’affinità ideologica, ma anche una continuità "in re", se è vero che la 'pace' fra Italia e Chiesa […] ebbe una sua manifestazione essenziale proprio nella Conciliazione fascista, e che la Democrazia Cristiana, assumendo il carattere di partito di massa, ha fruito, non da sola del resto, anche di certe eredità fasciste. […] In realtà, la formula della inserzione delle masse cattoliche nello Stato da un lato esprime la prevalenza finale avuta, nella Resistenza, dalla continuità dello Stato, dall’altro sta ad indicare le sempre maggiori pretese che di fronte ad esso Strato hanno accampato i cattolici, fino a rovesciare l’iniziale significa della formula […]: tanto che oggi l’Italia soffre insieme della sussistenza dello Stato liberale borghese e del suo sovvertimento ad opera dei cattolici". <540
[...] Fu comunque Scelba colui che esplicitò in modo più preciso e paradigmatico il neopopolarismo della Democrazia cristiana che, storicamente, viene a coincidere con la formula politica centrista: "Democrazia cristiana uguale centrismo, in quanto - continua Don Sturzo - il nostro programma è un programma temperato e non estremo; siamo democratici ma escludiamo le esagerazioni dei demagoghi; vogliamo la libertà, ma non cediamo alla tentazione di volere la licenza; ammettiamo l’autorità statale, ma neghiamo la dittatura anche in nome della Nazione; rispettiamo la proprietà privata, ma ne proclamiamo la funzione sociale; vogliamo rispettati e sviluppati tutti i fattori di vita nazionale, ma neghiamo l’imperialismo nazionalistico; e così via, dal primo all’ultimo punto del nostro programma, ogni affermazione non è mai assoluta ma relativa, non è per sé stante ma è condizionata, non arriva agli estremi ma tiene la via del centro. Questa posizione non è tattica, è programmatica, cioè non deriva da una posizione pratica di adattamento o di opportunità; ma da una posizione teorica di programma e di idealità. La Dc è per essenza costituzionalmente un partito di centro". <543
Una linea che esclude tanto l’opzione dossettiana delle sinistre interne, più attente alla questione sociale, quanto quella neoguelfa dei Comitati civici di Gedda, più sensibile alle istanze autoritarie dei settori ultraconservatori. In particolare la destra democristiana affondava le sue radici nel ritorno, a inizio anni Trenta, alla cultura intransigente, dopo la sconfessione vaticana del popolarismo sturziano, il compromesso con il fascismo e, successivamente, la delusione verso l’impossibilità di utilizzare il regime come strumento di cristianizzazione della società.
[NOTE]
534 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1978, p. 70
535 G. C. Marino, La repubblica della forza. Mario Scelba e le passioni del suo tempo, pp. 24-25, Franco Angeli 1995
536 Ibidem, pp. 29-30
537 A. Giovagnoli, op. cit., pp. 37-38
538 P. Scoppola, op. cit., pp. 78-79
539 Ibidem, p. 84
540 C. Pavone, op. cit., pp. 64-65
543 M. Scelba, Discorso al Convegno sturziano di Torino (5-6 ottobre 1959), cit. in G. C. Marino, op. cit., p. 33
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017