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domenica 4 febbraio 2024

La Milano del dopo armistizio si presenta come una città devastata dalle incursioni aeree


Attorno al giorno dell'armistizio una serie di nodi si intrecciano: una massiccia ondata di licenziamenti, iniziata ad agosto e che proseguirà fino a dicembre; il drastico aumento del costo della vita; i danni della guerra, soprattutto sul fronte abitativo. L'inizio dell'occupazione nazista e la proclamazione della Repubblica sociale, assieme al venir meno di fatto del governo badogliano (salvato unicamente dall'avanzata angloamericana da sud), accentuano, nel quadro di un nuovo scenario istituzionale e governativo, aspetti emersi nei mesi precedenti nel nord.
Così ci si presenta Milano nel primo mese di occupazione nazifascista: "Settembre 1943, gli stracci sono sempre i primi a volare. La Milano del dopo armistizio si presenta come una città devastata dalle incursioni aeree dell'agosto precedente. Degli oltre duecentomila abitanti rimasti senza tetto la maggior parte sono operai: alloggiavano in abitazioni malsane e carissime e ora, dopo che i bombardamenti alleati hanno infierito sui quartieri popolari di Porta Genova, Porta Ticinese, Porta Garibaldi e sull'area a nord dell'Arena, non hanno più nemmeno quelle. Diverso il discorso per i ceti abbienti, i quali, a quest'epoca, sono già sfollati trovando riparo nelle campagne e nelle valli lombarde. Le autorità municipali, di fronte a tale situazione, ventilano sì un progetto di accertamento e requisizione dei vani disponibili, ma basta il coro di proteste del sindacato proprietari di fabbricato perché tutto si areni e la proverbiale solidarietà meneghina, il “gran coeur de Milan”, si blocchi di fronte all'inviolabilità della proprietà privata. Adesso, dopo l'8 settembre, il problema degli alloggi è aggravato anche dalle requisizioni operate dai tedeschi. Trovare casa, anche un buco in cui accalcarsi, diventa impresa sempre più ardua, almeno per chi non possiede un reddito superiore. Non meno drammatica si presenta la situazione alimentare: le razioni assegnate a prezzi controllati - per ammissione degli stessi repubblichini - forniscono meno di un terzo del fabbisogno minimo. Il ricorso al mercato nero è, dunque, un fatto scontato e indispensabile, senonchè i prezzi vanno registrando un'impennata vertiginosa. <270
A questa situazione drammatica, si aggiungano: l'aumento senza precedenti del costo della vita, soprattutto sul capitolo alimentazione, e la mancanza di combustibile e legna da ardere per affrontare l'inverno alle porte <271. Va da sé che in questo contesto la difesa del posto di lavoro e del salario diventa ancora più centrale che nei mesi precedenti. Come già anticipato, una pesante crisi occupazionale interessa i lavoratori milanesi e della provincia: "Le cifre statistiche relative all'intera Italia settentrionale trovano conferma in ciò che accade nel capoluogo lombardo. Tra settembre e ottobre si scatena una massiccia ondata di licenziamenti: la Caproni (6.000 dipendenti) ne espelle 2.000, la Lagomarsino (4.000) ne caccia 3.000, la Brown Boveri 2.000 su un totale di 5.000, la Safar (3.000 dipendenti) ne allontana 1.500, la Olap 500, le Rubinetterie riunite 1.300, la Montecatini 700, la Rizzoli riduce il personale da 200 a 70 unità, la Magni chiude, l'Innocenti non licenzia ma sospende 1.500 lavoratori. A nessuno viene corrisposto il previsto pagamento del 75% del salario da parte della cassa integrazione e i licenziamenti sono accompagnati dalla contrazione delle ore lavorative e dal mancato rispetto di accordi aziendali […]" <272.
A questa offensiva padronale si aggiunge il doppio regime di occupazione nazista e collaborazionista interno che considera la produzione industriale terreno di disciplina militare e, di conseguenza, lo sciopero e l'agitazione sindacale un crimine, che dal giugno '44 può essere punito con la morte (sebbene i tedeschi per i primi mesi si mostreranno più disponibili a fare concessioni alle maestranze in un'ottica di pacificazione e in generale la situazione di guerra renderà gli operai sempre difficilmente sostituibili).
Al tempo stesso l'organizzazione comunista in fabbrica si presenta come piuttosto disgregata. La particolarità del tessuto industriale milanese, rispetto a quello di una città come Torino, è la maggiore diffusione ed estensione sul territorio: caratteristica che aveva già rivelato le difficoltà di coordinamento e mobilitazione in occasione degli scioperi di marzo e che ora, con la nuova situazione politica, mette in risalto i problemi organizzativi delle forze operaie. "Anche al 5° settore (zona Vittoria), che per numero e importanza delle sue fabbriche è secondo soltanto alla mitica Sesto San Giovanni, la situazione organizzativa si presenta grave: persi tutti i collegamenti con gli stabilimenti dopo il 9 settembre, se ne sono ora ristabiliti circa la metà ma - avverte un ignoto relatore - 'in alcuni di quelli collegati il contatto è soltanto per mezzo di un simpatizzante'. Completamente scollegati i maggiori complessi industriali come la Vanzetti, la Falk di Rogoredo, l'Ilva, le Smalterie, la Garelli e altri ancora, perduti i contatti con i licenziati e inesistenti o quasi quelli con i disoccupati, rimangono, unico e magro conforto, i ventiquattro membri (su 4.000 dipendenti) della cellula comunista alla Caproni di Taliedo". <273 Le uniche aziende in cui si registra una capacità di risposta ai licenziamenti sono la Magnaghi di Turro e la Breda della cittadella operaia di Sesto San Giovanni.
Questo quadro desolante si inserisce nel generale attendismo che caratterizza tutte le forze antifasciste (con la significativa eccezione dei socialisti di Basso proprio a Milano, che fin dal gennaio '43 avevano fondato il MUP - Movimento di unità proletaria). La dirigenza comunista, rappresentata nell'Italia occupata da Luigi Longo e da Pietro Secchia (quest'ultimo responsabile dell'organizzazione militare del Pci, esponente dell'ala operaista interna, destinato ad avere molto seguito a Milano), nonostante la oggettiva situazione di difficoltà, avvia una tenace e inizialmente solitaria riorganizzazione politico-militare-sindacale capace di tenere insieme città, fabbrica e montagna secondo una duplice tattica: lotta di massa e lotta armata. È qui che avviene il passaggio dalla parola d'ordine pre-armistizio della 'pace' a quella della 'lotta armata' contro l'occupante nazista e il governo-fantoccio di Salò.
"Mentre prima dell'8 settembre la parola d'ordine più generale era quella della pace, dopo diventa quella della lotta armata. A chi continua a richiedere 'pane, pace e libertà' si obietta: 'Bene per pane e libertà. Ma perché la pace? Bisogna dire: vogliamo la guerra di liberazione' ". <274
La lotta armata rappresenta un capitolo a parte, soprattutto per la sua novità come pratica conflittuale del movimento operaio e rivoluzionario (eccezion fatta per gli anarchici e la significativa esperienza delle guardie operaie e contadine durante il Biennio Rosso), quindi per il particolare significato che assume quando si innesta, come scelta consapevole e tattica di lotta da parte dei comunisti, sulla cultura conflittuale delle classi subalterne e nella politica del conflitto che esse portano avanti in questo periodo fino alla Liberazione. La affronteremo nel paragrafo successivo, per il momento ricordiamo che essa prende due principali forme: il partigianato di montagna delle Brigate Garibaldi (che assume carattere urbano dopo lo sciopero generale del marzo '44 e la fondazione delle SAP - Squadre di azione patriottica); il terrorismo urbano dei GAP - Gruppi di azione patriottica e, in parte, delle stesse SAP. In particolare l'azione di GAP e SAP vuole essere sempre collegata, a volte più idealmente che realmente, alla lotta di massa che in parallelo si cerca di sviluppare in fabbrica e poi nelle strade e nei quartieri popolari.
Riprendendo quindi il filo del discorso relativamente alla lotta di massa, possiamo comunque affermare che questa vive di caratteri spontanei e che le sono propri, ma che nel nuovo contesto dell'occupazione essa è suscitata soprattutto in prima battuta dalle azioni dei GAP e dalla promessa, in parte anche mito collettivo, delle squadre armate che avrebbero appunto dovuto difendere gli operai durante le mobilitazioni. La funzione dei due livelli di lotta e del contesto geografico in cui avvengono è nazionale: d'accordo con una cultura politica che attribuisce alla classe operaia il ruolo di soggetto rivoluzionario indiscusso dei moti di trasformazione sociale, è dalla capitale industriale e dalle altre città operaie che deve partire il moto insurrezionale dell'intero paese non ancora liberato.
Ma prima bisogna rompere quella cappa di indifferenza, timore, paura, inattività che sembra essere calata sulla città dopo l'8 settembre: "Accanto ad una Milano operaia che fa la fame, ne esiste anche un'altra: una Milano che sembra non voler pensare a quanto sta succedendo, una Milano che vuole stordirsi, che vuole o finge di illudersi che tutto stia tornando alla normalità. E i tedeschi, che di questa pseudonormalità hanno bisogno, ne incoraggiano gli aspetti più frivoli concedendo a tutto spiano autorizzazioni alla riapertura di cinema e teatri. I sette cinematografi rimasti aperti nei giorni dell'armistizio diventano ventotto alla fine di ottobre, più quattro teatri". <275
I GAP sono lo strumento che il Partito comunista organizza per rompere questa pseudonormalità: "La massa ha bisogno di guida e di organizzazione, ma soprattutto essa ha bisogno di esempi […] queste masse però sono passive, manca l'atmosfera di 'guerra', di lotta contro i tedeschi e i fascisti. Ed è questa atmosfera che bisogna creare con l'esempio dell'azione". <276
Le necessità della guerra di Liberazione si intrecciano dunque con la spontaneità di un conflitto sociale causato dall'asprezza delle condizioni di vita delle classi subalterne. Osserviamo ora più da vicino gli episodi conflittuali del ciclo che dall'autunno '43 si protrae in un crescendo fino allo sciopero generale del marzo '44: ci sono le agitazioni operaie del novembre 1943, sempre connesse ai licenziamenti e alle indennità da corrispondere ai lavoratori lasciati a casa, in particolare nelle fabbriche di Sesto San Giovanni e alla Magnaghi di Turro. Ma è soprattutto a dicembre che si verifica il cosiddetto 'grandioso sciopero dei sette giorni': la prima grande prova di forza organizzata da parte del Partito comunista, in questo momento l'unico che spinge per rompere l'attendismo sia della massa operaia (che faticosamente decide di appoggiare la lotta contro l'occupante, con tutti i rischi che ciò comporta), sia soprattutto del fronte antifascista. Da segnalare l'importante presenza e contributo socialista nel settore tranviario, dove appunto i sindacalisti erano di orientamento PSIUP. L'organo del PCI milanese, "La Fabbrica" (che nei primi numeri riporta il sottotitolo significativo di Giornale sindacale), lancia l'appello allo sciopero che riscuote un importante successo: "Dal 13 al 18 dicembre l'attività industriale è pressoché paralizzata, soprattutto nei primi quattro giorni di sciopero, durante i quali il movimento si estende a macchia d'olio coinvolgendo oltre 60 fabbriche per un totale di 150-160 mila operai. I primi segni di stanchezza si avvertono in seguito all'intervento tedesco che alterna le blandizie e le promesse di miglioramenti alimentari alle minacce e all'uso della repressione armata. Tuttavia la ripresa del lavoro, decisa dal Pci per lunedì 18, può avvenire senza che su di essa gravi un senso di sconfitta e di impotenza". <277
Una volta messa in moto la mobilitazione nelle aziende principali (Magnaghi, Ercole Marelli, Marelli Magneti, Olap, Pirelli e così via), anche gli stabilimenti più piccoli dichiarano lo sciopero. L'agitazione di carattere politico, antifascista e antinazista, è anticipata da un piano rivendicativo chiaro e forte: aumenti retributivi pari al 100%, aumento indennità giornaliera, premio di 500 lire al capofamiglia e 350 agli altri, miglioramento delle mense e degli spacci, liberazione dei detenuti politici, pagamento del 75% per i lavoratori sospesi. <278  Soprattutto, vero elemento di novità, gli operai rifiutano di incontrarsi con i tedeschi e la prefettura, ma vogliono trattare direttamente e solo con gli industriali: "Porre rivendicazioni relative al rapporto di lavoro e, in generale, alla vita in fabbrica implicava la necessità di individuare un interlocutore. Su questo terreno erano i fatti stessi a far riemergere il problema della coincidenza, o della dissociazione, delle tre figure del padrone, del fascista, del tedesco. Il secondo e il terzo erano dei nemici espliciti […] La figura del padrone era invece una figura ambigua". <279
L'azione di massa era stata accompagnata in questi due mesi, novembre e dicembre, dall'incalzare dell'iniziativa armata delle bande partigiane (non ancora un esercito) e dei GAP di città (lo vedremo fra poco); in particolare, il giorno stesso in cui si conclude lo 'sciopero dei sette giorni', il 18 dicembre, avviene l'attentato al commissario federale fascista Aldo Resega. È un atto importante che, unito al successo dello sciopero, aumenta sicuramente il morale operaio e dei partigiani. Al tempo stesso però emerge un carattere centrale della Resistenza milanese urbana: "Svincolare la classe operaia da un terreno di lotta i cui limiti siano marcati, da un lato, dallo scontro economico-rivendicativo in fabbrica e, dall'altro, da un impegno clandestino che rischia di essere mortificato in una attività esclusivamente assistenziale verso il nascente partigianato di montagna. La lezione dei fatti è, insomma, che il potenziamento della lotta in difesa degli interessi di vita e di lavoro delle masse, e il suo crescente e sempre più saldo collegamento con la guerra di liberazione nazionale, devono avvenire attraverso la partecipazione diretta e la conduzione in prima persona della lotta armata in città da parte della classe operaia". <280
E tuttavia la critica e l'autocritica della Federazione comunista milanese riguardo la necessità di costituire gruppi armati di difesa e nuclei partigiani in fabbrica non supererà i limiti della teoria. Questa è anche la principale problematica emersa nel grande sciopero generale del marzo 1944. Preceduto dalla crisi dei GAP a seguito della disastrosa scelta di compiere un attentato alla Casa del Fascio di Sesto San Giovanni (da dove proveniva la quasi totalità dei primi gappisti), che aveva portato all'arresto e alla morte di tutti i suoi membri; preparato e organizzato secondo linee confuse, tra lo sciopero politico-rivendicativo e quello insurrezionale, creando quindi un'aspettativa non chiara nella classe operaia: tutto ciò, al netto dell'indubbio successo politico e del primato storico europeo rappresentato dalla classe operaia milanese durante la Seconda guerra mondiale, porterà a un netto ripiegamento soprattutto a causa dell'assenza di strutture di autodifesa al momento della durissima repressione nazifascista.
[NOTE]
270 L. Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera, p. 13, Franco Angeli 1995
271 Il capitolo alimentazione del settembre 1943 registra un aumento di 50 punti rispetto ai 14 dell'anno precedente e quello del vestiario di 74 punti (contro gli 8 del '42); il capitolo riscaldamento, invece, segna un aumento di 84 punti.
272 L. Borgomaneri, op. cit., pp. 14-15
273 Ivi
274 C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 338
275 L. Borgomaneri, op. cit., p. 32
276 R. Scappini (Giovanni), Considerazioni sulla situazione generale in Piemonte, in P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione cit. p. 120; citato in S. Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, p. 22, Einaudi 2014
277 L. Borgomaneri, op. cit., p. 18
278 Vedi L. Ganapini, op. cit., pp. 74-75
279 C. Pavone, Una guerra civile, op. cit., p. 339
280 L. Borgomaneri, op. cit., p. 19
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017