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giovedì 24 agosto 2023

Lo stesso fenomeno dello squadrismo è considerato, nel contesto langarolo e astigiano, come un qualcosa di esterno

Alba (CN). Fonte: Wikipedia

Gli effetti della guerra non risparmiano neppure i liberali e i cattolici, incapaci, come i socialisti, di dare una reale risposta alle difficoltà e alle esigenze del mondo contadino. La scarsa adesione che riscuote la guerra, coloniale prima ed europea poi, non sono che sintomi di un generale malessere presente nelle campagne a partire dagli anni Dieci. La sottrazione di uomini abili al lavoro non fa che alimentare una crescente ostilità nei confronti del governo, che non sa far fronte alla crisi agricola immediatamente successiva al conflitto. I tentativi di dare esecuzione ai programmi di riequilibrio economico fondato su un coordinamento dei servizi, del credito e dell'istruzione, avviati in provincia di Cuneo dal 1918, falliscono. L'indirizzo produttivistico sostenuto da Nitti su basi socialriformiste, tali da conciliare l'equilibrio fra le principali concentrazioni economiche e l'accoglimento di alcune rivendicazioni popolari in materia fiscale, cooperativa e di legislazione del lavoro, non passa alla fase esecutiva, sia per la diffidenza di alcuni gruppi di comando privati, sia per l'impreparazione delle amministrazioni periferiche. A Cuneo, nei comitati di coordinamento locale, vi è una prevalenza della grande proprietà fondiaria, chiusa nella stretta difesa dei propri interessi.
A peggiorare la situazione intervengono altri fattori. Il primo è il mancato accordo con la Francia (agosto 1918) per le esportazioni agricole e semilavorati, che pregiudica la ripresa dell'industria serica e della concia e il rilancio della frutticultura, risultate più danneggiate al momento dell'ingresso in guerra. Soltanto la coltura della vite non soffre eccessive perturbazioni arrecate dal conflitto, ma nelle Langhe e nel cuneese all'espansione della viticoltura fa riscontro la decimazione del patrimonio zootecnico. Oltre al mancato accordo con la Francia, un'altra decisione, questa volta di natura interna, fa scoppiare le proteste dei lavoratori agricoli. <70 Negli ultimi mesi del 1919 il governo, per far fronte alla grave situazione finanziaria, decide di tassare i produttori vinicoli, già scossi dall'invasione della fillossera che aveva prodotto gravissimi danni all'economia della zona. Intorno a questa vicenda, che genera un'ondata di proteste, si consumano anche le vicende dei partiti di sinistra e dei cattolici. Il comportamento di questi ultimi, ma in particolar modo del partito socialista, che non riusciva a padroneggiare la protesta dei viticoltori, favorisce il successo di u nuovo soggetto politico, guidato da Giacomo Scotti, <71 il quale, uscito dai popolari di Sturzo proprio per i contrasti relativi alla tassa sul vino, da vita al Partito dei contadini d'Italia. <72
La fine del conflitto fa riemergere e ingigantisce i problemi sociali all'interno delle campagne piemontesi, in particolare nel Vercellese e nel Novarese, dove tra il '19 e il '21 si verificano le lotte più accese. La guerra provoca inoltre un ulteriore frazionamento della proprietà fondiaria. Questo fenomeno ha due principali cause. Negli anni del primo dopo-guerra, medi e grandi proprietari, che avevano a contratto diverse decine di braccianti, nutrono crescenti preoccupazioni di ordine politico-sociale, di fronte al generale clima di protesta che è presente nelle campagne. Le occupazioni delle terre, le imposizioni di patti agrari sfavorevoli ai proprietari e i frequenti scioperi convincono il ceto contadino più abbiente a vendere parte della propria terra. Questa tendenza contribuiscono poi altri fattori, di tipo economico: la necessità di ridurre il carico fiscale derivato dal possesso di grandi quantità di terreno e la possibilità di realizzare un buon affare dato l'aumento dei prezzi della terra. Dall'altra, i contadini senza proprietà hanno possibilità di acquistare terra grazie alla maggiore disponibilità economica di cui godevano negli anni Dieci, derivata da diversi fattori, tra cui l'aumento dei salari, il rialzo dei prezzi dei prodotti della terra e l'andamento positivo dei raccolti. Nel giro di dieci anni, tra il 1911 e il 1921, i contadini proprietari dell'area Langhe, Monferrato, Alessandrino salgono dal 44 al 65,6% della popolazione rurale. <73
Le prime elezioni politiche del dopoguerra avevano bocciato il governo e la sua politica bellica, premiando di poco i socialisti e i popolari, che consolidavano così la loro posizione nelle elezioni comunali e provinciali del 1920. <74 Risultati che però non vengono confermati ai socialisti nelle elezioni del maggio '21, che vedono un forte successo da parte del partito di Urbano Prunotto, contadino indipendente, dimostratosi più sensibile alle esigenze della sua classe rispetto a quanto avevano fatto i partiti della sinistra fino allora. <75 L'ambigua posizione dei vertici socialisti rispetto alla tassa sul vino, la scissione interna, che aveva prodotto un'emorragia dei quadri nelle diverse città, tra cui quella di Roberto, e, non ultimo, l'inizio delle azioni squadristiche, avevano danneggiato fortemente i socialisti, a vantaggio del partito dei contadini. Anche i popolari subiscono pari declino nelle Langhe. Al loro partito è infatti legato lo scandalo finanziario che investe le Casse Rurali dell'Albese, entrate in fallimento. <76
Il partito fascista invece è protagonista di una forte ascesa in alcuni dei centri più importanti del basso Piemonte. Ad Alessandria, dove nel 1921 si contano 2780 iscritti al PNF, i fascisti costituiscono uno dei nuclei più forti e meglio organizzati di tutto il basso Piemonte. <77 Qui, diversamente che in Toscana e in Emilia, furono spesso «i figli di ex mezzadri e di piccoli fittavoli di altre zone […] a fornire da fuori una certa massa di manovra per le rappresaglie nei confronti dei braccianti “renitenti” e per le offensive […] contro i “comuni rossi” del circondario». <78 Nel Cuneese invece i fascisti non ottengono un consistente seguito nelle campagne, dove le squadre locali agiscono solo da supporto a quelle di Torino per azioni condotte nell'Alessandrino e nel Casalese. <79
Diversi studi hanno dimostrato come l'area del Monferrato e delle Langhe, caratterizzata dalla piccola proprietà e dall'assenza di grandi concentrazioni operaie, sia stata meno incline, anche per le sue condizioni sociopolitiche, ad adottare metodi e pratiche che invece erano stati accettati e utilizzati nell'area dell'alessandrino, più sviluppata dal punto di vista agricolo e industriale. <80
Lo stesso fenomeno dello squadrismo è considerato, nel contesto langarolo e astigiano, come un qualcosa di esterno, e percepito dal ceto rurale come «violenza» persino nei suoi riti collettivi. <81
Nel triennio '23-'25, i partiti di massa che avevano caratterizzato le lotte politiche nelle Langhe per i vent'anni precedenti escono progressivamente di scena. Tra il 1923 e il 1924 i socialisti e i comunisti vengono dissolti, tra arresti e defezioni continue. Sempre nel Cuneese, il partito popolare entra in crisi nel 1925, «con la defezione di alcuni fra i suoi esponenti più significativi». <82 La sua presenza nelle zone rurali si esprimerà sempre più nell'associazionismo giovanile a carattere religioso.
Con il 1925, quindi, inizia quello che Giovana ha definito «il sonno ventennale» delle contrade langarole sotto la dittatura, segnato da una generale estraneità alla vita pubblica. <83 Sotto la dittatura, sempre Giovana parla di comportamento «afascista» da parte della popolazione, contraddistinto da un lealismo monarchico-sabaudo, reverenza verso la parola della Chiesa e impenetrabilità ai miti bellici.
La politica del fascismo tenderà a depotenziare il modello cooperativistico che si era sviluppato per iniziativa dei piccoli e medi coltivatori e per impulso dei maggiori partiti dell'area, svuotando in pratica ogni velleità politica del ceto contadino, relegato al suo ruolo subalterno nella gerarchia nazionale. In ambito finanziario, dove i contadini erano riusciti a creare casse rurali, l'ascesa del fascismo determina la fine del credito agricolo dell'area. Nonostante i suoi richiami all'«Italia contadina», il fascismo non porta sviluppi nella zona dell'astigiano e delle Langhe, mancando anche i suoi progetti di riordino fondiario, di sostegno finanziario ai proprietari e di ricostruzione dopo la devastazione fillosserica dei primi anni Venti. <84
[NOTE]
70 “Nuovi fazzoletti di terra”, in V. Castronovo, Il Piemonte, cit, p. 306-308
71 Il fratello, Alessandro, sarà a capo di una formazione partigiana nell'astigiano, oggetto di una intricata vicenda che coinvolge gruppi autonomi e garibaldini.
72 A. Agosti, G. M. Bravo (collana diretta da), Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, cit., p.133; si veda anche G. De Luna, Alessandro Scotti e il partito dei contadini (1889-1974), Franco Angeli, Milano, 1985
73 V. Rapetti, Uomini, collina e vigneto in Piemonte, cit., p. 178
74 M. Giovana, Guerriglia, cit., p. 21-23
75 A. Agosti, G. M. Bravo (collana diretta da), Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, cit., p. 162-174
76 Ivi, p. 22
77 V. Castronovo, Il Piemonte, cit., p. 346
78 Ibidem
79 Ivi, p. 341
80 G. De Luna, “Fascismo e mondo rurale in Piemonte. Il dibattito storiografico” in Aa. Vv., Fascismo di provincia, cit., pp. 32-33
81 Ibidem
82 A. Agosti, G. M. Bravo (collana diretta da), Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, cit., p. 223
83 M. Giovana, Guerriglia, cit., p. 24
84 V. Rapetti, “Caratteri dell'economia agricola astigiana tra le due guerre”, in Aa. Vv., Fascismo di provincia, cit., p. 88
Giampaolo De Luca, Partigiani delle Langhe. Culture di banda e rapporti tra formazioni nella VI zona operativa piemontese, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013

lunedì 21 agosto 2023

L'azione violenta, condotta dai tedeschi nel territorio apuano, non terminò con la strage di Vinca e il rastrellamento del 24 agosto, ma si protrasse anche nel mese di settembre



«Il 16 settembre 1944, intorno alle ore 16, un plotone di SS tedesche della Sedicesima Divisione Corazzata al comando del maggiore Walter Reder, appoggiato da reparti fascisti della Brigata Nera di Apuania, entra nell’abitato di Bergiola Foscalina. Lo squadrone procede ad un sistematico rastrellamento di casa in casa. Agli abitanti del paese, in prevalenza donne e bambini, viene ordinato di raccogliersi nel palazzo delle scuole, in quel momento rifugio di alcune famiglie di sfollati. Una volta radunata la popolazione, militari tedeschi e fascisti aprono il fuoco, terminando poi l’opera col lancio di granate e bombe incendiarie. A nulla vale il sacrificio del maresciallo della Guardia di Finanza Vincenzo Giudice, freddato sulla porta dell’edificio. Nel frattempo intere famiglie che avevano cercato scampo nelle case del paese vengono trucidate e i resti dati alle fiamme. Dopo alcune ore di Bergiola non resta che un cumulo di macerie fumanti. Gli abitanti, riparati nei boschi, torneranno il giorno seguente per dare sepoltura ai cadaveri. Si conteranno 72 vittime, di cui 43 donne, 15 adolescenti, 14 bambini». È la didascalia iniziale del documentario-intervista “Bergiola Foscalina - 16 settembre 1944/ 2004”, realizzato da “Linea Gotica” [www.lineagotica.info] con le riprese del regista Gabriele Lucchetti, e presentato nell’ambito dell’omonima iniziativa per celebrare il 60° anniversario della strage. Per una settimana, dal 12 al 19 settembre, uno spazio aperto è stato visitato da centinaia di persone che hanno potuto vedere la bellissima mostra fotografica, curata da Gianni Fustighi e Annalia Petacchi, e la messa in onda a ciclo continuo del documentario. Un’iniziativa partita dal basso, resa possibile dalla collaborazione di tutto il paese all’idea nata e fortemente voluta da Michele Cappè e dal Gruppo Sportivo del paese. Collaborazione che va dal lavoro fatto dai ragazzi della Pubblica Assistenza locale per allestire uno spazio adeguato, alla disponibilità delle quindici persone che hanno lasciato la loro testimonianza, creando un prezioso archivio audiovisivo. «È la memoria che si concretizza, si materializza», dice Enzo Bocedi, dell’ANPI di Carrara, il giorno dell’apertura. I complimenti sono arrivati anche dal sindaco di Eboli, paese natale di Vincenzo Giudice, giunto a Bergiola, come ogni anno, la mattina del 16 settembre per ricordare il sacrificio del suo compaesano. Quest’anno, oltre alle celebrazioni della Guardia di Finanza e del Sindaco di Carrara Giulio Conti, ha trovato un clima diverso. La sera precedente, sotto un vero e proprio diluvio, era arrivato il monumento alla strage, un blocco di marmo alto cinque metri, per il quale l’intero paese si era mobilitato da mesi. Nel pomeriggio la sua inaugurazione, il momento culminante di tutta la settimana, con la presenza di Francesca Ampelio Coppelli, rispettivamente Presidente del Comitato Provinciale e della Sezione Comunale ANPI, di Marsiglia Morelli, assessore del Comune di Carrara e del Vescovo della Diocesi Monsignor Eugenio Binini. “16 settembre 1944/16 settembre 2004”: è tutto qui il senso e lo spirito di un’iniziativa che vuole ricordare, ma non solo. Lontana dalle celebrazioni stantie, fatte di minuti di silenzio, cerimoniali e autorità in parata, essa vuole parlare. Vuole farsi ascoltare. E in tanti hanno ascoltato la testimonianza dei sopravvissuti che all’epoca erano, per la maggior parte, ragazzini. E donne, mogli, madri, sole perché i loro uomini o erano stati rastrellati o avevano scelto la via della montagna. Loro scelsero di restare, coi loro figli e gli anziani, anche quando cominciò a circolare la voce dell’uccisione di un tedesco lì vicino, sulla strada della Foce che collega Carrara con Massa. Anche quando si sentì parlare della possibilità di una rappresaglia. Non c’erano formazioni partigiane vicino a Bergiola, o quantomeno erano più vicine ad altri paesi. Se invece fossero arrivati, si diceva, al massimo avrebbero saccheggiato le case. Di ciò che era accaduto a Vinca, circa due settimane prima, forse non era arrivata notizia, forse era arrivata ma nessuno ci voleva credere. Si salvò chi, avvisato dell’arrivo imminente dei nazifascisti, fuggì a piedi verso Carrara ed ebbe la fortuna di non incontrarli lungo l’unica strada che conduce al paese. Dentro il quale, intanto, si stava scatenando l’inferno. Le prime vittime vengono fatte nelle case, dove si è nascosto chi non vuole incamminarsi verso la scuola. In una di queste ci sono Alvarina Cappè e Maria Pavoli, entrambe bambine, con due sorelle e la madre di quest’ultima. Ricordano di essere state messe in fila dietro alcuni sacchi di grano, nella stanza da letto, poi l’arrivo della prima raffica di mitra e il lancio di una bomba a mano. Alvarina e Maria sono ferite, si parlano, con un filo di voce, per capire cos’è successo. È a questo punto che Alvarina sente, provenienti dall’ingresso, quelle parole: “Respirano ancora”. Parte una seconda scarica, che uccide la madre e una sorella di Maria. All’esterno, intanto, bruciano le case e non solo. Nella scuola non c’è scampo, o quasi. Dese Dell’Amico, Maria Morelli e Saura Salutini si salvano, anche loro per caso, anche loro bambine, chi nascosta dentro un armadio, chi avvolta in un lenzuolo per proteggersi dal fumo e poter respirare ancora. Dese vede ciò che le accade attorno, vede le persone cadere sotto i colpi delle mitragliatrici, vede lanciare le bombe a mano, poi vede arrivare un uomo, fare un cumulo di fogliame secco e appiccare un incendio. Il 18 maggio 1950 si concluse, presso la Corte d’Assise di Perugia, il processo contro la Brigata Nera di Apuania. Ruggero Ciampi, Paris Capitani, Italo Masetti, Giuseppe Diamanti e Linda Dell’Amico furono ritenuti responsabili dei reati di collaborazione e strage per i fatti di Bergiola e condannati all’ergastolo. La pena, visti i decreti di amnistia e indulto del 22/6/1946, 9/2/1948 e 23/12/1949, fu immediatamente commutata in 19 anni di reclusione. Se è vero che il dovere del giudice è chiudere un caso, mentre quello dello storico è tenerlo aperto, è anche vero che la raccolta di testimonianze è preziosissima per entrambi, che però le usano in senso opposto. Dato che una sentenza sul caso l’abbiamo già, non resta che mettersi i panni del secondo, ponendo quesiti che suscitino problematiche ancora vive. Il testimone è Lido Galletto, “Orti”, Comandante partigiano dell’omonima formazione operante tra le Prealpi Apuane Occidentali e la Bassa Lunigiana.
Comandante Orti, spesso, nel senso comune, si tende a dimenticare il ruolo attivo che i fascisti delle Brigate Nere hanno avuto nelle stragi del ’44. Se ne parla come di violenze solamente naziste. Che idea ti sei fatto, negli anni, di questo atteggiamento e delle sue cause?
C’è una specie di mortificazione morale, come cittadino italiano, ad accettare che altre persone della stessa nazionalità si possano avventare così ferocemente sulla popolazione inerme.
Allora è un sentimento che viene dal basso, non c’è una volontà politica che tende ad influenzare l’opinione pubblica?
C’è stato anche e soprattutto questo, fin dall’immediato dopoguerra. Dopo il tentativo di pacificazione fatto da Togliatti con l’amnistia, i poteri forti hanno alleggerito anche la posizione di coloro che non vi rientrarono: dovevano essere svolti molti processi ma, per quanto riguarda il nostro territorio, si tenne solo quello di Perugina sui delitti commessi a Vinca e a Bergiola Foscalina.
Qual è il motivo di questo comportamento? Se pensiamo alla vicenda dell’«armadio della vergogna», ad esempio, si dice che i fascicoli occultati persino alla Commissione d’inchiesta parlamentare contengano nomi “scomodi”...
Sì, il motivo è proprio questo. La stessa situazione che si verifica a Roma, sulla questione dell’armadio della vergogna, si ripete anche a livello locale. C’è una sorta di reticenza, un’omissione volontaria con l’intento non della pacificazione, ma semplicemente di dimenticare e far dimenticare. Qualche volta questo atteggiamento è dettato da questioni di carattere sociale.
Allora pensiamoci noi a ricordare: perché in quei giorni di settembre si concentra una così grande quantità di eccidi? Ricordiamo che il 16 settembre, oltre a quello di Bergiola Foscalina, viene commesso anche il massacro delle Fosse del Frigido a Massa, in cui vengono trucidate 147 persone.
Perché il comando del 16° Battaglione SS aveva ricevuto l’ordine, dal Comando Supremo in Italia, di lasciare il territorio per svolgere l’azione di rastrellamento e rappresaglia sul Monte Sole, nell’Appennino Tosco-Emiliano, contro la Brigata Garibaldi Stella Rossa e dopo rastrellare e bruciare i fabbricati in tutto il territorio del Comune di Marzabotto. Quindi, dopo i grandi eccidi di agosto a Castelpoggio, S. Terenzo, Vinca e in tutti i paesi e contrade della Bassa Lunigiana, si ha una recrudescenza della ferocia nazista e fascista. Il carosello di morte comincia a Massa, il 10 settembre 1944, quando i soldati tedeschi delle SS prelevano, dal carcere giudiziario del castello Malaspina, dieci monaci della Certosa della Farneta di Lucca e, unitamente, 14 detenuti politici. Dopodichè li fucilano a piccoli gruppi in varie località periferiche della città. Tutto questo per terrorizzare la popolazione e spingerla a lasciare la città entro il 15 settembre, come aveva disposto il Comando Militare tedesco della Piazza.
In quei giorni, dopo le stragi e i rastrellamenti del mese di agosto, stai tentando di riorganizzare la guerriglia nella zona della Bassa Lunigiana. Quindi sei un testimone diretto dell’eccidio di Tenerano.
Il 13 settembre, nel tentativo di distruggere la nostra formazione ancorata sulla Rocca di Tenerano, una Compagnia di SS del 16° Battaglione circonda all’alba la valle di Bolignano, dove si trovava il nostro campo. Non trovandoci, poiché ci eravamo sganciati nella notte, scendono verso il fondovalle e si accaniscono contro le famiglie Forfori e Antoniotti, uccidendole e bruciando i loro casolari. In quel rastrellamento morirono dieci persone, compresi cinque bambini, di cui uno di solo un anno. Finito l’eccidio, sentivamo a cadenze ondulate cantare la canzone Lili Marlene: era la Compagnia di soldati tedeschi che, dopo aver razziato lo scarso bestiame nel paese di Tenerano, s’incamminava incolonnata verso Monzone. Ho già descritto questa memoria nel mio libro “La lunga estate”: «Il coro era portato dalla brezza della sera che si spandeva dal Lucido lambendo con la sua breve carezza le chiome turgide degli alberi, ancorati come membrana alle ripide ondulazioni tra Viano e Tenerano, disperdendosi su per la collina».
Monzone, però, aveva già subito le violenze nazifasciste nell’agosto con l’uccisione e lo sfollamento della quasi totalità dei suoi abitanti. Chi furono allora i giustiziati del 14 notte? A Monzone di Fivizzano, concentrati nella segheria Walton, si trovavano i rastrellati del territorio. Tra di essi furono individuati 18 detenuti politici tra i quali Don Florindo Bonomi, curato di Fosdinovo, e due Carabinieri. Nella notte del 14 settembre li uccisero, in località Trecase, con raffiche di mitra e mitragliatrici. Due di questi si precipitarono, prima dell’esecuzione, nel sottostante fiume Lucido, e nell’oscurità riuscirono a salvarsi.
Dalla Bassa Lunigiana, la scia di sangue prosegue indirizzandosi sul versante apuano.
Il 16 la rappresaglia investe Bergiola Foscalina con l’uccisione di 72 civili, la maggioranza donne e bambini. Una comunità profondamente legata in un ambiente fisico stupendo. Una terra coperta da una vegetazione ricca e composita. Questo dramma di sangue e violenza inaudita ha spento il sorriso a più generazioni e la felicità del loro esistere. Il parossismo omicida si conclude, lo stesso giorno, alle Fosse del Frigido a Massa con l’uccisione di 147 detenuti comuni e politici delle carceri. I tedeschi avevano preso in consegna l’edificio con tutte le persone che conteneva, eccetto tre che erano alle dipendenze di un maresciallo, due giorni prima. Quella mattina caricarono tutti su dei camion e li portarono via, lungo la via Aurelia. Giunsero sul ponte del fiume Frigido, presso la Pieve di San Leonardo, e li fecero scendere. Sulla riva destra del fiume si trovavano tre ampi crateri provocati dai bombardamenti, in cui furono fatti scendere i prigionieri. Di lì a poco sarebbero diventati le loro Fosse comuni.
Luca Madrignani, «Respirano ancora» e i nazifascisti sparano di nuovo, Patria indipendente, 30 dicembre 2004

Il 16 settembre 150 detenuti del carcere di Massa, in gran parte malati o invalidi, furono fucilati a San Leonardo al Frigido in quella che, in maniera analoga alla vicenda del ponte di Ripafratta di fine agosto, va interpretata come un’azione allo scopo di sbarazzarsi di persone considerate inutile zavorra al momento di lasciare la città. Per nessuna di queste stragi è possibile - allo stato attuale delle conoscenze - ipotizzare un coinvolgimento di Reder e dei suoi uomini. Ma lo stesso 16 settembre, lungo la strada che congiunge Carrara a Massa, il plotone di artiglieria “da accompagnamento” del Battaglione Reder in marcia di trasferimento fu attaccato da «35 partigiani armati con mitragliatrici e tre mitra». L’unità tedesca ebbe un morto. Il messaggio della 14^a Armata che segnala l’attacco annuncia anche una rappresaglia («dodici membri della banda Falco passati per le armi»), ma questo fatto non trova riscontro nelle fonti italiane. È molto probabile, invece, come riportano le fonti italiane, che l’agguato, come anche un altro che avvenne a poca distanza il giorno precedente, fu il movente che, a brevissima distanza di tempo, dette origine alla strage di Bergiola Foscalina. Uomini di un’unità non identificata con precisione della Divisione Reichsführer-SS - con molta probabilità si trattò di soldati dello stesso Battaglione Reder -, accompagnati da militi delle Brigate nere apuane, investirono Bergiola, un villaggio situato a poca distanza dal luogo dell’agguato. Dopo aver rastrellato le case e ucciso molti civili per le strade del villaggio, la strage fu completata col massacro delle persone che erano state rinchiuse nell’edificio scolastico. In tutto morirono 72 civili, e anche in questo caso si trattò in gran parte di donne e bambini.
(a cura di) Carlo Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-1944, Carocci, 2005 

"[…] Si è risaputo che per la reazione del csq. Marcello vi sono stati tre feriti di cui uno grave da parte del nemico". <287
[...] L'azione violenta, condotta dai tedeschi nel territorio apuano, non terminò con la strage di Vinca e il rastrellamento del 24 agosto, ma si protrasse anche nel mese di settembre colpendo in particolar modo i due maggiori centri della provincia: Massa e Carrara. Il 10 settembre in varie zone di Massa vennero fucilate 38 persone, detenute presso il carcere del castello Malaspina. Diciassette dei prigionieri uccisi erano stati arrestati tra il 1 e il 2 settembre presso la certosa di Farneta, in provincia di Lucca e tra di essi vi erano 10 monaci. Le uccisioni avvennero in una città ancora popolata, nonostante l'ordine di sfollamento fissasse, perentoriamente, come data ultima per abbandonare le proprie case, il 15 di quello stesso mese. I luoghi scelti furono le principali vie di transito in direzione monti, mare, Carrara e Viareggio; i corpi vennero lasciati sui luoghi dell'esecuzione come avvertimento verso la popolazione. Le altre due stragi naziste furono compiute nello stesso giorno, il 16, quella con il più alto numero di vittime, avvenne in località San Leonardo, sul viale che dal centro della città di Massa conduce verso il mare. Qui vennero condotti 147 detenuti, fatti scendere sulle rive del fiume, presso dei grossi crateri, provocati dai bombardamenti alleati, e falciati dalle raffiche dei mitra. I corpi, spinti nelle buche, vennero ricoperti. La strage delle Fosse del Frigido, compiuta in una città semi deserta, venne resa nota solo a guerra finita, nel maggio 1945, quando il Questore passò al Prefetto la segnalazione del ritrovamento dei corpi. Nel paese di Bergiola Foscalina, a pochi chilometri dal centro di Carrara, avvenne in quello stesso giorno, un'altra strage compiuta questa volta oltre che da reparti tedeschi anche da uomini delle Brigate Nere. Nella mattinata un soldato tedesco venne ucciso in località Foce da partigiani del GPA [Gruppo Patrioti Apuani]. Sul luogo dell'agguato venne ritrovato lo zaino di un vigile del fuoco residente a Bergiola che, passato nella località dello scontro, si era dato alla fuga terrorizzato, abbandonando il proprio materiale. I tedeschi indirizzarono, quindi, la loro violenza verso il paese. Le vittime furono 61 in gran parte donne e bambini. Parte delle uccisioni avvennero nella scuola elementare dove i tedeschi raccolsero una parte degli abitanti finendoli a colpi di arma da fuoco e bombe a mano.
[NOTE]
287 Ibidem pag. 4. Notizie in A. Gjika, Il Carcere di Massa e l'eccidio delle Fosse del Fiume Frigido cit. con interviste a due partigiani che parteciparono all'azione, Dino Giannotti “Fra Diavolo” e Virgilio Antola. Va inoltre rilevato una certa imprecisione sulle date e sul numero delle azioni compiute da partigiani contro il carcere della stazione. Nella stessa relazione del GPA scritta pochi giorni dopo i fatti, e per questo molto attendibile, la data dell'azione in cui trovò la morte Minuto è indicata come avvenuta il 30 luglio e non il 31 come è sempre stata ricordata.

Marco Rossi, Il Gruppo Patrioti Apuani attraverso le carte dell'archivio A.N.P.I. di Massa. Giugno - Dicembre 1944, Tesi di laurea, Università di Pisa, 2016

venerdì 18 agosto 2023

La passione per il Totocalcio indusse la conoscenza del calcio giocato e portò a seguire con più attenzione le vicissitudini settimanali delle squadre


Importato d'Oltremanica, nel 1946 fu ideato anche in Italia un sistema di scommesse legato ai risultati calcistici. Il gusto del gioco aveva già dei precedenti: nel corso dell'Ottocento proprio su emulazione di ciò che avveniva nel football inglese la scommessa aveva acceso l'interesse di tanti appassionati. Agli inizi del Novecento, invece, a imporsi come motivo di richiamo degli appuntamenti calcistici era stato il totalizzatore: un sistema con il quale si raccolgono le puntate e si distribuisce la somma ai vincitori, dopo averne sottratta una debita percentuale. La presenza del totalizzatore, indicata negli stessi manifesti che pubblicizzavano i match, era un richiamo non trascurabile per le folle sportive, così come le cifre giocate e gli episodi di violenza registrati a causa delle intemperanze degli scommettitori. Queste prime pratiche si spensero a ridosso della Prima Guerra Mondiale e un nuovo progetto di pubblica scommessa, proposto dal Ministero delle Finanze nel 1932, fu respinto da Leandro Arpinati, all'epoca presidente della FIGC, «sensibilissimo all'incompatibilità del denaro con lo sport <99».
La paternità del nuovo progetto che, al contrario del precedente, sarà accolto dalle istituzioni è di Massimo Della Pergola, un giornalista italiano rifugiato in Svizzera durante le persecuzioni naziste. Nonostante qualche iniziale diffidenza, Della Pergola ottenne una concessione di due anni per sviluppare le sue idee. Fondò la SISAL (Sport Italia Società a responsabilità limitata) e costituì la prima rete per la distribuzione delle schedine da compilare per il pronostico. Il primo impatto del nuovo gioco non fu entusiasmante: Della Pergola fece stampare 5.000.000 di schedine al prezzo di 30 lire, a fronte di un montepremi di 463.146 lire, ma solo 30.000 furono distribuite: si pensò che la presenza del gioco del lotto fosse un ostacolo insormontabile per una nuova pratica del gioco d'azzardo. Ben presto però, anche per merito della caparbietà e delle trovate pubblicitarie di Della Pergola, la scommessa sportiva trovò la via del successo. «Fu il primo gioco laico della società di massa in Italia <100», differente culturalmente dal lotto per la presenza di elementi di previsione che andavano incontro a quella fame di passione sportiva che andava dilagando nel paese.
Il successo portò il CONI <101 ad assumere il diretto esercizio del concorso che cambiò denominazione in Totocalcio. La crescita esponenziale del gioco si intrecciava con quella generale dei consumi che anticipava gli anni del miracolo economico. In breve si moltiplicarono i luoghi dove era possibile effettuare i pronostici e alla metà degli anni '50 furono messe in commercio delle trottole che ricadevano su un lato, su cui era impressa la scritta 1, 2 o X (i possibili pronostici da indicare sulla schedina). Contestualmente, l’espressione “fare tredici” era entrata a pieno titolo tra i modi di dire del linguaggio corrente indicando un colpo di fortuna o l’ottima riuscita di un evento.
La passione per il Totocalcio indusse la conoscenza del calcio giocato e portò a seguire con più attenzione le vicissitudini settimanali delle squadre: lo stato di forma dei giocatori, gli infortuni, i nuovi acquisti, lo schema ipotizzato da un allenatore erano tutte variabili che potevano influire sull'esito di una decisione da marcare sulla schedina.
Nell'accentuare la popolarità del gioco non fu da meno l'esaltazione delle umili origini dei nuovi milionari: «nel 1950 un minatore sardo, Giovanni Mannu, un bigliettaio siciliano, Giovanni Capello, e un operaio torinese, Giovanni Frigato, vinsero rispettivamente 77, 75 e 74 milioni ed entrarono nella cronaca del tempo, nella stampa, nei cinegiornali <102».
Il gioco avrà poi una sua evoluzione moderna con il Totogol, introdotto nel 1994, che è stato il primo concorso a istituire il meccanismo del jackpot. La nuova schedina invitava a pronosticare, tra i 14 eventi presenti, i sette con il numero più elevato di reti segnate, posti in ordine decrescente rispetto al numero totale di reti. Di certo la novità più importante, che finirà per egemonizzare l'attenzione degli scommettitori - soppiantando i giochi precedenti -, sarà l'introduzione delle scommesse a quota fissa. Le nuove schedine si strutturavano su avvenimenti sportivi e non sportivi: sul calcio, ad esempio, oltre a poter puntare sul classico “1, X, 2” diventava possibile scommettere anche sul risultato esatto di una partita, sul risultato del primo tempo, sul numero di gol rispetto a un numero prefissato e su molte altre tipologie di esiti. Sui principali avvenimenti sportivi era possibile effettuare anche scommesse live, (mentre, cioè l’avvenimento era in corso) e sugli eventi che si verificavano durante lo svolgimento (ad esempio, quale squadra avrebbe segnato il gol seguente).
Oltre a favorire un consumo popolare di calcio, il Totocalcio, il Totogol e le scommesse sportive furono interessati da pesanti scandali che evidenziarono la permeabilità al malaffare del sistema delle scommesse. Il primo, conosciuto anche come Totonero, colpì il calcio italiano nella stagione agonistica 1979-1980 e vide coinvolti giocatori, dirigenti e società di Serie A e B, i quali truccavano le partite di campionato attraverso scommesse clandestine che per la FIGC rappresentarono casi di illecito sportivo. Tra le sanzioni eccellenti dell'inchiesta, fece clamore la condanna di Milan e Lazio, che pagarono con la retrocessione in serie B. Lo scandalo, che costò penalità alle altre società coinvolte e la radiazione di diversi calciatori e massimi dirigenti, fu seguito freneticamente dalla televisione: le immagini degli arresti, avvenuti a fine partita, e delle camionette di Polizia e Guardia di Finanza presenti negli stadi sono note ancora oggi per essere state riprese in diretta nel corso della trasmissione sportiva 90º minuto. Come già anticipato, questo non fu l'unico scandalo. Nel 2001, l'inchiesta denominata Calcioscommesse, portò all'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva nei confronti degli indagati.
[NOTE]
99 PAPA A., PANICO G., Storia sociale del calcio in Italia, Bologna, Il Mulino, 1993, p.247.
100 Ivi, p.248.
101 Sigla del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, è l'ente pubblico cui è demandata l’organizzazione e il potenziamento dello sport nazionale. Emanazione del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), promuove la massima diffusione della pratica sportiva e coordina le organizzazioni sportive nazionali e sovrintende a esse. Fu fondato nel 1914 a Roma per coordinare l’attività dei vari comitati italiani per le Olimpiadi attivi dal 1896. Dopo le modifiche normative del 2004 (d. legisl. 15/8 gennaio 2004, recante modifiche e integrazioni al d. legisl. 242/23 luglio 1999), il CONI deve essere considerato come la Confederazione delle federazioni sportive e delle discipline associate; è autorità di disciplina, regolazione e gestione delle attività sportive, intese come elemento essenziale della formazione fisica e morale dell’individuo e parte integrante dell’educazione e della cultura nazionale. Ha anche il compito di curare, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, l’adozione di misure di prevenzione e repressione del doping, oltre all’organizzazione e al potenziamento dello sport nazionale, in armonia con le deliberazioni del CIO. È posto sotto la vigilanza del Ministero per i Beni e le attività culturali.
102 Ivi, p.249.
Alessandro Doranti, La forma stadio. Pratiche del conflitto urbano e crisi della trasmissione dei saperi tra generazioni, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2015

venerdì 11 agosto 2023

Sempre nel ’43, scrive "La mer" sul treno che lo sta conducendo a Perpignan, insieme al pianista Léo Chauliac


[...] Dicono sia merito di Chevalier se Trenet è entrato nell’empireo della canzone francese, ma il fiuto di Jacques Canetti e Mistinguett, uniti all’intuito dell’editore musicale Raoul Breton e di sua moglie, che Jean Cocteau chiamava la “Marquise”, sono stati i veri fautori della gloria inaspettata della surreale Y a d’la joie (“C’è gioia”) con quel refrain trascinante che Charles Trenet firmò con Michel Emer e di cui Chevalier era al tal punto invidioso da non voler più incrociare la vena creativa del giovane collega: «La tour Eiffel part en balade, / comme une folle elle saute la Seine à pieds joints. / […] Mais voilà que soudain je m’éveille dans mon lit. / Donc j’avais rêvé, oui, car le ciel est gris…» <3.
La stampa definiva Trenet «le fou chantant» <4 - un termine coniato, ai suoi esordi da solista, dal gestore di un locale di Marsiglia - ma il folletto di Narbonne, cresciuto nel sud della provincia francese, vicino a Perpignan, era molto più di questo. Charles Trenet fu il primo chansonnier moderno del Novecento per le sue invenzioni testuali, per le sue contaminazioni tra le arti che praticava e per la sua capacità di tenere la scena. Certamente aveva molti padri ispiratori: primo fra tutti Chevalier, meno fra tutti il capostipite della canzone realista Aristide Bruant, ma la sua leggerezza di scrittura era tutt’altro che superficiale. Aveva per compagni di strada la “bohème” di Montparnasse e il poeta Max Jacob, che Trenet sommava agli insegnamenti teatrali di Antonin Artaud e a un métissage che univa swing, fox-trot e valse musette ed era per l’epoca un mix musicale detonante.
La sua agilità da saltimbanco, salti sul pianoforte compresi, faceva il resto.
Eppure, raramente lo si vede citato nei vari studi sulla canzone francese alla pari di Brassens o di Ferré (quest’ultimo, va detto, fu un suo grande ammiratore e a inizio carriera sognava perdutamente di fargli interpretare una propria composizione) proprio perché decise subito di abbandonare le connotazioni narrative dei canti di strada o le rime rassicuranti della tradizione melodica locale, per avvicinare la chanson alla poesia colta. Max Jacob diceva di lui che «ha dato vita alla poesia con la sua voce, e la sua voce alla vita della poesia».
La differenza con i parenti stretti di Bruant e, dopo di lui, i maudits, è che il suo approccio alla scena non aveva nulla di tragico, melanconico, disperato o barricadero. Trenet volava sulle parole e ne rideva, con stile scenico tuttavia impeccabile (in questo, Chevalier non era passato invano), ma spesso quel che raccontava non aveva nulla di spensierato. Spensierate erano le invenzioni linguistiche e il modo di porgerle al pubblico, quello sì: con quel bel faccione sorridente, il feltro rotondo calzato all’indietro, i riccioli biondi a punteggiare la fronte e gli occhioni azzurri ed estasiati, Trenet mostrava un ottimismo vissuto con forza, come un acuto sberleffo alle assurdità della vita. Niente a che vedere con la dentatura sparata fino all’ultima fila del bel Maurice, o l’impegno sociale di tanti suoi colleghi. E in questo, molti suoi brani, come Je chante, sono emblematici di un ribellismo sognatore, fantasioso e spiazzante, simile a quei paesaggi che lo chansonnier respirava nelle campagne del suo Midì.
Louis Charles Augustin Georges Trenet nasce a Narbonne il 18 maggio 1913, nella casa dei genitori che oggi è un museo a lui dedicato, così come la via in cui si trova. È figlio di un notaio con la passione per il violino e passa l’adolescenza a Perpignan dove, dopo la separazione dei genitori, raggiunge il padre nel ’22. E poiché la vita è l’arte dell’incontro, come dicono i poeti, la fortuna del giovane Charles è che ne incontra parecchi: prima il franco-catalano Albert Bausil, che gli fa conoscere i versi di Max Jacob; poi, grazie a un soggiorno berlinese dalla madre (risposatasi con il romanziere e sceneggiatore Benno Vigny), Fritz Lang e Kurt Weill, che avevano dalla loro la poesia del cinema e delle sette note. È così che Charles ha modo di ascoltare anche quelle di due maestri della composizione pianistica: George Gershwin e Fats Waller.
Nel 1930 è a Parigi, vuole studiare disegno e architettura, sogna un futuro da pittore - sarà lui stesso a inventarsi in seguito i manifesti di scena - e si tuffa nel poliedrico mondo artistico di Montparnasse. Scrive poesie sul «Mercure de France» diretto da Paul Léautaud, ma anche racconti e romanzi che usciranno anni dopo, mentre i suoi fortunati incontri continuano: Antonin Artaud, allora noto soprattutto come attore per registi quali Abel Gance, Raymond Bernard e Carl Theodor Dreyer; Jean Cocteau, che gli presenta nelle serate passate alla Coupole il poeta e scrittore Max Jacob; e soprattutto lo svizzero Johnny Hess, che non era né famoso né poeta, ma suonava il piano, aveva due anni meno di Charles ed era bravo. È lui che in Francia divulgherà il termine giovanile “zazou”, per definire i ragazzi che sotto l’occupazione nazista giravano vestiti all’inglese e adoravano il jazz.
L’incontro con Hess avviene nel jazz-club alla moda del College Inn di Montparnasse, nel 1932, e apre a Trenet le porte dello spettacolo. Poco prima il suo patrigno Benno Vigny, di passaggio a Parigi per girare l’unico film da lui diretto, Bariole, gli aveva commissionato delle canzoni e Charles ci aveva provato, ma sembrava solo uno scherzo, anche se il previdente ragazzo di Narbonne si era iscritto come autore alla SACEM. Con Hess è diverso, i due amano lo stesso mondo musicale e l’intesa scatta immediatamente: Trenet firma i testi ed Hess le note. Prima inventano jingles per Publicis, poi vengono ingaggiati al Palace dal patron dei teatri brillanti parigini, Henri Varna, su consiglio della diva Mistinguett (che come talent-scout non sbagliava un colpo), infine divertono al teatro-cabaret Le Fiacre con la java “cinese” Sur le Yang-Tse-Kiang. Si fanno chiamare Charles e Johnny, firmano per l’etichetta Pathé come «artisti di slow-fox» e scrivono Vous qui passez sans me voir, portata al successo dal cantante swing Jean Sablon - quello che a metà degli anni Trenta utilizzò per primo il microfono, per dar forza alla sua voce da crooner; ma Trenet ha un altro passo e quando nel 1936 viene chiamato a prestare il servizio militare, al suo ritorno a Parigi il sodalizio con il compagno di scena si scioglierà. Hess non aveva atteso, come convenuto, che il suo partner terminasse gli obblighi di leva, preferendo lanciarsi in solitudine come cantante-pianista. La scelta destabilizza Trenet, che contava sull’appoggio ritmico e compositivo di Hess, ma che lo aveva in qualche modo già prevenuto. Infatti, quando nell’autunno del ’36 viene inviato alla base militare d’Istres, sconfigge la noia e la naja componendo le prime canzoni, come la celebre Y a d’la joie. Gli obblighi militari, che non dovevano peraltro essere così rigidi, gli portano fortuna. Alla prima licenza si dirige negli uffici parigini di Raoul Breton con le composizioni nate in caserma; l’editore si entusiasma per la surreale Y a d’la joie e la propone a Chevalier, che traccheggia, fino a quando, prima Mistinguett e poi il pubblico vero, lo convincono di trovarsi di fronte a una genialata poetica, che per il suo repertorio brillante e totalmente spensierato risultava un unicum. Ringrazierà pubblicamente Trenet, fino a quando il suo autore non deciderà di cantarla lui stesso: in fondo doveva ancora costruirsi un repertorio… e un’immagine.
Il repertorio continuerà a inventarselo indossando la divisa, come per Je chante e Fleur bleue, e il suo miglior soprannome glielo regala nel marzo del ’37 il direttore del Mélodie, un bar-cabaret situato nel seminterrato di un albergo di lusso di Marsiglia, che per annunciare al meglio la presenza serale di Trenet - visto che “Charles et Johnny” non esistevano più - gli affibbia un appellativo sul cartellone. Da allora, Charles Trenet diventa per tutti “le fou chantant”.
Siamo a un passo dal disastro bellico e l’esposizione universale di Parigi del 1937 si svolge sotto il segno di un apparente svagatezza, tra jazz e valse musette. E qui entra in scena un altro talent-scout di eccezione, Jacques Canetti, che inserisce il nome di Trenet nel programma da lui ideato per Radio-Cité: Music-hall des jeunes. Era una trasmissione ripresa al Théâtre des Ambassadeurs e condotta dall’elegante Jean Tranchant, autore-compositore noto a Parigi negli anni tra le due guerre, come interprete chic e romanticamente ottimista. Quando Trenet, presentato da Tranchant, sale sul palco in completo blu elettrico intonando Y a d’la joie, è un trionfo. Il pubblico richiede con forza il bis e Canetti è costretto a richiamarlo in scena, contro tutte le regole imposte dall’emittente. Il giorno dopo Mistinguett, presente in sala come ospite d’onore, ne parla a Mitty Goldin, che lo ingaggerà nel suo music-hall A.B.C. giusto per aprire lo show della vedette in locandina, la cantante di formazione classica Lys Gauty, quella che rese celebre in Francia Parlami d’amore Mariù, composta nel 1932 da Cesare Andrea Bixio per la voce di Vittorio De Sica nel film di Mario Camerini Gli uomini che mascalzoni… Quando Lys Gauty la interpretò l’anno dopo, il brano fu tradotto senza alcuna attinenza al testo originale e diventò Le chaland qui passe (“La chiatta di passaggio”), struggente canzone esistenziale dove la metafora tra la fugacità dell’amore e una chiatta trascinata dalla corrente di un fiume ci riporta alla precarietà della vita, ottenendo un successo inaspettato. Non solo, nel 1934 il poetico cineasta Jean Vigo terminava il suo secondo e ultimo lungometraggio, L’Atalante, un capolavoro ambientato proprio su una chiatta fluviale. E visto che all’epoca il film fu considerato un fiasco, i suoi produttori sostituirono le musiche originali con il brano cantato da Lys Gauty e rinominarono il film stesso Le chaland qui passe, basandosi proprio sulla notorietà di quell’interpretazione. Il regista morì di lì a poco, la pellicola sparì e fu recuperata molti anni dopo, quando tutta la Nouvelle Vague celebrò il suo autore come genio incompreso. Rimangono in ogni caso la canzone e la voce di Lys Gauty, che quando cedette il palco dell’A.B.C. al giovane Trenet - che indossava un cappello di feltro all’indietro confezionato per l’occasione, per distinguersi dalla paglietta alla Chevalier e ammorbidire la rotondità del viso - non poteva certo immaginare di lanciare uno dei grandi nomi della canzone francese.
Non fu che l’inizio per Trenet, che tornerà in quel music-hall da protagonista del cartellone. E quando nel dicembre del ’37 è libero dagli obblighi militari, prima registra Je chante e Fleur bleue e poco dopo la sua versione di Y a d’la joie, mentre con quel piccolo capolavoro altrettanto surreale che è Boum! si guadagna il primo riconoscimento ufficiale: il Grand Prix du Disque dell’Académie Charles-Cros. Lo omaggia in camerino Jean Cocteau e si complimentano con lui gli interpreti storici di quel genere musicale, come Félix Mayol, mentre Mistinguett sostiene che Trenet canti meglio di Chevalier la surreale Y a d’la joie, scatenando la rabbia di quest’ultimo (che rifiuterà poi di incidere Ménilmontant, brano offertogli dal fou chantant, da lui definito a suo tempo un dilettante). Dovranno passare vent’anni prima che i due si stringano nuovamente la mano, e in quel lasso di tempo la carriera di Trenet subirà notevoli saliscendi.
I guai per il “cantante folle” cominciano con lo scoppio della guerra: richiamato alle armi, mentre stava seguendo i lavori di una casa appena acquistata in Costa Azzurra, viene destinato nuovamente a Istres. Riesce a farsi esonerare con uno stratagemma, riprende in qualche modo le esibizioni nella cosiddetta zona libera, ritrovando a Nizza il collega Tino Rossi e Mistinguett, ma scopre che la sua futura abitazione sul mare è stata requisita da un funzionario locale. A quel punto non gli resta che rientrare nella sua dimora abituale di Parigi, dove effettua una trionfale rentrée nel febbraio del ’41. Ma trovare altri ingaggi non è così semplice in tempi bellici. Si adatta ad esibirsi in tour con un circo, collabora con le sue canzoni a produzioni cinematografiche e quando accetta un contratto per una rivista alle Folies-Bergère, scopre tra il pubblico le divise della Gestapo. Per reazione canta meno del previsto ed evita alla fine della sua esibizione di rispondere agli applausi, uscendo rapidamente di scena. Lo fa per diverse sere, fino a quando il direttore Paul Derval rescinde l’impegno. Nonostante tutto, Trenet rimane a Parigi e registra altre canzoni.
Durante l’occupazione nazista, passa dal venir sospettato di collaborazionismo (per aver accettato di recitare in una commedia di Sacha Guitry, a sua volta tacciato di simpatie verso il nemico) al dover dimostrare agli occupanti la propria discendenza “ariana”. Le accuse verso Guitry si riveleranno infondate e quella commedia non andrà mai in porto, ma i dubbi verso la posizione di Trenet continuarono, da una parte e dall’altra della barricata. Nel 1943, come Édith Piaf e Maurice Chevalier, Trenet si presta a cantare per i deportati francesi in Germania. Questo non gli guadagna le simpatie dei resistenti guidati da De Gaulle anche se, per assurdo, è proprio in quest’anno difficile che scrive la struggente Que reste-t-il de nos amours? e Douce France, letta come un inno nostalgico alla Francia libera (la eseguirà con provocatoria nonchalance proprio a Berlino). Quando poi la censura nazista bolla Douce France di patriottismo, per tutta risposta musica il poema di Verlaine Chanson d’automne e recita in film popolari, dichiarando che durante l’Occupazione, «i treni e i teatri di provincia non erano abbastanza riscaldati, così mi son detto che era meglio fare del cinema». Sempre nel ’43, scrive La mer sul treno che lo sta conducendo a Perpignan, insieme al pianista Léo Chauliac («E con una canzone d’amore, il mare ha cullato il mio cuore per la vita»), ma la canzone uscirà solo nel ’46 su insistenza del solito Breton, al quale Trenet avrebbe dovuto fare un monumento.
Alla fine del conflitto, viene accusato dal côté intellettuale parigino di aver veicolato con i suoi testi un’ideologia reazionaria, legata ai valori nostalgici della terra e della gioventù, e nonostante la sua abituale autoironia ne esce molto provato. Così abbandona la Francia e intraprende un lungo tour nelle Americhe, tra Stati Uniti, Brasile e Canada francofono, rifugiandosi nello show business d’oltreoceano. Dovrà dire grazie all’impresario William Morris, che nel periodo bellico non l’aveva mai dimenticato, e ai suoi nuovi ammiratori, come Charlie Chaplin. Saranno anni di trionfi e nuove canzoni, ma nel suo autoesilio scrive in una camera d’albergo a New York anche l’amara e premonitrice L’âme des poètes. Quando nel ’54 rientra a Parigi viene acclamato da tutti, però anche la musica cambia, la televisione incombe e il ribellismo dei nuovi chansonniers rende meno attuali le rime di Trenet, che dirada le apparizioni affrontando gli anni Sessanta come una sorta di traversata nel deserto, esibendosi in locali fuori moda e rifugiandosi nelle campagne francesi, dove dipinge, si occupa dei suoi interessi immobiliari e nel ’65 pubblica il romanzo Un noir éblouissant per Glasset [...]
[NOTE]
3 «La Tour Eiffel se ne va a spasso / come una folle salta la Senna a piè pari. / […] Ma ecco all’improvviso mi sveglio nel letto / avevo quindi sognato, sì, perché il cielo è grigio…».
4 “Il cantante folle”.
Giangilberto Monti e Vito Vita, Gli anni d’oro della canzone francese 1940-1970, Gremese Editore, Roma, 2022

venerdì 4 agosto 2023

Com’era possibile che un ragazzino di sedici anni avesse scelto di aderire alla Resistenza?

Il valdobbiadenese Italo Crivellotto all’età di circa dieci anni. (Archivio privato della famiglia Crivellotto). Fonte: Luca Nardi, Op. cit. infra

Tra gli otto partigiani della Brigata Mazzini che perirono in Cansiglio vi erano due valdobbiadenesi: Italo Crivellotto (Italo), nato a Valdobbiadene il 23 febbraio 1928, e Giovanni Giacometti (Nani), nato a San Pietro di Barbozza il 27 gennaio 1926 e residente a Guia di Valdobbiadene.
Prendendo come riferimento la documentazione resistenziale, il sedicenne Crivellotto risulta essere deceduto in combattimento l’8 settembre 1944 a Campon di Tambre, Giacometti, invece, è stato classificato come «partigiano disperso in località imprecisata il 10 settembre 1944» <113.
Approfondendo la vicenda personale di Italo Crivellotto a partire dalla consultazione di fonti diverse da quelle resistenziali (amministrative e orali), come in altre occasioni, ci si è trovati di fronte a due ricostruzioni inconciliabili. A questo punto, sono sorte spontanee delle domande: com’era possibile che un ragazzino di sedici anni avesse scelto di aderire alla Resistenza? Se era un partigiano, perché non rimase a casa, come qualche altro, invece di recarsi in Cansiglio? In quali circostanze trovò la morte? Per quali ragioni la famiglia ed altre persone non credono alla versione della storiografia resistenziale? Italo, garzone presso il panificio principale di Valdobbiadene, era abbastanza grande per decidere da che parte bisognasse schierarsi nell’estate 1944?
Ad alcune domande si può rispondere obiettando che molti ragazzini si arruolarono di propria iniziativa nelle formazioni della Rsi o nella fila della Resistenza; gli esempi non mancano anche nel Comune di Valdobbiadene: basti pensare a Giovanni Baldotto (Mascotte), il più giovane partigiano combattente della Brigata Mazzini (nato nel 1927), oppure ai tanti ragazzi minorenni che facevano parte della Decima Mas, alcuni dei quali furono uccisi nel maggio 1945 a Saccol e a Miane.
A questo punto, viene da chiedersi: su quali basi si fondano i dubbi iniziali?
In primo luogo, Italo Crivellotto non aveva un titolare qualunque, ma Italo dei “Coci” Geronazzo, il segretario del Fascio repubblicano di Segusino e di Valdobbiadene; in secondo luogo, la madre del ragazzino, essendo una fascista convinta, era uno dei tanti obiettivi che i partigiani locali volevano punire o eliminare; in terzo luogo, il sedicenne uscì di casa per una consegna il 19 agosto 1944 e non vi fece più ritorno <114; in quarto luogo, solo alla fine della guerra i genitori appresero che il loro primogenito era morto nei pressi di Tambre d’Alpago durante il grande rastrellamento del Cansiglio; infine, i registri cimiteriali del Comune di Valdobbiadene ed un testimone chiave, che assistette agli ultimi attimi di Italo Crivellotto, affermano che le circostanze che portano alla morte del ragazzino furono diverse da quelle rese note dalla storiografia resistenziale.
Mentre si recava a fare delle consegne in bicicletta nella zona di Miane, pare che il giovane sia stato prelevato e trattenuto per due ragioni: in primis, i partigiani erano venuti a conoscenza che Italo Geronazzo aveva scelto come spia un ragazzino apparentemente innocuo; in secundis, tenendo in ostaggio il figlio primogenito, i partigiani erano quasi certi che sua madre, Maria Goggi, sarebbe facilmente caduta nella loro trappola. Il piano non funzionò: la donna non si recò dal figlio, ma mandò la sorella, la quale nulla poté per ottenere la liberazione del nipote; Italo Geronazzo non si preoccupò della vicenda ed, infatti, nel corso del processo che si svolse nel settembre 1946 presso la Corte d’Assise straordinaria di Treviso venne accusato da Eugenio Crivellotto di essere il principale responsabile della morte del suo primogenito <115; infine, come visto in precedenza, alla fine di agosto del 1944 nel Quartier del Piave ebbe inizio il grande rastrellamento nazifascista e, probabilmente, i partigiani della Mazzini furono costretti a condurre con loro anche il giovane ostaggio.
Per quanto riguarda le cause della morte, la storiografia resistenziale ha affermato che Italo Crivellotto, addetto al servizio vettovagliamento, è stato ucciso in combattimento l’8 settembre 1944, nel corso degli ultimi scontri prima della ritirata. Tuttavia, sulla base dell’ipotesi fin qui sostenuta, queste affermazioni non appaiono comprensibili: Italo, come affermano i familiari ed i vicini di casa, non era né un partigiano né un collaboratore dei partigiani, ma un ragazzino con l’ingenuità dei suoi sedici anni che, senza rendersene conto, fu usato dal suo titolare per finalità politiche; era inoltre un ostaggio che aveva visto troppe cose nel mese più critico per la Resistenza e, quindi, avrebbe dovuto essere eliminato perché testimone pericoloso. Per tutte queste ragioni, è possibile che sia stato ucciso prima dell’inizio della pianurizzazione <116.
Relativamente alle modalità dell’esecuzione, dispongo di una delle testimonianze più preziose tra quelle raccolte: una persona di Valdobbiadene mi ha raccontato che un suo compaesano, ex militare della GNR Forestale fatto prigioniero dai partigiani, gli rivelò di voler condividere il ricordo di un episodio al quale assistette personalmente in Cansiglio e che non era mai riuscito a dimenticare. Alcuni partigiani non locali, uccisero il giovane Crivellotto colpendolo alla testa con colpo di badile: una macabra scena, forse spiegabile per il fatto che in quelle ore di trepidazione non era possibile utilizzare le armi automatiche, in quanto il boato avrebbe vanificato l’effetto a sorpresa della silenziosa ritirata dal Cansiglio <117.
Si tratta di una versione facilmente criticabile; ciononostante, rimane il fatto che quest’episodio pare essere uno di quei casi in cui la memoria è stata “falsata” per nascondere vicende problematiche.
[NOTE]
113 AISRVV, II sez., b. 64, f. 3 sf.1 Pratiche per pensioni di guerra, doc. 36 Crivellotto Italo, doc. 60 Giacometti Giovanni; BRESCACIN, Il sangue che abbiamo dimenticato, vol. I, cit., p. 116 e vol. II, pp. 280-281; Elio FREGONESE, I caduti trevigiani nella guerra di liberazione 1943-1945, Istresco, S.I.T., 1993, p. 68 e p. 104; MASIN, La lotta di liberazione nel Quartier del Piave, cit., p. 124 e pp. 288-289.
114 ASCV, Atti di notorietà (anni 1947-1951), f. anno 1949, sf. Italo Crivellotto.
115 AISTRESCO, f. Corte d’Assise Straordinaria di Treviso, sentenza n. 68, Processo a carico di Migliorati, Geronazzo ed altri (10 settembre 1946), deposizione di Eugenio Crivellotto, p. 13.
116 Testimonianze del nipote e della cognata di Italo Crivellotto (4 e 9 maggio 2015), dei vicini di casa C. C. (3 aprile 2015), N. D. O. (29 marzo 2015), A. D. A. (25 febbraio 2015).
117 Testimonianza del valdobbiadenese A. G., in data 13 maggio 2015.
Essa trova conferme nel registro degli atti di morte del Comune di Valdobbiadene per l’anno 1947, in cui si afferma: «Crivellotto Italo Carlino […] ucciso in località CAMPON del Cansiglio verso la metà di agosto 1944. Lo riferisce il dipendente dell’amministrazione forestale del Cansiglio DAL MOLIN EVELLINO, presente all’esumazione, il quale aggiunge di aver sentito dire dai partigiani che [Crivellotto] era al servizio del segretario politico di Valdobbiadene».
Luca Nardi, Storie di guerra: Valdobbiadene e dintorni dal gennaio 1944 all’eccidio del maggio 1945, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, 2016

martedì 1 agosto 2023

Il «giro di nera» a Milano

Milano: uno stato più recente di una banca rapinata nel 1967 dalla banda Cavallero

Il nerista, come ogni giornalista, ha innanzitutto la necessità di essere informato su quanto di nuovo è accaduto nelle ultime ore. Nel caso della cronaca nera le fonti principali sono le Forze dell'Ordine - soprattutto Polizia di Stato e Carabinieri - che vengono consultate quotidianamente durante il cosiddetto «giro di nera». A volte lo spettro si allarga per comprendere anche altre Forze di polizia, come la Guardia di Finanza o la Polizia Locale del comune di Milano, ma, da quanto osservato, hanno comunque una rilevanza minore rispetto alle due fonti principali.
Il lavoro inizia in tarda mattinata (verso le 11), in Questura. L'incontro è aperto a tutti i giornalisti accreditati - si viene riconosciuti all'ingresso, attraverso il tesserino dell'Ordine - che si ritrovano all'interno dell'Ufficio di Prevenzione Generale (U.P.G.), il quale ha il compito, tra molti altri, di coordinare sul territorio gli interventi della Polizia di Stato richiesti dai cittadini attraverso le chiamate alla Centrale Operativa (al numero 113) <26. Prima dell'incontro in Questura ogni giornalista si informa su quanto è avvenuto durante la notte utilizzando diverse strategie.
In base a questa prima raccolta di informazioni organizzerà gli impegni da prendere nel corso della mattinata. Innanzitutto, si controllano i dispacci lanciati dalle agenzie di stampa, attività che può essere effettuata da casa, in redazione o anche dal telefono cellulare. In questo modo è possibile essere informati sui fatti accaduti durante la notte o in prima mattinata, e già battuti dalle agenzie.
In genere, poi, di prima mattina il giornalista effettua un giro di telefonate ai vari Uffici stampa delle Forze dell'Ordine per sapere se c'è stato, durante la notte, qualche evento degno di rilevanza, così da poter chiedere delucidazioni già al «giro di nera».
Come mi è stato spiegato, il bisogno di contattare le Forze di polizia prima dell'incontro faccia a faccia nasce dalla necessità di parlare direttamente con i funzionari che erano presenti in ufficio nel turno notturno, ossia quando l'ipotetico fatto è accaduto. Questi funzionari, infatti, hanno ricevuto le informazioni direttamente da chi ha eseguito l'intervento, e possono quindi conoscere maggiori dettagli e particolari di chi, sostituendolo nel turno successivo, viene a conoscenza di quanto è accaduto esclusivamente dalla relazione di servizio. Queste anticipazioni servono anche al giornalista per concordare il lavoro con il proprio caporedattore, che può decidere di mandarlo a seguire un particolare evento di cronaca o fargli seguire l'abituale giro delle fonti. Il cronista, infine, controlla se ha ricevuto comunicazioni da parte delle Forze di polizia, come per esempio comunicati stampa e/o inviti a conferenze stampa, organizzate in genere per il giorno stesso (solitamente durante l'orario del «giro di nera»).
Le conferenze stampa indette dalla Polizia di Stato o dal Comando dei Carabinieri - le due fonti istituzionali che vengono consultate regolarmente dalla stampa - si svolgono durante il giro. L'invito alla conferenza viene comunicato, generalmente via posta elettronica, a tutti i giornalisti accreditati, affinché anche chi non è presente quotidianamente al giro - come le televisioni o altre testate cartacee che, per mancanza di personale, non possono dedicare un cronista al settore della nera - possa essere informato e decidere di presenziarvi. Le altre Forze di polizia, come per esempio la Guardia di Finanza o la Polizia Locale, segnalano con le stesse modalità l'organizzazione di una conferenza stampa, che in questo caso si sovrappone al giro ordinario, motivo per cui il cronista può decidere di saltare gli appuntamenti con la Questura e i Carabinieri e prendere parte alla conferenza (nel caso in cui ci siano più cronisti della stessa testata - come avviene molto spesso al «Corriere della Sera» - uno segue il giro abituale e l'altro si occupa della conferenza).
Il numero dei giornalisti presenti quotidianamente è variabile (ad esclusione dei casi in cui è stato promosso un evento più strutturato, come una conferenza stampa, di cui parlerò dopo), in genere intorno alle 7/8 persone, appartenenti ai principali quotidiani nazionali e locali, alle agenzie di stampa e di fotogiornalismo <27. La composizione è, tuttavia, molto mutevole: è possibile che un giorno si presentino solo 3/4 persone o, viceversa, si raggiunga anche il numero di 10/15 cronisti.
Non essere presenti al quotidiano «giro di nera» non significa perdere l'accesso alle notizie raccolte nel giro. Lo scambio di informazioni tra i giornalisti è un fenomeno ordinario: se un cronista non può presentarsi al giro (perché, per esempio, ha preferito seguire una conferenza stampa oppure perché è impegnato su un altro evento) telefona ad uno dei colleghi e chiede di essere aggiornato su quanto è stato “preso” - ossia selezionato - in Questura e al Comando dei Carabinieri, o altrimenti fa riferimento a quanto verrà battuto dalle agenzie (i cui lanci sono in genere scritti subito dopo la conclusione del giro, così da far circolare le informazioni tra i propri abbonati nel più breve tempo possibile).
L'ufficio di Prevenzione Generale (U.P.G.) è il luogo dove si danno appuntamento tutti i neristi. L'obiettivo è essere aggiornati sul lavoro svolto dalla Centrale Operativa nelle ore notturne, in base agli interventi compiuti dalle volanti presenti sul territorio. Tutti gli interventi delle 24 ore precedenti vengono elencati all'interno del cosiddetto “mattinale”, disposti in ordine cronologico inverso (ossia dal più recente al meno recente). Questo documento contiene le informazioni sintetiche di ogni intervento e permette al giornalista di avere un'idea generale di cosa sia successo nella notte precedente. Le informazioni principali del mattinale sono riportate in Tabella 1.
 

Fonte: Domingo Scisci, op. cit. infra

L'atmosfera in cui avviene il confronto tra giornalisti e dirigenti di Polizia è piuttosto informale. Molti giornalisti seguono il «giro di nera» da molti anni e tra le due categorie nasce molto spesso un rapporto di fiducia, di stima e anche di sincera amicizia <28. La stampa viene fatta accomodare all'interno dell'ufficio del dirigente di U.P.G., all'interno del quale, oltre al dirigente stesso, sono presenti uno o più addetti dell'Ufficio stampa (tra cui il responsabile). Dopo un breve aggiornamento della situazione da parte del dirigente (in caso ci sia qualche operazione in corso, o se vi siano uno o più interventi da mettere in evidenza, come nel caso di sequestri, sparatorie, omicidi, etc... avvenuti in mattinata), inizia la lettura del mattinale. La lettura viene affidata ad un solo giornalista, il quale scorre l'intero documento soffermandosi su quelli che ritiene gli eventi più rilevanti, in base al tipo di reato o al luogo in cui è avvenuto (le due informazioni che ha subito sott'occhio durante la lettura). Il resto dei giornalisti non interviene in questa fase di selezione (in genere si dà un occhiata ai quotidiani del giorno, presenti nella stanza del dirigente, o si chiacchiera con i colleghi), che viene quindi lasciata completamente in mano al cronista che legge il mattinale. La fiducia riposta nelle sue scelte deriva da una convenzione secondo la quale la lettura del mattinale è demandata abitualmente al cronista con più esperienza, che si presuppone abbia maggiore dimestichezza nell'individuare in quelle poche righe i fatti giornalisticamente più rilevanti. Sebbene questa pratica sia ancora abbastanza diffusa - come ho potuto notare più volte nel mio periodo di osservazione - oggi accade spesso che il mattinale venga lasciato in mano ai cronisti più giovani (anche perché sono i primi a raggiungere l'ufficio U.P.G.); un modo, secondo i cronisti più “anziani”, per dare loro spazio e farsi le ossa sul campo <29.
La lettura procede nel modo seguente. Il cronista scorre il documento per individuare gli interventi che ritiene più rilevanti (soprattutto in base al tipo di reato - che è la caratteristica chiave per comprendere cosa è successo - e al luogo in cui è stato commesso - se in vie centrali della città, o in quartieri e vie conosciuti e “attenzionati”). Chiama, quindi, a voce alta il numero della relazione di servizio che corrisponde alla notizia selezionata. Il dirigente dell'ufficio (o il suo vice, se il primo è assente per il turno di riposo o in ferie) individua la relazione all'interno del suo archivio e inizia la lettura ad alta voce. Poiché la lettura può essere onerosa - le relazioni di servizio sono talvolta molto lunghe - il dirigente scorre il documento ed evidenzia solo i punti più importanti, sviluppando una sorta di narrazione dell'evento: indica l'orario, il luogo del fatto e chi ha richiesto l'intervento, descrive il motivo nel dettaglio, elenca la/e vittima/e e il/i responsabile/i (se presente/i) e si sofferma su alcuni particolari inusuali o anche grotteschi che possono attirare l'attenzione dei giornalisti.
A questo punto la parola passa ai cronisti. In questo momento, infatti, tutti i presenti possono intervenire <30, formulando domande o chiedendo spiegazioni su alcuni aspetti specifici del fatto. In base alle risposte ottenute si decide se “prendere” la notizia o lasciare perdere e andare avanti. La decisione è lasciata in genere ai giornalisti con più esperienza che insieme danno parere favorevole o meno alla selezione. Se il parere è favorevole, si chiede al funzionario di rileggere per intero tutta la relazione, mentre ogni giornalista annota sul proprio quaderno tutte le informazioni necessarie per costruire successivamente l'articolo. Nella maggior parte dei casi la scelta è sempre condivisa, per cui se si è deciso positivamente, questa vale per tutti <31: è capitato solo una volta, nell'arco del mio lavoro sul campo, che una notizia fosse presa da un solo giornalista e scartata dagli altri. È possibile, tuttavia, che le valutazioni siano differenti, anche perché ogni cronista deve tenere conto delle caratteristiche della testata su cui scrive.
Un esempio può forse aiutare a chiarire meglio questo punto. Una volta, al «giro» in Questura, il tentato suicidio di un ragazzo viene valutato poco interessante dal gruppo di giornalisti presenti alla lettura del mattinale. Solo un cronista si sofferma sugli aspetti a suo parere più appassionanti, come la motivazione amorosa del gesto, il fattore umano, facendo anche pragmaticamente notare che in genere di lunedì il suo giornale ha molto più spazio libero. Alla fine prenderà solo alcuni appunti, decidendo in caso di chiamare nel pomeriggio, una volta tornato in redazione. Nel frattempo, al Comando dei Carabinieri il gruppo viene raggiunto da altri giornalisti, che, per vari impegni, non hanno potuto seguire il giro in Questura. Questi ultimi chiedono di essere aggiornati e, alla notizia del tentato suicidio, uno dei cronisti mostra grande interesse, poiché sa che il suo capo predilige questo genere di notizie. A questo punto il gruppo di cronisti decide congiuntamente di richiamare il dirigente dell'U.P.G. per chiedere tutti i dettagli della vicenda. Nonostante le diverse valutazioni, alla fine tutti i cronisti prendono nota, anche quelli che, in Questura, avevano mostrato un certo disinteresse (il «Corriere della Sera», per esempio, la pubblicherà tra le cosiddette “brevi” <32). L'approccio collettivo ha, quindi, avuto la prevalenza, e rimane un aspetto fondamentale nel processo di selezione delle notizie <33.
Come già ricordato, oltre al dirigente sono presenti uno o più funzionari dell'Ufficio stampa (tra cui il responsabile dell'Ufficio stesso). Il loro compito è principalmente quello di accompagnare i cronisti durante il giro in Questura e ascoltare quanto viene comunicato loro dagli uffici interpellati. Il capo Ufficio stampa ha anche il compito di informare i giornalisti sulle operazioni compiute da altri settori della Polizia di Stato (esclusi, ovviamente, l'U.P.G. e la Mobile), per le quali non si è ritenuto necessario indire una conferenza stampa e che, tuttavia, si vuole rendere note al pubblico. In questi casi il capo Ufficio stampa legge una sintesi dell'intervento - redatta dal o con la supervisione del funzionario del settore coinvolto (per es., Polizia Postale, Commissariati di zona, etc...) - che contiene tutti i connotati del fatto. Capita molto spesso che i cronisti non siano soddisfatti del modo in cui queste notizie vengono riportate, soprattutto perché manca la possibilità di interloquire in maniera diretta con chi ha materialmente portato avanti l'operazione, e quindi conosce tutti i dettagli, specie quelli non presenti nella sintesi letta dall'Ufficio stampa <34. Un altro addetto stampa, infine, segue i cronisti per prendere nota di tutto quanto viene comunicato dagli uffici della Questura, nel caso in cui qualche giornalista, assente al «giro di nera», chiami l'Ufficio stampa e voglia sapere le notizie di giornata <35.
Una volta concluso il lavoro all'U.P.G., il gruppo di giornalisti si sposta nell'ufficio del dirigente della Squadra Mobile. In questo caso l'obiettivo è essere aggiornati sulle attività compiute da questa importante sezione della Polizia di Stato. Si possono cercare aggiornamenti su alcune indagini ancora in corso (come la ricerca di un assassino o del responsabile di una rapina in banca appena successa). Si può tentare di avere conferma rispetto ad alcuni dettagli raccolti da altri poliziotti o dalla magistratura. Si possono anche ottenere ragguagli circa azioni appena concluse, come l'arresto di indiziati, l'esito di retate o di sequestri di merce illecita, solo per fare alcuni esempi.
La differenza nella gestione delle notizie tra U.P.G. e Squadra Mobile è evidente. Nel secondo caso la selezione dei fatti è lasciata direttamente in mano alla fonte (ossia al dirigente dell'ufficio), il quale decide se, quando e in che modi rendere noto un determinato evento. Il monopolio dell'informazione che questo ufficio detiene è oggi rafforzato dalla quasi impossibilità, da parte dei cronisti, di dialogare con altri operatori della Polizia, come gli investigatori o gli agenti che hanno partecipato all'indagine, dovuto alla necessità di regolare i flussi informativi verso l'esterno. Questa condizione provoca continui contrasti tra i cronisti e l'ufficio della Mobile, poiché i primi non si vedono riconosciuti il diritto ad informare tempestivamente i propri lettori, e il secondo ad effettuare le indagini lontano dai riflettori dei media. Poiché è un aspetto che concerne il nuovo tipo di rapporto che si è instaurato tra giornalismo e fonti istituzionali, rimando la discussione di questi temi al capitolo successivo.
Di frequente le notizie vengono diffuse attraverso lo strumento della conferenza stampa. La motivazione che sta alla base di questa scelta è semplice: in questo modo è possibile richiamare il più alto numero di operatori dell'informazione e aumentare la possibilità che il fatto riportato appaia su una o più testate giornalistiche. Le attività che sono oggetto di una conferenza stampa riguardano in genere fatti che la Polizia di Stato considera rilevanti per la particolarità del fenomeno - per es. per la pericolosità degli arrestati e/o del tipo di reato, per l'eccessiva diffusione del fenomeno criminoso (come nel caso dei reati di natura telematica), etc... - e/o perché si ritiene utile che il pubblico debba essere informato in modo tempestivo ed efficace, in funzione educativa e preventiva (si pensi, per esempio, alla scoperta di nuove forme di truffa o di furto, alla presenza sul mercato di nuove sostanze stupefacenti, etc...).
Le conferenze stampa si svolgono abitualmente in Sala Cronisti. Il nome deriva dalla funzione che ha svolto almeno fino a 25/30 anni fa, quando era la sede principale nella quale si svolgeva il lavoro del cronista di nera. I giornalisti passavano buona parte della giornata in questa sala, in attesa che una delle numerosi fonti all'interno della Questura avvisasse loro (via telefono) della presenza di un determinato fatto criminoso in città (una rapina, una sparatoria, un omicidio, etc...). Una volta che la notizia veniva condivisa tra i giornalisti, ognuno di loro consultava i propri contatti all'interno degli uffici della Questura, con la speranza di ottenere il dettaglio che avrebbe fatto la differenza rispetto ai quotidiani concorrenti. La Sala Cronisti è stata per molto tempo, quindi, la “centrale operativa” del giornalismo in Questura, dove si raccoglievano le notizie (ancora oggi c'è il tabellone con tutti i numeri di telefono degli uffici e dei Commissariati della Polizia di Stato) e dalla quale le stesse venivano comunicate direttamente al proprio giornale (utilizzando le cabine telefoniche - un paio - presenti nella sala stessa <36). Questa storia mi è stata spesso raccontata dai cronisti che hanno vissuto quel periodo non solo in chiave nostalgica, ma anche per sottolineare la differenza con il modo di dare e raccogliere ora le notizie.
Oggi la Sala - ancora gestita dal Gruppo Cronisti Lombardi - ha smesso di svolgere quella funzione e, appunto, viene utilizzata principalmente per le conferenze stampa. La stanza ha al centro un tavolo rettangolare, piuttosto grande, intorno al quale si siedono i giornalisti e i dirigenti di Polizia chiamati a rendere pubbliche le attività del loro reparto. Sullo stesso tavolo, o su uno adiacente più piccolo, viene collocata la refurtiva o il materiale sequestrato, per agevolare il lavoro dei fotogiornalisti e cineoperatori presenti. Dietro al tavolo, in fondo alla stanza, sono posizionati alcuni personal computer, utilizzati dai cronisti per visionare il materiale audio/video digitale fornito dalla Polizia e copiarlo sui propri dispositivi removibili.
Le conferenze stampa avvengono sempre sotto la supervisione degli addetti all'Ufficio stampa, a seconda del grado di strutturazione con il quale viene organizzato l'evento. La conferenza può essere rapida e informale quando viene invitato il dirigente del reparto o del Commissariato cittadino che, a voce, racconta i dettagli dell'intervento ai giornalisti (in genere solo quelli della carta stampata, invitati attraverso un comunicato stampa o semplicemente avvisati all'inizio del giro in Questura). L'organizzazione può essere, altrimenti, più strutturata e formale se, in base ai criteri della Questura, l'operazione pubblicizzata viene ritenuta rilevante <37. In questo caso vengono adottati alcuni accorgimenti per rendere l'evento più “attraente”, come per esempio l'esposizione del materiale sequestrato o della refurtiva <38 e la diffusione di materiale multimediale. Lo svolgimento della conferenza stampa è il medesimo in entrambi i casi: il dirigente spiega nei dettagli l'operazione, i giornalisti prendono nota e fanno domande per avere chiarimenti e/o ulteriori informazioni su quanto è avvenuto. Nel caso siano presenti anche le televisioni, i cameramen girano durante la conferenza uno o più spezzoni video che verranno utilizzati nel servizio TV, senza audio (il cosiddetto b-roll), come sottofondo alla voce del giornalista. Lo stesso cronista televisivo, a fine conferenza, chiederà al dirigente di ripetere sinteticamente al microfono quanto già raccontato al resto dei cronisti, per inserire l'intervista all'interno del servizio.
È possibile, anche se piuttosto raro, che le conferenze stampa siano organizzate in luoghi diversi dalla Sala Cronisti. Questo accade abitualmente se l'operazione è di competenza della Squadra Mobile. In questo caso la conferenza avviene nell'ufficio del dirigente, il quale è abbastanza capiente e attrezzato con un ampio monitor sul quale mostrare le immagini e i video ripresi dalla Polizia durante l'attività notiziata. Raramente viene utilizzato l'ufficio di dirigenza dell'U.P.G., se non nei casi in cui le attività della Centrale Operativa siano state particolarmente importanti e spettacolari <39.
L'ultimo tipo di conferenze svolte in Questura riguarda le attività di comunicazione ed educazione portate avanti dalla Polizia di Stato (come, per esempio, la conferenza di fine anno o la promozione delle attività di collaborazione tra Polizia e istituzioni scolastiche), che si volgono generalmente negli uffici del questore o in altre sale del palazzo.
Una volta concluso il giro in Questura, il gruppo di cronisti si sposta al Comando Legione Carabinieri Lombardia <40, situato non molto lontano dalla Questura. L'appuntamento è nella sala stampa, al piano terra di uno stabile distaccato rispetto a quelli che ospitano gli uffici centrali del Comando (a differenza da della Sala Cronisti in Questura, collocata al piano ammezzato, sotto gli uffici del questore). Il gruppo di giornalisti è lo stesso che ha seguito il giro in Questura; solo per il «Corriere della Sera» un secondo cronista si affianca a volte a quello che ha seguito il giro dalla Polizia di Stato <41. L'incontro è gestito dall'addetto dell'Ufficio stampa, il quale legge a voce alta gli interventi, accaduti nelle 24 ore precedenti, che il Comando ha deciso di rendere pubblici. Tali interventi riguardano sia l'attività svolta su richiesta dei cittadini, tramite la Centrale Operativa, sia le operazioni svolte su iniziativa del Comando. Rispetto all'U.P.G., la selezione viene fatta a monte, direttamente dall'Ufficio stampa, e non vi è modo, per i giornalisti, di avere accesso al resto degli interventi, salvo far ricorso alla propria rete di contatti informali. Durante la presentazione l'atmosfera è cordiale e informale, e l'incontro si svolge in modo simile a quelli descritti in precedenza: esposizione degli avvenimenti in base alle relazioni di servizio, domande da parte della stampa e successivi chiarimenti/approfondimenti da parte dell'incaricato (a volte anche telefonando al reparto che ha fatto l'operazione). Nella stessa stanza vengono organizzate le conferenze stampa, con modalità simili a quelle descritte per la Polizia di Stato. In genere è invitato l'ufficiale che ha coordinato il lavoro sul campo, il quale descrive i termini dell'operazione e gli obiettivi raggiunti (arresti, merce sequestrata, etc...). Per ovvi motivi, tutti gli appartenenti all'Arma si presentano in uniforme, salvo l'addetto all'Ufficio stampa, spesso in borghese. Durante le riprese foto e video, è d'obbligo la presenza di uno o più carabinieri in uniforme, per marcare visivamente la notizia ed essere riconosciuti dal pubblico.
[NOTE]
26 È necessario ricordare che il territorio milanese è suddiviso in tre zone: due sono affidate alla Polizia di Stato (per cui le chiamate provenienti da queste due zone sono sempre di pertinenza dell'UPG della Questura), una ai Carabinieri. Se un cittadino utilizza il 113 (quindi chiama la Polizia di Stato) da una zona controllata dai Carabinieri, la telefonata viene passata per competenza a quest'ultimi, che portano avanti l'intervento.
27 Le testate giornalistiche che seguono abitualmente il «giro di nera» sono: Corriere della Sera, la Repubblica, il Giorno, il Giornale, Libero e Italia Oggi per la stampa; ANSA, TMNews e Omnimilano per le agenzie.
28 È fondamentale mantenere un rapporto almeno di fiducia con le fonti, poiché sono loro che hanno le informazioni di prima mano necessarie per costruire una notizia. Per tale motivo molti giornalisti sono disposti ad utilizzare anche il proprio tempo libero per creare e mantenere un legame fiduciario con funzionari, dirigenti e anche agenti e investigatori delle Forze dell'Ordine, nella speranza che questi consegnino a lui, e a lui solo, una potenziale notizia. Su questo si veda il prossimo capitolo.
29 È importante sottolineare che si tratta pur sempre di cronisti che abitualmente frequentano il «giro di nera» (quotidianamente o quasi). Non ho mai visto il mattinale lasciato in mano ai giornalisti più giovani che frequentano solo occasionalmente la Questura.
30 In verità intervengono più frequentemente i cronisti più anziani, o comunque quelli che seguono più assiduamente il «giro di nera».
31 Ovviamente questo è solo un primo step del processo di raccolta e selezione delle notizie, ossia ciò che viene “preso” non viene necessariamente pubblicato sul quotidiano (mentre è più probabile che finisca nei dispacci delle agenzie).
32 Articolo di poche righe dove si riassume un fatto di cronaca nera. In genere più “brevi” vengono accorpate in un'unica sezione del giornale (nel caso del dorso milanese del «Corriere della Sera» sono collocate abitualmente nella spalla della pagina dedicata alla nera).
33 tutto sommato il giornalista avrebbe potuto contattare l'U.P.G. privatamente e farsi dare gli stessi dettagli.
34 Capita abbastanza spesso che il responsabile dell'Ufficio stampa sia costretto a chiamare i dirigenti del settore che ha condotto l'operazione per avere tutte le informazioni per rispondere alle domande poste dai giornalisti. Questo aspetto è parte di una più ampia problematica che riguarda il rapporto tra cronisti di nera e Forze dell'Ordine, che sarà trattata ampiamente nel capitolo successivo.
35 C'è anche un altro motivo per cui l'operatore prende nota degli interventi: è stato stipulato un contratto con la testata TgCom che prevede l'invio alla redazione giornalistica delle notizie raccolte dalla carta stampata. Tali notizie vengono utilizzate per l'aggiornamento del loro sito web.
36 Il compito del cronista era quello di recuperare la notizia e tutti i suoi dettagli, i quali venivano passati ai colleghi più anziani, che rimanevano in redazione, i quali scrivevano e firmavano il pezzo. Per tale motivo il cronista che prendeva la notizia veniva chiamato “trombettiere”.
37 È importante sottolineare quest'aspetto perché è capitato molto spesso che un intervento importante, presentato in modo formale in Sala Cronisti, non sia stato ripreso dai giornali, o al massimo sia finito in una “breve”. Il lavoro dell'Ufficio stampa è proprio quello di rendere sempre più appetibili i fatti resi pubblici, aumentando la probabilità che questi diventino notizia.
38 In questi casi, e più in generale quando ci sono delle riprese foto e video, l'Ufficio stampa coordina la presenza di personale in uniforme, affinché l'immagine o il video mostrino con chiarezza la Forza di polizia che ha eseguito l'intervento.
39 È capitato, per esempio, nel caso di una rapina in farmacia sfociata in un inseguimento per le vie della città e conclusasi con l'arresto dei due colpevoli.
40 Il nome è stato modificato nel 2009. Fino a quell'anno il nome era Comando Regione Carabinieri Lombardia, il quale è stato modificato su decisione dell'allora comandante generale dell'Arma. La modifica aveva creato non poche perplessità, soprattutto per la spesa richiesta (cfr. articoli sul «Corriere della Sera» del 21/06/2009 e del 07/04/2011).
41 La presenza di due giornalisti è determinata da una precedente divisione del lavoro della redazione locale del «Corriere della Sera», per cui un cronista seguiva prevalentemente l'attività della Polizia di Stato, un altro quella dei Carabinieri. Oggi questa distinzione è meno marcata, e vale soprattutto per i cronisti più “anziani”, anche perché hanno sviluppato una rete di contatti più fitta nella Forza di polizia di competenza.
Domingo Scisci, Dai fatti alle parole. Come sta cambiando la cronaca nera milanese, Tesi di dottorato, Università degli Studi Milano Bicocca, Anno Accademico 2011-2012