Ricordato poi il metodo della esecuzione programmatica, il Farina ordinava che appartenenti a banda, presi prigionieri durante il combattimento, o per i quali potesse essere dimostrata una partecipazione attiva nella lotta delle bande, dovevano essere fucilati, e che altrettanto si dovesse fare per disertori presi con le armi in pugno, mentre disertori disarmati e renitenti di leva dovevano essere inoltrati in campi di raccolta.
Il Farina ordinava infine che nelle località ove fossero apparse bande in maggior numero, si dovevano prendere ostaggi fra personalità di maggior rilievo che, nel caso di successive azioni violente, dovevano essere fucilati, previo un giudizio sommario ma soltanto in seguito ad ordine di un ufficiale rivestito almeno del grado di generale di divisione.
Gli stessi ordini tassativi furono ripetuti dal colonnello comandante del nucleo segreto del servizio informazioni divisionale, con sede in Loano, con altro ordine del giorno in data 30-12-1944 che rappresenta una derivazione e conferma conseguenziale dell'ordine programmatico antecedente.
La Divisione fanteria marina 'San Marco' e la lotta partigiana in Liguria [La sentenza contro il gen. Farina e il diario della Divisione presentati da Mario Dal Pra], Italia contemporanea, 5 - 1950, Istituto Parri
Il diario della “San Marco”, stilato dallo Stato Maggiore e caduto in mano partigiana il 25 aprile 1945, è fitto di notizie riguardo i continui scontri che la divisione dovette affrontare nei suoi ultimi giorni di permanenza nel Savonese. Basti citare, a puro titolo di esempio, quanto riferito il 1° e il 2 aprile: “1° aprile 1945: - oggi alle ore una, i partigiani attaccavano il posto di Carcare. La pronta reazione del presidio e l’intervento del treno armato fugavano gli attaccanti. Nostre perdite: 1 marò del treno armato caduto. Perdite nemiche: non accertate (vale a dire zero, NdA). Ieri, partigiani facevano saltare il ponte stradale nelle località a sud di Moncucco. Danni in via di accertamento. Ieri, alle ore 13, due autocarri civili venivano fatti segno a colpi di arma da fuoco nella località a sud di Cogoleto. Questa notte un marò della Compagnia Panettieri, in permesso nella zona di Ghioni, è stato catturato dai partigiani. Effettuata ricognizione nella zona con esito negativo. Deceduto un marò del treno armato in seguito ad attacco di partigiani”. “2 aprile: - ieri, forte nucleo di partigiani attaccava la zona Ovest - Sud - Ovest di Monastero (Monastero Bormida, NdA). Pronta reazione del presidio del Gruppo Esploratori fugava gli attaccanti. Ieri, partigiani attaccavano il Comando del III/6 Fanteria (terzo battaglione del sesto reggimento, NdA) nella località a 2 Km. Est - Sud - Est di Vene (Vene di Rialto, NdA). Pronta reazione fugava gli attaccanti. In corso contromisure. Ieri, partigiani prelevavano in località Marghero due marò del II/3 Rgt. Art.”
Tra un agguato e l’altro, alla data del 31 marzo 1945 la divisione ammetteva ufficialmente non meno di 318 caduti (di cui 6 “camerati”, cioè tedeschi) e 103 dispersi (tra cui un tedesco: ma in buona parte si trattava di disertori). Quanto alla disciplina interna, anch’essa aveva richiesto il suo prezzo: al 28 febbraio risultavano già fucilati ben 40 “marò”, di cui 29 passati per le armi dopo regolare procedimento giudiziario e 11 direttamente sul campo. In queste condizioni anche il diario personale del generale Farina trasudava, al di là della fermezza delle intenzioni, grande preoccupazione. L’11 aprile Farina scriveva: “Chiedo al generale Hildebrandt (ufficiale tedesco di collegamento, NdA) il massimo interessamento del Corpo di Armata Lombardia per me e per il generale Meinhold”.
Emergevano in modo grottesco le diffidenze reciproche tra italiani e tedeschi. Il 19 il comandante della “San Marco” scrisse: “Con il generale Hildebrandt (DVK 182) stiamo esaminando il piano di ripiegamento e la necessità di avere il gruppo Squadroni Arditi (Marcianò) quando uno degli ufficiali tedeschi afferma che un ufficiale italiano, non di Stato maggiore, sotto il vincolo del giuramento gli ha comunicato che il generale Farina, il maggiore Viviani, il tenente Herming e una batteria costiera stanno complottando per uccidere tutti i camerati germanici! Accade una scena infernale. Il generale Hildebrandt caccia il suo ufficiale violentemente trattandolo da pazzo furioso”. L’episodio si commenta da sé.
Ma non era tutto. In novembre lo stesso Farina era stato infastidito dai tedeschi, i quali pretendevano che facesse togliere dal cimitero delle Croci Bianche di Altare, dove venivano seppelliti i caduti della “San Marco”, le salme di alcuni partigiani che egli, con postumo senso di umanità, aveva voluto porre accanto a quelle dei suoi soldati uccisi. Per quanto possa parere incredibile, il 2 novembre Farina commentava la questione sul suo diario in questi termini: “[…] Il Comandante della Divisione San Marco non lascia insepolti coloro che ci combattono contro, che battendosi sono Caduti pensando anch’essi all’Italia”.
Dopotutto i fascisti, essendo in minoranza, potevano permettersi di riconoscere che quella che combattevano era una guerra civile.
[...] In seguito alle ripetute azioni di sabotaggio e agli agguati compiuti dalla “Chiarlone” tra Montechiaro e Ponti, i repubblicani effettuarono un forte rastrellamento accompagnato da artiglieria leggera nella zona di Serole e Roccaverano (Alta Langa astigiana), venendone respinti nel pomeriggio. E’ interessante notare la differenza nei resoconti di parte fascista e partigiana. A detta degli insorti vi sarebbe stato un solo volontario caduto (Dario Paita, ex “marò” inquadrato nella brigata “Uzzone - Lichene”) e tre nemici uccisi. Il diario divisionale della “San Marco” riporta invece: “13 aprile: ieri, reparti del Gruppo Valli effettuavano il rastrellamento della zona tra Suole (sic) e Roccaverana (sic) incontrando forte resistenza. Perdite nemiche accertate: 7 morti (di cui uno sottufficiale della 2a Batteria del 3° Artiglieria promotore della diserzione dei 39 marò [altra discrepanza significativa, NdA] segnalata il 4 corr.) e 17 feriti. Perdite nostre: 3 morti e 2 feriti. Catturati 1 partigiano e due pistole. Durante il rastrellamento una stazione radio del Gruppo Valli ha intercettato un marconigramma nemico teso a sviare ordini prestabiliti”. Dunque i repubblicani avevano largamente sopravvalutato l’esito della loro azione, oppure i partigiani taciuto perdite pesanti: quest’ultima ipotesi è tuttavia improbabile, giacché sei caduti in più non avrebbero fatto altro che arricchire il martirologio antifascista con evidente vantaggio propagandistico a posteriori. E’ un fatto, comunque, che da lì in avanti la brigata non si impegnò più in grossi scontri. Da notare, nel resoconto di parte fascista sopra riportato, il riferimento ai messaggi radio della parte avversa: ormai, grazie all’appoggio delle missioni alleate, le formazioni autonome delle Langhe potevano condurre una loro personale “guerra delle onde” che il nemico si affrettò a stroncare.
La principale base radiotelegrafica alleata in zona era a Monesiglio, come verificarono i repubblicani durante un rastrellamento. Del Gruppo Valli (Battaglione Raccolta), impegnato in questa e in numerose altre azioni antipartigiane, va detto che durante l’inverno aveva registrato l’afflusso nelle sue file di non pochi ex partigiani sbandati, allettati dalla promessa dell’immunità (generalmente mantenuta) e, soprattutto, di pasti caldi e una branda decente per dormire.
[...] Lo stesso 18 aprile 1945 al Comando di Zona di Savona e al Comitato militare giunse una lettera del Comando SIP (Servizio Informazioni e Polizia) che conteneva le linee essenziali del piano di difesa germanico per il capoluogo, abilmente carpite dallo spionaggio partigiano. Uno dei punti chiave che i nazifascisti intendevano tenere più a lungo possibile era la collina di San Lorenzo (quota 191) sopra il quartiere di Villapiana. La resistenza attuata dai capisaldi doveva consentire alle truppe italiane e tedesche presenti in zona di raggrupparsi a nord del capoluogo per combattere sulla direttrice di Montenotte. La difesa della collina di San Lorenzo era costituita sul versante a mare da reparti di Pubblica Sicurezza e della Compagnia ordine pubblico della GNR, e su quello a monte, dotato di trincee e di una galleria per il comando e i servizi, da soldati dell’11° Comando militare provinciale. Almeno nei piani questa piccola Festung (fortezza) avrebbe dovuto usufruire di un ottimo armamento, con tanto di Panzerfaust e mitragliatrici pesanti. Al momento di agire le truppe effettivamente impiegate nella difesa del caposaldo dovevano essere quelle del Comando provinciale, poste agli ordini di un ufficiale italiano a sua volta sottoposto alla Platzkommandantur (comando piazza tedesco), mentre i questurini e le guardie repubblicane avrebbero dovuto fungere da riserva. In realtà il piano poggiava sull’idea che questo velo di truppe fosse in grado di respingere i partigiani (o, caso improbabile, gli americani eventualmente sbarcati), ma su questo punto nessun ufficiale si faceva troppe illusioni: gli uomini erano pochi, demotivati e nel complesso tutt’altro che affidabili. I comandanti delle grandi unità impegnate nel Savonese, la “San Marco” e la 34a divisione tedesca, si affannavano invece ad ultimare i preparativi per una rapida ritirata verso Alessandria e il Po. A questo scopo erano stati da tempo minati il porto, le centrali dei servizi pubblici, le industrie, la via Aurelia, la strada del colle del Giovo e tutto il materiale rotabile delle ferrovie.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999-2000