lunedì 14 febbraio 2022
Circa la teoria della participatory democracy negli anni Settanta
"The Strong Democracy" di Benjamin Barber, pubblicato nel 1984, segnava l’ultima evoluzione nella definizione della teoria della participatory democracy nel periodo osservato, prima del rinnovato interesse alla metà degli anni Novanta <109. Il lavoro di Barber si distingueva per aver delineato un dettagliato programma di riforme per l’integrazione di elementi partecipativi nel sistema istituzionale statunitense. Secondo Barber la democrazia forte era una forma di governo democratica dove “the people govern themselves, in at least some public matters at least some of the time” <110.
Inoltre, ispirandosi esplicitamente come Kaufman all’approccio esistenzialista dell’American Pragmatism - che basava la partecipazione democratica dei cittadini sullo sviluppo delle loro relazioni umane -, la democrazia intesa da Barber “is the theory of talk, judgement and public seeing” <111. Per questo l’aspetto deliberativo era uno degli elementi chiave del suo discorso partecipativo, sia in termini valoriali che esplicitato attraverso istituzioni dedicate. La discussione collettiva infatti, nell’ottica di Barber, permetteva al singolo di sviluppare la capacità di persuasione e di apprendimento, due componenti fondamentali della partecipazione del cittadino ai processi decisionali pubblici <112. Sul piano istituzionale tale impianto filosofico si traduceva in una serie di spazi partecipativi da includere nella cornice delle istituzioni rappresentative tradizionalmente a servizio delle società organizzate su larga scala.
Barber tuttavia, a differenza dei precedenti modelli di teoria della participatory democracy, prevedeva una estensione della partecipazione diretta anche ai processi decisionali a livello federale. Per questo, a chiusura di "The Strong Democracy", il politologo propone una vera e propria agenda integrata di riforme, pensate per il sistema costituzionale statunitense. Il programma si strutturava nello specifico in dodici punti, ognuno dei quali corrispondeva a una nuova istituzione partecipativa. Solo per citarne alcune, si andava dalle assemblee di quartiere dedicate principalmente a definire l’agenda del governo municipale e a stimolare l’accountability degli eletti, locali e statali, ad assemblee della cittadinanza per via telematica a livello regionale; un servizio di educazione civica finanziata con denaro pubblico in caso di consultazioni referendarie; la possibilità di indire referenda e initiatives nazionali sulla legislazione del Congresso, con risposta multipla per differenti sfumature di accordo e disaccordo in modo da orientare i legislatori e un processo di approvazione in due tornate di consultazioni distanziate temporalmente per garantire un voto ponderato e il più possibile indipendente dall’influenza dei gruppi di interesse; un servizio civile universale e su più aree di servizio, per rafforzare la cura dei cittadini per il bene pubblico e un sostegno economico pubblico per facilitare la diffusione della gestione democratica dei luoghi di lavoro. Un aspetto fondamentale, secondo Barber, era che le dodici riforme istituzionali, per essere realmente efficaci, avrebbero dovuto essere introdotte tutte insieme. Ciò sarebbe stato possibile, secondo lui, sfruttando sul piano politico il peso delle numerose constituencies già attivatesi negli anni Settanta e favorevoli ad un maggior coinvolgimento dei cittadini nelle politiche pubbliche <113.
Di fatto, la prospettiva di Barber sull’implementazione istituzionale della participatory democracy non era solo una teoria, ma un manifesto per i progressive democrats. Negli anni Settanta si assistette infatti alla mobilitazione di gruppi progressisti di orientamento riformista su base comunitaria, al fiorire di campaign coalition e public interest group <114. La spinta alla partecipazione e all’apertura a nuove istanze e alle politiche identitarie interessò anche il partito democratico e si unì a una stagione di decentramento amministrativo su base locale. Barber non solo prendeva in considerazione tali esperienze diffuse, ma le sistematizzava e ne traeva spunto come riferimento empirico della fattibilità della sua teoria.
A fianco alle speculazioni della teoria politica anche una riflessione più militante e meno raffinata sulla participatory democracy si sviluppò negli anni Settanta. Era stata sollecitata dall’urgenza politica degli anni Sessanta come la “critical temper” e gli altri teorici, ma sembrava procedere indipendentemente, attraverso canali ed aree di indagine differenti. Per avere una idea delle basi di tale orizzonte di interpretazione della participatory democracy, il volume collettaneo "Participatory Democracy" del 1971 offre una panoramica esemplificativa. Curata da Terrence E. Cook e Patrick M. Morgan, allora giovani docenti alla Washington State University, la collezione era concepita come una mappa del dibattito corrente sulla complessità della participatory democracy e raccoglieva estratti di pubblicazioni di intellettuali come Paul Goodman e Robert A. Dahl, attivisti come Tom Hayden, Staughton Lynd e lo scomparso Frantz Fanon, fino a Lenin e Jean Jacque Rousseau. I curatori credevano nei riscontri positivi, umani e politici, di una maggiore partecipazione dei cittadini, ma consideravano ancora aperti e da discutere aspetti critici della sua implementazione istituzionale, malgrado la teoria politica avesse già iniziato ad affrontarli in maniera sostanziale. Si chiedevano ad esempio quale fosse la dimensione auspicabile dell’unità di partecipazione, quali le modalità di funzionamento del processo decisionale partecipativo o come si sarebbe dovuta strutturare la relazione tra l’unità partecipativa con le altre strutture della società che mantenevano differenti principi di autorità <115.
In realtà quello che poi emergeva dal volume era piuttosto l’apertura alla sperimentazione sul campo, specialmente da parte dei community group. La collezione ospitava infatti alcuni contributi ottimisti e visionari in questo senso, che finirono di fatto per avere un certo impatto sociale negli anni a seguire. E’ il caso della selezione di "Neighborhood Government" (1969) di Milton Kotler <116. Kotler argomentava in sostanza che la participatory democracy potesse essere implementata nelle città attraverso l’organizzazione decentrata dei quartieri. Questa idea sarebbe poi stata ripresa ed ampliata da Karl Hess nel 1975 in "Neighborhood Power: The New Localism", scritto a quattro mani con David Morris. Mentre Kotler aveva concepito l’auto-governo del quartiere come una corporation, regolamentata dall’amministrazione statale e della città, Hess sottolineava invece la totale autonomia dalle istituzioni esterne e l’autosufficienza economica dell’unità-quartiere. Kotler e Hess divennero presto i più conosciuti promotori del neighborhood movement, che ebbe un esteso seguito durante gli anni Settanta. La rete creata dai due ideologhi ricevette fin dagli esordi il sostegno dell’Institute for Policy Studies di Washington DC, allora dinamico collettore di politiche progressiste su base locale e statale. Per questi motivi il fenomeno del new localism è stato ampiamente studiato dalla storia urbana e sociale e un nuovo gruppo di neighborhood-based studies ha recentemente focalizzato la dimensione locale come una scala rilevante per osservare i discorsi pubblici e le politiche nazionali <117.
Le tesi alla base del neighborhood movement esprimevano dunque una interpretazione della participatory democracy come una forma di governo basato sulla democrazia diretta su base locale e tendente all’auto-sufficienza <118. In questo senso, è facile intuire come nel mito del neighborhood government che si sarebbe pienamente sviluppato negli anni Settanta, la richiesta di participatory democracy prese connotati diversi da quelle originari della New Left.
Perciò l’originaria opposizione al centralismo e al big government dell’Establishment liberale finì per confondersi spesso, nel governo di quartiere, con istanze anti-stataliste di altra matrice.
[NOTE]
109 J. D. HILMER, The State of Participatory Democratic Theory, cit., p. 44
110 B. R. BARBER, Strong Democracy. Participatory Politics for a New Age, Berkeley and Los Angeles, CA, University of California Press, 2003 (1984), p. xxxiv
111 Ivi., p. xxxii
112 Ivi, p. 265
113 B. R. BARBER, Strong Democracy, cit., pp. 261-311
114 Per un’idea del fermento sociale evocato da Barber si veda H.C.BOYTE, The Backyard Revolution: Understanding the New Citizen Movement, Philadelphia, PA, Temple University Press, 1981
115 T. E. COOK, P. M. MORGAN, An Introduction to Participatory Democracy, in T. E. COOK, P. M. MORGAN (a cura di), Participatory Democracy, New York, NY, Harper & Row Publishers, 1971, pp. 1-40. Lo stesso approccio approssimativo e militante alla participatory democracy si trova in D. C. KRAMER, Participatory Democracy: Developing Ideals of the Political Left, Cambridge, MA, Schenkman Publishing, 1972.
116 M. KOTLER, “Neighborhood Government”, in T. E. COOK, P. M. MORGAN (a cura di), Participatory Democracy, cit., pp. 239-246. Sul localismo si veda anche, nella medesima raccolta, T. HAYDEN, On Trial, in T. E. COOK, P. M. MORGAN (a cura di), Participatory Democracy, cit., pp. 43-48
117 S. COWAN, Back to the Neighborhood: ideas and Practices of Local Government, in “Journal of Urban History”, vol. 45 (2019), n. 5, pp. 1070-1075, p. 1071
118 B. LOCKER, Visions of Autonomy: The New Left and the Neighborhood Government Movement of the 1970s, in “Journal of Urban History”, vol. 38 (2012), n. 3, pp. 577-598
Marta Gara, "Change the system from within". Participatory democracy e riforme istituzionale negli Stati Uniti degli anni Settanta, Tesi di dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore Milano, Anno accademico 2020/2021