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venerdì 4 febbraio 2022

In quel momento sono io a tacere

Milano: Stazione Centrale

Nulla è piú pericoloso di una spia fascista che conosca i patrioti, soprattutto se la spia è stata agente dell'OVRA fino al 1943 ed ha avvicinato gli antifascisti arrestati. Verso la metà di agosto del 1944, Franco mi informa dell'esistenza di una spia della quale non conosco né il nome, né l'indirizzo, né il volto, una anonima minaccia per un grande numero di antifascisti, una oscura ipoteca sul fronte di liberazione. Dopo 15 giorni abbiamo la prova che la spia è un certo avvocato De Martino, dirigente dell'ufficio politico della Questura di Milano, un criminale prudentissimo che esce soltanto per andare alla Questura e tornarsene a casa, in via Telesio, e sempre scortato. Via Telesio è zona "militarizzata," sede di comandi di gruppi fascisti e tedeschi, protetta da eccezionali misure di sicurezza; elegante e signorile, costeggia il parco, sotto i cui alberi secolari si avvicendano i reparti fascisti di vigilanza.
Non è possibile sostare qualche minuto in via Telesio senza essere fermati, perquisiti e magari arrestati; dobbiamo quindi andarci a colpo sicuro e nel minuto preciso. Il nostro guaio, invece, è che nessuno di noi ha mai visto il De Martino. Ci vuole qualcuno che lo conosca e, al momento giusto, ce lo indichi. Ne parlo a Sandra e la convinco a recarsi in casa del De Martino per chiedergli un parere legale. La missione è pericolosa e richiede ad un tempo sangue freddo e fantasia, due qualità che non mancano alla nostra ambasciatrice.
Il giorno seguente Sandra suona alla porta di via Telesio e viene fatta entrare nel salotto, con le finestre protette da solide inferriate, dove, qualche minuto dopo, entra un individuo alto e robusto scrutandola dietro le spesse lenti; l'uomo l'accompagna nel suo studio e dopo averla fatta accomodare in una grande poltrona di pelle, si siede, a sua volta, dietro la scrivania.
Sandra, mostrandosi molto imbarazzata, gli fa pressappoco questo discorso: "Mi manda mio padre per un consiglio. Si tratta di mia sorella di 19 anni, fidanzata ad un ufficiale degli alpini. La ragazza aspetta un bambino. Ha scritto al comando del reparto per far ottenere al fidanzato una breve licenza matrimoniale prima della nascita del piccolo, ma intanto purtroppo l'ufficiale è caduto in combattimento sul fronte greco."
"Ora mia sorella," aggiunge Sandra, "dopo la nascita del bambino è ossessionata dall'idea che debba portare il nome del suo eroico padre; conserva le lettere che le ha scritto e dalle quali traspare l'impazienza di sposarla per amore suo e del loro piccolo."
La spia osserva Sandra con insistenza, si toglie gli occhiali, li pulisce con calma, li rimette e chiede bruscamente: "perché è venuta da me? Chi le ha dato il mio indirizzo?"
Sandra, che aveva previsto la domanda, risponde con sicurezza:
"Mi ha mandata mio padre, consigliato da un amico medico."
De Martino non fa altre domande; scorre gli appunti del colloquio e dice a Sandra: "Mi faccia avere le lettere del fidanzato di sua sorella e dica a suo padre, la prossima volta, di venire di persona. Forse un giorno suo nipote porterà il nome del padre, eroico combattente. Chi è caduto per la patria ha tutti i diritti alla nostra riconoscenza."
Sandra si alza. L'uomo, mostrandosi galante l'accompagna in anticamera per farle intendere che il favore è grande e che l'avrebbe rivista volentieri. Ora conosciamo la faccia dell'individuo, ma la sua esecuzione presenta molti rischi. Li affrontiamo.
Mercoledí, 1° settembre 1944; due gappisti si appostano all'inizio e alla fine di via Telesio. Pochi minuti prima dell'arrivo della macchina di De Martino, giungo a braccetto di Sandra. Camminiamo piano, chiacchierando come due fidanzati. Compare da via Ariosto una grossa automobile. Sandra riconosce l'uomo attraverso i cristalli. Do il segnale. I due gappisti si incamminano sul marciapiede l'uno verso l'altro, per incontrarsi davanti al portone numero 8, nel momento stesso in cui si sarebbe arrestata l'automobile con la spia a bordo.
Abbiamo calcolato esattamente i tempi e non è la prima volta che eseguiamo una simile manovra. De Martino scende dall'auto, accompagnato dalla scorta, fa tre passi sul marciapiede e cade colpito da tre colpi di pistola. La scorta, sorpresa, non reagisce immediatamente. Quando spara contro i gappisti in corsa, è troppo tardi.
Il 5 settembre appare sui giornali il comunicato del capo della Provincia. "A decorrere dal 4 settembre è fatto divieto a tutti i ciclisti di transitare in gruppi. Ai posti di blocco presso le barriere daziarie, i ciclisti devono scendere dal veicolo almeno dieci metri prima e risalirvi dieci metri dopo."
Nel pomeriggio, in corso Sempione, incontro Azzini. Cammina lentamente. Non gli lascio il tempo di dirmi ciao. "Da dove vieni?"
"Mi ha bloccato un rastrellamento."
"Un rastrellamento?"
"Stamattina non c'eri in via Ponzio dove è morto un compagno e Antonio è stato gravemente ferito!"
Azzini abbassa il capo. Non ribatte, ma il suo volto esprime confusione, amarezza, dolore. "Alla Ponzio, l'azione è fallita. I gappisti hanno reagito, ma purtroppo Romeo Conti è morto. Questo è quanto. E ora parliamo d'altro. C'è qualcosa da fare?"
Da alcuni giorni matura l'idea di un colpo alla Stazione Centrale di Milano in un locale adibito a posto di ristoro per fascisti e tedeschi, dove si mesce perfino birra. Mi sono già recato con Sandra nel locale, di difficile accesso per coloro che non sono in uniforme, ma non per un gappista travestito. Il tecnico ha preparato il materiale impiegando matite esplosive a scoppio ritardato, invece della solita miccia facilmente identificabile dalle tracce di fumo. Il laboratorio dista dalla stazione circa dieci minuti di strada. Azzini mi ascolta. Risponde: "D'accordo." E aggiunge: "Tu credi forse che io abbia paura! No, non ho paura, ma..."
"Non ci possono essere ma."
"Ci saranno rappresaglie, vittime..."
"Rappresaglie? Sí, e sempre piú feroci. Per questo dobbiamo tenergli costantemente le mani in gola." Mi guarda negli occhi. "Ho capito," dice.
In quel momento sono io a tacere. Le domande di Azzini ce le siamo poste tutti, mille volte, davanti ai caduti, davanti agli uccisi, agli innocenti sacrificati. Sono una prova di onestà, di lealtà verso i cento e cento compagni che sono già morti, e verso quelli che lottano con l'arma in pugno in ogni angolo d'Italia.
È lui a scuotermi. "Quando ci troviamo? Dove?"
Ci troviamo in via Copernico, non lontana dal laboratorio del tecnico. <29 È con noi Narva che accompagnerà Azzini. Prima dell'appuntamento mi reco in laboratorio dove per la prima volta riceviamo matite esplosive in luogo della miccia e mi isso lo zaino sulle spalle. Quando arrivo in via Copernico, Azzini, in uniforme fascista, mi attende. Gli passo lo zaino. Ci incamminiamo in gruppo verso la stazione.
Giulio, il tecnico, ci lascia ai piedi della scalinata. Narva prosegue sola, precedendo Azzini. Anch'io gli stringo la mano e mi allontano.
Azzini sale gli scalini un po' curvo sotto il peso dello zaino, diretto al posto di ristoro in cima alla scalinata. Prima di allontanarmi rimango qualche minuto seguendolo con lo sguardo, mentre con la sigaretta fra le labbra, sale calmo, sicuro. Raggiungo Sandra, incaricata di sorvegliare all'esterno l'andirivieni dei passeggeri.
Quando Azzini- arriva al posto di ristoro lo trova pieno di tedeschi e di fascisti: alcuni sostano all'esterno del locale, seduti sul parapetto delle scale. Poco discosto, tre bambini stanno rincorrendosi, giocando. Azzini entra nel locale, si toglie lo zaino, lo posa per terra in un angolo. Caldo soffocante e tanta gente che parla forte e che ride. Azzini si asciuga il sudore che gli cola sulla fronte, guarda l'orologio. È tempo di allontanarsi.
Ma mentre esce rivede i tre bambini che si rincorrono ridendo, inconsci, felici. Si avvicina ad essi, li prende per mano e li conduce via.
Di fronte alla farmacia della stazione, Sandra segue l'azione per potermi subito riferire. In quell'istante, mentre Azzini si allontana con i tre bambini, la bomba scoppia con dieci minuti di anticipo sul tempo stabilito lanciando un volo di schegge attorno a lui. Azzini sorpreso guarda l'orologio e rabbrividisce.
I tedeschi, seduti su un parapetto della scala, sono gettati in terra dallo scoppio. Altri fuggono. Dal posto di ristoro escono spesse nubi di fumo nero. Due o tre militari feriti compaiono sulla porta del locale urlando di dolore. Azzini è ormai fuori con i tre bambini. La gente che in quell'ora affolla la stazione si passa le voci piú strane. "È scoppiata una bomba nello zaino di un tedesco." "È saltato un treno carico di esplosivo."
Molti accusano i tedeschi di incuria nel trasporto del materiale esplosivo. I tedeschi gridano: "Partigiani! Banditi!"
Arrivano i rinforzi, circondano la stazione, fanno allontanare la gente, mentre i morti e i feriti vengono trasportati fuori.
Camion armati bloccano l'entrata della stazione, arrestando chiunque si trovi a passare. Sandra fa appena in tempo a fuggire. Io, dal caffè dove mi trovo in attesa, sento l'esplosione e mi accorgo che la bomba è scoppiata molto prima del tempo stabilito. Calcolo febbrilmente il tempo: dieci minuti per arrivare sul posto, due o tre per depositare lo zaino e uscire. Anche se lo scoppio è avvenuto dopo diciotto minuti anziché dopo trenta, Azzini avrebbe avuto il tempo di allontanarsi, a meno che non si sia fermato per non farsi notare.
Poco dopo arriva Sandra, ma neppure lei sa dirmi se Azzini sia uscito o meno dal posto di ristoro. Ha sostato davanti ad una edicola i primi dieci minuti e non ha tenuto d'occhio il posto di ristoro. La incarico di recarsi, il mattino dopo, a casa di Azzini per chiedere notizie.
Ma dentro di me si fa strada una di quelle idee assurde che attraversano la mente nei momenti in cui ci si abbandona all'ansia, al turbamento. Temo che Azzini possa pensare che io l'abbia mandato deliberatamente alla morte per punirlo della sua mancata partecipazione allo scontro della piscina in via Ponzio. È assurdo, ma ho fretta di vederlo, di parlargli, di eliminare ogni dubbio. Non è necessario. Mi viene incontro nel pomeriggio tutto allegro.
La stampa fascista divulga poi la falsa notizia di bambini uccisi: il locale di ristoro diviene una infermeria!
L'arma segreta a cui i nazifascisti ricorrono come risorsa estrema è la menzogna e la calunnia.
Trascorrono tre giorni. Il meccanismo poliziesco dei fascisti si è mosso invano; ma la fatalità vuole che Azzini venga catturato dagli sgherri della "Muti" come renitente alla leva.
Arrestato, viene condotto nella caserma di via Rovello. Lo spogliano. Lo stesso comandante della marmaglia della "Muti," Colombo, svolge l'interrogatorio.
"Sei un partigiano? Parla! Sei un bandito? Parla, vigliacco!"
Azzini non parla. Il ragazzo è diventato uomo, un partigiano.
Torturato per sette giorni, di giorno e di notte. Resiste agli insulti; alle sevizie, lui oppone il silenzio. In pieno giorno riesce a fuggire dalla porta centrale per cui è entrato prigioniero, sicura preda della morte.
29 Giulio Impiduglia aveva organizzato il laboratorio in via Vivaldi.
Giovanni Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, 2013
 
Come già accennato, le testimonianze di Giovanni Pesce costituiscono una delle principali fonti a cui attingere informazioni sull’attività dei Gap.
Le memorie della sua vita e della sua attività politica si possono rintracciare in diversi libri, <37 ma il fondamentale rimane sicuramente "Senza tregua", <38 che costituisce il nucleo d’analisi di questo lavoro. Pubblicato per la prima volta ne La clessidra nel marzo 1967, è poi arrivato alla settima edizione nel marzo 2006. Ma è in "Soldati senza uniforme" <39, scritto nel 1950, che rintracciamo il fulcro di memorie che poi troveremo ampliato in "Senza tregua" e su cui sarà necessario svolgere un confronto.
Prima di intraprendere un viaggio nel testo è necessario innanzi tutto comprendere cos’è che ha permesso a Giovanni Pesce di diventare una sorta di “eroe” della Resistenza e per farlo è doveroso volgere uno sguardo alle esperienze di vita che più hanno contribuito a “forgiare il suo animo gappista”, in primis la partecipazione alla guerra di Spagna.
[...] Lasciata la Spagna e poi la Francia, Pesce rientrò in Italia nel 1940 ma fu subito arrestato e inviato al confino sull’isola di Ventotene, ove conobbe alcuni tra i massimi rappresentanti politici dell’antifascismo italiano.
Liberato nell’agosto del 1943, si unì alle prime formazioni partigiane e fu tra i fondatori dei GAP di Torino. Qui svolse, con il nome di battaglia "Ivaldi", numerose azioni di sabotaggio contro l’occupante nazifascista e uccise diversi esponenti del regime fascista, spie e collaborazionisti, tra i quali il maresciallo della Milizia e amico personale di Benito Mussolini Aldo Mores, e il giornalista fascista Ather Capelli (31 marzo 1944). A Torino, il 18 maggio 1944, avvenne anche la morte di Dante Di Nanni, membro del GAP comandato da Pesce, subito dopo l’attentato contro la stazione radio dell’Eiar che disturbava le trasmissioni di Radio Londra.
In seguito a questi ultimi avvenimenti, nel mese di maggio 1944 Pesce si trasferì a Milano, dove riorganizzò la formazione locale. Qui operò con la staffetta partigiana "Sandra", Nori Brambilla, che dopo la Liberazione, il 14 luglio 1945, divenne sua moglie.
[NOTE]
37 Vd. bibliografia.
38 G. Pesce, Senza tregua, Milano, Feltrinelli 1967.
39 G. Pesce, Soldati senza uniforme, Roma, Edizioni di Cultura Sociale 1950.
Valentine Braconcini, La memorialistica della Resistenza attraverso gli scritti di Giovanni Pesce, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2007-2008 

I Gruppi di azione patriottica (Gap) nacquero, come diretta emanazione del Pci, dopo gli scioperi del marzo 1943. La linea politica del Partito comunista subì da quel momento una netta accelerata in direzione della lotta armata contro il fascismo e non è un caso che la prima circolare in cui compare il termine Gap, emanata dalla Direzione nord del Pci e indirizzata a tutti i responsabili di federazione, risalga al maggio 1943: il primo compito dei comunisti era quello di dare il via alla lotta armata attraverso piccoli nuclei di arditi che dovevano fungere da sprone alla lotta di massa, sulla scorta dell’esperienza francese dei Franc tireurs et partisans (Ftp) <1. Il richiamo diretto a questa esperienza è dovuto non solo al fatto che molti militanti italiani, inquadrati nella specifica sezione della Main d’Oeuvre immigrée (Moi), diedero un fondamentale contributo alla formazione dei Ftp, ma anche al fatto che, quello francese, era stato l’unico antecedente di guerriglia messo in scena dai comunisti all’interno delle città e dei centri industriali <2.
Nonostante gli sforzi della Direzione nord, la messa in pratica delle direttive fu successiva alla caduta del fascismo e alla rotta dell’esercito. Solo nell’agosto-settembre del 1943 alcuni dei migliori militanti italiani, esuli in Francia, vennero fatti rientrare con lo scopo di dare efficacia alla struttura clandestina che si andava lentamente consolidando: tra loro ricoprì un ruolo fondamentale e preziosissimo Ilio Barontini (Dario) che, nella fase iniziale, compì un vorticoso viaggio nelle città del nord Italia con l’obiettivo di armare ed istruire i primi nuclei di gappisti.
La presenza di rivoluzionari di professione come Barontini, sui quali solo il Pci poteva contare, fu determinante nella cesura che determinò il passaggio da un antifascismo sostanzialmente legalitario ad un antifascismo disposto non solo a praticare la lotta armata ma soprattutto ad accettare la sfida del terrorismo urbano <3.
Lo scopo di queste formazioni era infatti duplice: quello di colpire i nazifascisti laddove si sentivano più forti e sicuri per minare questa convinzione di sicurezza, e quello di combattere “l’attesismo” dei partiti moderati, dimostrando che l’unica strada da imboccare per sconfiggere definitivamente il nazifascismo era quella della lotta armata.
[NOTE]
1 Istituto Gramsci Roma (d’ora in poi IGR), Archivio del Partito Comunista (d’ora in poi APC), Fondo Direzione nord (d’ora in poi DN), Serie Direzione, 1-8-1, Circolare strettamente riservata, dalla segreteria del Pci ai responsabili di federazione e di città, maggio 1943.
2 P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945, Feltrinelli, Milano 1971, p. 95, La testimonianza di Antonio Roasio.
3 Ilio Barontini, Dario (1890-1951), dirigente comunista livornese. Emigrò in Francia per sfuggire alle carceri fasciste ed abbandonò la famiglia per dedicarsi completamente alla guerriglia. Organizzò i ribelli in Etiopia, combatté tra le fila dei garibaldini di Spagna e tra i Ftpf. Rientrò in Italia nell’agosto 1943, dal luglio del 1944 divenne comandante del Comando unico militare Emilia-Romagna (Cumer). A liberazione avvenuta venne soprannominato “il cavaliere della libertà dei popoli”. Morì in un incidente d’auto il 22 gennaio del 1951. Per una biografia completa di Barontini cfr. E. Barontini, V. Marchi, Dario, Ilio Barontini, Nuova Fortezza, Livorno 1988.
Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune linee di ricerca in Fronte e fronte interno. Le guerre in età contemporanea II. La seconda guerra mondiale e altri conflitti, Percorsi Storici - Rivista di storia contemporanea, 3 (2015)

A Torino, l’organizzazione dei GAP scaturisce dalla riunione, tenuta il 10 ottobre 1943, tra Ilio Barontini, Remo Scappini e Ateo Garemi. Il fatto che la prima azione, compiuta il 24 ottobre contro il Seniore della MVSN Domenico Giardina, venga eseguita dallo stesso Garemi e dall’anarchico Dario Cagno è sintomatico delle difficoltà occorse nel reclutare nuovi elementi. La scarsa entità numerica e le numerose problematicità del gappismo torinese restano una costante <104, come evidenziato da Giovanni Pesce, il quale, divenuto comandante dei GAP di Torino, lamenta di trovarsi «senza servizio d’informazioni, senza altri uomini, senza mezzi, senza attrezzature tecniche» <105.
[...] La rivitalizzazione del gappismo milanese è legata all’operato di Giovanni Pesce, il quale, nell’estate 1944, riesce ad articolare la 3ª brigata GAP Lombardia su 3 distaccamenti: il distaccamento Nino Nannetti, formato da un gruppetto di partigiani dislocati a Mazzo, il distaccamento Walter Perotti, a partire da giovani di Niguarda, il distaccamento Capettini, basato su un gruppo di porta Romana e alcuni ragazzi di porta Ticinese <142. Si tratta di nuclei di combattenti cresciuti nello stesso ambiente e che si conoscono fin dall’infanzia, il che, ovviamente, contrasta con le regole della clandestinità, ma, come già capitato altre volte, «la rigida e pedissequa applicazione delle norme cospirative comporterebbe un rallentamento o una stasi della lotta che le circostanze non consentono» <143. Se è vero che, tra il giugno e l’agosto del 1944, i distaccamenti dimostrano determinazione e combattività, mettendo a segno oltre 30 azioni <144, è altrettanto certo che la struttura risulti molto esposta al rischio di infiltrazioni e di cadute in serie.
[NOTE]
104 Peli, Storie di Gap, cit., p. 44.
105 Giovanni Pesce, Soldati senza uniforme. Diario di un gappista, Edizioni di cultura sociale, Roma 1950, p. 18.
142 Pesce, Soldati senza uniforme, cit., p. 99.
143 Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera, cit., p. 182.
144 Per citarne alcune: nella notte tra 24 e 25 giugno 1944, una successione di esplosioni al deposito ferroviario di Greco distrusse 5 locomotive, 2 locomotori, un carrello trasportatore e un deposito di carburante; il 9 luglio fu eliminata la spia Domenico Ravarelli; il 12 luglio il distaccamento Capettini fece saltare in aria i cavi telefonici che collegavano Milano, Torino e Genova; il 26 agosto, alla Stazione centrale, il gappista Tino Azzini depose nel locale di ristoro per truppe tedesche uno zaino pieno di dinamite, la cui esplosione uccise 5 soldati e ne ferì una ventina.
Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018-2019