Diffusasi anche a Genova la notizia che Benito Mussolini, in visita [n.d.r.: 31 ottobre 1926] a Bologna, aveva miracolosamente evitato il colpo di pistola di un attentatore, il sedicenne Anteo Zamboni, immediatamente linciato dalla folla inferocita, le squadre fasciste si riversarono nelle strade prendendo di mira i simboli dell’opposizione politica cittadina, prima tra tutte la redazione del «Lavoro», messa a ferro e fuoco e teatro di scontri che avrebbero lasciato sul terreno tre morti (un carabiniere e due fascisti). È significativo notare che al divampare del tumulto - lo avrebbe ricordato lo stesso Ansaldo in un puntuale passaggio delle sue memorie <43 -, non furono estranei moventi di natura prettamente personale, se è vero che la devastazione delle rotative del giornale, tra l’altro prive della necessaria tutela assicurativa per ragioni di eccessiva parsimonia amministrativa, fu capeggiata dai redattori del rivale «Giornale di Genova», ansiosi di liberarsi della sua ingombrante concorrenza commerciale.
Rientrato [n.d.r.: a Genova] da Alessandria in treno e recatosi alla biblioteca della Società di Letture e Conversazioni Scientifiche, Giovanni Ansaldo, che pure al «Lavoro» era ufficialmente sprovvisto di un impiego già da un anno esatto, riceveva la notizia delle agitazioni in salita Di Negro e, vista la concitazione del momento e l’inarrestabile foga con la quale gli squadristi si stavano scagliando anche verso le abitazioni delle personalità più vicine ai movimenti antifascisti, decideva con Tito Rosina di allontanarsi dal centro a bordo di un taxi, per passare la notte nella casa di campagna dell’amico, nell’immediato entroterra, e ripartire in treno per Milano la mattina del 1° novembre.
Ospitato nel capoluogo lombardo dai cugini Vismara, Ansaldo, allarmato dalle notizie provenienti da Genova, dove la sua casa aveva ricevuto la poco gradita visita di una squadra fascista che aveva rovistato tra le sue carte senza però abbandonarsi a più gravi devastazioni, contattò rapidamente le personalità dell’antifascismo militante con le quali era da tempo in stretti rapporti epistolari in virtù della comune partecipazione ai movimenti intellettuali e politici che avevano fino a quel momento avversato il regime. Fu in particolare la casa di Carlo Rosselli e della sua giovane sposa inglese Marion Cave, all’ultimo piano di via Borghetto 5, divenuta uno dei centri di maggiore fermento nell’organizzazione degli espatri degli uomini più esposti al pericolo di rappresaglie o dell’arresto, a costituire il più concreto punto di riferimento nell’elaborazione del suo piano di fuga, mirato a raggiungere Parigi e svolgere nella capitale francese la sua attività di giornalista, evitando però di prendere parte alla lotta antifascista promossa dai fuorusciti.
Il rapporto con i fratelli Rosselli, e in particolare con Carlo più che con il meno intransigente Nello, assassinati a Bagnoles-de-l’Orne il 9 giugno 1937, meriterebbe senza dubbio una trattazione più approfondita, tanto questo pare segnare in maniera incontrovertibile e con tappe ben riconoscibili il percorso di Ansaldo dall’antifascismo al fascismo, in direzione antitetica rispetto all’evoluzione osservata nel binomio Ansaldo-Prezzolini. Conosciuto a Roma nel 1924 e ritrovato a Genova nel biennio 1925-1926, all’epoca del suo incarico di insegnamento in Economia aziendale presso la Scuola Superiore di Commercio, Carlo Rosselli sarebbe diventato per Ansaldo, una volta penetrato a fondo nella conoscenza dell’uomo nel periodo della “clandestinità” e nelle vicissitudini successive nel carcere di Como, il vero paradigma delle tare dell’antifascismo militante <44. Già dalla lettura delle memorie, redatte al suo ritorno a Genova, traspare infatti un giudizio di fondo che, premessa la stima per il suo rigore ideologico e morale, riconosce in Rosselli il prototipo psicologico di un contegno troppo incline all’arrivismo e al fanatismo, davvero poco conciliabile con la sua concezione della vita politica: "Chiesi al Rosselli perché non espatriava anche lui. Ma il Rosselli, organizzatore animoso di espatri altrui, non ci pensava. Egli, finché era possibile, diceva, voleva restare in Italia; restare, per organizzare qualcosa, per resistere ancora, per mantenere contatti dall’interno coll’estero, eccetera. Il Rosselli, in realtà, guidato dal suo istinto politico, aveva molto bene compreso che il fuoriuscitismo era un «ramo secco», e che ogni fuoruscito sarebbe stato un uomo politicamente morto; perciò egli non intendeva minimamente fuoruscire, e preferiva vessazioni e confino, in Italia; e d’altra parte, incitava quanta più gente poteva ad espatriare, un po’ per accrescere lo scandalo pubblico, la rabbia dei potenti, la esasperazione generale, e un po’ - diciamo tutto - per levarsi di torno concorrenti o predecessori, pesi morti della politica di opposizione, com’egli la intendeva" <45.
L’attesa, consumata con ansia crescente, fu premiata solo alla fine del mese di novembre, vista la priorità pretesa dalla fuga di Claudio Treves e Giuseppe Saragat, che il 20 novembre partirono alla volta di Lugano, e soprattutto dal tentativo di far espatriare Filippo Turati, allontanato dalla sua casa di Piazza Duomo il 24 novembre (la celebre fuga in motoscafo da Savona verso le coste della Corsica, effettuata con il contributo di Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini - per citare solo i nomi più noti - si sarebbe svolta dopo diverse peripezie soltanto il 12 dicembre): la mattina di domenica 28 novembre insieme a Carlo Silvestri, giornalista del «Corriere della Sera» parimenti intenzionato a espatriare, e sotto la guida di Riccardo Bauer, Ansaldo fu trasportato a bordo di un’auto in direzione di Como, dove, attraverso la Val d’Intelvi, avrebbe dovuto attraversare la frontiera e prendere la via della Svizzera. Vittime di una soffiata, fermati a un posto di blocco della polizia stradale nei pressi di Argegno, i fuggiaschi subirono un breve interrogatorio e furono immediatamente tradotti nel carcere «San Donnino» di Como, dove Ansaldo e Bauer sarebbero rimasti fino alla concessione della libertà provvisoria il 9 aprile 1927.
Riassaporata dopo alcuni mesi una libertà destinata a rivelarsi solo momentanea, Ansaldo si precipitò a Genova per curare con maggiore tranquillità la propria difesa giudiziaria affidata alla tutela dell’avvocato Pier Francesco Erizzo, che qualche mese più tardi avrebbe assistito gli imputati del processo di Savona. Ma fece appena in tempo a ricevere, il 28 aprile, l’offerta di Lodovico Calda - il quale, dopo mesi di lunghe ed estenuanti trattative, rientrava da un recente colloquio con Mussolini con in tasca la possibilità di riprendere le sospese pubblicazioni del «Lavoro» a partire dal 5 maggio 1927 <46 - di tornare in salita Di Negro, che il 1° maggio la condanna al confino già piombava sul suo capo. Dopo una notte trascorsa nella Torre di Palazzo Ducale e un paio di settimane passate nel carcere di Marassi, Ansaldo fu spedito nell’isola di Lipari con la previsione di trascorrervi i successivi cinque anni della sua vita.
Partito da Genova il 18 maggio e giunto sull’isola siciliana dopo tre giorni e una breve sosta nel carcere di Milazzo, Ansaldo si ambientò subito a Lipari dove, adeguandosi alla convivenza con un campionario di casi umani diversissimi tra loro, ritrovò o conobbe per la prima volta molti oppositori del regime, raramente provenienti dalle file dell’intellettualità borghese, più spesso militanti di livello intermedio dei partiti socialista e comunista: osservandoli da vicino, e notando come, accanto a rari esempi di specchiata moralità, molti di questi si distinguessero per la stessa ignoranza, la stessa grettezza che caratterizzava le esibizioni dei fascisti conosciuti dall’altra parte della barricata, cominciò a covare un crescente fastidio per la compagnia in cui si era cacciato <47.
Tuttavia, al di là di questa repulsione epidermica, fu un lungo periodo di riflessione personale a indurre Ansaldo a disconoscere le ragioni della lotta antifascista e rientrare nei ranghi dell’ordine borghese al quale peraltro non aveva mai smesso di ispirare le proprie azioni. La consolazione di nuove ed entusiasmanti letture, avidamente compulsate nel corso dell’estate, rese certamente più tollerabile la permanenza al confino, ma non gli impedì di tentare tutti i possibili passi per arrivare alla revoca di un provvedimento che, a conti fatti, lo costringeva a espiare per un ideale in cui non era più disposto a credere. Attraverso il suo legale e grazie al costante supporto delle sorelle, Ansaldo cercò di perorare la sua causa presso le gerarchie e finì per stendere una vera e propria retractatio della sua condotta anteriore al 1926, promettendo quel deciso mutamento di indirizzo che, dentro di sé, aveva ormai già maturato.
Nel ricorso stilato in data 9 giugno 1927, a completamento di quello da poco presentato dal suo avvocato e indirizzato alla Commissione Centrale per le Assegnazioni al Confino presso il Ministero dell’Interno, Ansaldo cercava anzitutto di presentare in una chiave del tutto slegata dall’azione diretta dei partiti politici la sua precedente attività pubblicistica al «Lavoro» e alla «Stampa», motivando il suo allontanamento da Genova con il timore di possibili violenze; richiamando l’attenzione della commissione sulle nobili ascendenze del suo cognome, il giornalista si impegnava formalmente con le autorità sulla sua condotta futura: "Prima di chiudere questo mio ricorso, mi siano consentite due precise considerazioni. E cioè: la prima, che io sottoscritto, riconoscendo il Fascismo come fatto compiuto, assumo impegno di non combatterlo più in alcun modo, anzi di non occuparmi più affatto di politica, come ho esposto aver già fatto negli ultimi due anni; la seconda, che mi obbligo a non tentare in alcun modo di uscire dal Regno, senza permesso dell’autorità. Queste due dichiarazioni non sono frutto di un calcolo recente, fatto per l’opportunità del presente ricorso; ma sono le conseguenze, da me facilmente accettate, di quanto ho esposto fin qui" <48.
Trascorsi poco più di due mesi dal suo arrivo sull’isola, il 10 agosto 1927 Ansaldo lasciava Lipari con in tasca il provvedimento di libertà condizionale; il 5 agosto (ma Ansaldo avrebbe ricevuto la relativa notifica soltanto il 7 settembre, a soli due giorni dall’apertura presso il Tribunale di Savona del processo per l’espatrio di Turati), il Tribunale di Como aveva predisposto la sua assoluzione dall’accusa di tentato espatrio clandestino politico per «mancanza del tentativo». Tra i numerosi interessamenti, millantati o effettivamente esercitati, che portarono a una così repentina archiviazione del suo caso, Ansaldo individuerà l’intervento decisivo nel meno altisonante tra quelli possibili: pare infatti che il ruolo di deus ex machina fosse da attribuire a un suo vecchio amico e compagno di università, Mario Bassanelli, un gerarca fascista di sottordine originario della provincia di Bergamo, che aveva chiesto la sua liberazione a Giacomo Suardo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e al Ministero dell’Interno, e suo diretto superiore nel partito, in cambio di alcuni servigi prestati in favore della causa del regime.
Le vicissitudini posteriori al rientro a Genova restano forse una delle zone d’ombra più difficili da illuminare nella biografia di Ansaldo, specialmente se si voglia prendere in esame il suo caso sotto il profilo prettamente bibliografico. Di certo, al suo ritorno da Lipari egli trovava un panorama giornalistico completamente rivoluzionato rispetto a quando, poco meno di un anno prima, lo aveva abbandonato. Riportato in vita il 5 maggio 1927, anche «Il Lavoro» era stato costretto a inserirsi nell’alveo della politica governativa, esordendo con un articolo programmatico steso da Giuseppe Canepa, nel quale, pur riconoscendo il ruolo peculiare del quotidiano genovese tra gli organi di stampa nazionali, si prendeva atto, analogamente a quanto avrebbe fatto qualche mese dopo Ansaldo nel suo ricorso, della definitiva vittoria del regime fascista e dell’annientamento di ogni forma di opposizione <49.
Difficile per Calda, che pure avrebbe ottenuto già nel 1929 il reinserimento di Ansaldo nell’Albo dei giornalisti <50, tentare di riportare in redazione un elemento reduce dal confino e strenuo avversario del regime fino a tutto il 1925; per l’ex redattore capo, invece, nonostante i rapporti non più idilliaci con molti dei dirigenti del suo vecchio giornale, «Il Lavoro» doveva comunque apparire una soluzione quasi obbligata, dopo che anche «La Stampa», con la cessione della proprietà editoriale da Alfredo Frassati a Giovanni Agnelli e l’assunzione alla direzione di Andrea Torre, poteva considerarsi, seppur su posizioni non estremistiche, un giornale compiutamente “fascistizzato”.
Prima di riprendere il proprio posto nel quotidiano che lo aveva visto affacciarsi al giornalismo nel 1919, Ansaldo approfittò del periodo di inattività seguito al ritorno a casa per fissare la sua esperienza personale in un manoscritto, aperto dal titolo "Memorie del periodo di mia vita comprendente il soggiorno a Milano, la prigione e il confino (31 ottobre 1926-8 settembre 1927)", che soltanto molti decenni più tardi avrebbe conosciuto la pubblicazione a cura di Marcello Staglieno e con il titolo "L’antifascista riluttante. Memorie dal carcere e dal confino": nella precisa ricostruzione condotta dallo studioso si ipotizza che la stesura del testo sia stata infatti portata a termine tra il settembre 1927 e l’aprile 1928. Meno agevole appare ristabilire con esattezza le effettive modalità del suo rientro in redazione: sebbene siano individuabili diversi articoli di carattere storico e culturale pubblicati tra la fine del 1927 e l’inizio del 1928 che lascerebbero pensare al caratteristico stile di Ansaldo, si può far risalire con un certo margine di sicurezza la costante ripresa dell’apparizione dei suoi scritti sul «Lavoro» al 24 giugno 1928, data in cui si pubblicano due anonimi ritratti - quello del capo della frazione socialdemocratica del Reichstag Hermann Müller e quello del poeta tedesco Stefan George - inseriti all’interno della rubrica "Figure del giorno", che da quel momento in poi divenne la sede privilegiata dei testi redatti dal giornalista.
Si tratta perlopiù di brevissime note, quasi mai superiori alla mezza colonna, nelle quali erano tratteggiati i profili biografici di personalità del mondo politico, nella stragrande maggioranza dei casi straniere, salite agli onori delle cronache nei più recenti avvenimenti di attualità. Considerata indubbia la paternità della rubrica, tutti gli scritti inseriti al suo interno a partire da questa data, seppure mai firmati o siglati, sono stati annoverati nella presente bibliografia, fatto salvo per quelli, rari, esplicitamente redatti da altri e riconoscibili per le sigle che vi appaiono in calce. Per quanto concerne i contenuti, la rubrica si discostava di rado da una linea meramente didascalica, e il suo valore è percepibile soprattutto nell’elevato grado di conoscenza del panorama giornalistico internazionale che ne traspare: erano infatti gli organi della stampa estera, che Ansaldo sfogliava con curiosità e profitto grazie alla sua perfetta conoscenza del tedesco, del francese e dell’inglese, a fornire ininterrotti spunti di riflessione, mentre l’elaborazione dei dati biografici veniva sorretta dall’inesauribile serbatoio di notizie scaturito dai cassetti di un aggiornatissimo schedario. Apparentemente meno caratterizzate dall’impronta stilistica del giornalista rispetto ad altre rubriche successive, le "Figure del giorno" che valga la pena di ricordare non paiono moltissime, ad eccezione di quella dedicata a Lando Ferretti <51, una delle prime circostanze in cui Ansaldo si espone nell’aperto elogio di un gerarca in occasione della sua nomina a capo dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio, e, sul versante letterario, di quella pubblicata a soli cinque giorni dalla morte di Italo Svevo, che nel catalogo allestito in occasione di una mostra dedicata allo scrittore triestino inaugurata a Firenze presso Palazzo Strozzi il 3 febbraio 1979, venne improvvidamente attribuita nientemeno che a Eugenio Montale <52.
Bisognerà attendere il giorno del decimo anniversario della vittoria nella Prima guerra mondiale, il 4 novembre 1928, per vedere la «Stella Nera» di Ansaldo risplendere anche sulle pagine del «Lavoro» - perché la primissima adozione di quell’inconfondibile marchio tipografico risaliva alla collaborazione con «La Stampa» -, dalle cui colonne si sarebbe affermata fino a diventare il simbolo di un appuntamento pressoché quotidiano per i lettori del giornale genovese. In "L’annuncio sul mare", per certi versi così simile agli scritti “marinari” pubblicati sul giornale di Alfredo Frassati in memoria del padre nel 1926, si nota, tuttavia, una profonda mutazione di senso nell’impostazione ideologica dell’articolo: il motivo degli emigranti in cerca di fortuna negli Stati Uniti non corrisponde più a una parallela denigrazione dell’ingratitudine del paese di origine, ma si fonde con l’orgoglio, da cui gli occupanti della nave di ogni estrazione sociale si sentono pervasi al momento dell’annuncio radiofonico della vittoria, di appartenere alla nazione che ha appena sconfitto l’impero austroungarico <53.
La maggiore condiscendenza verso la retorica bellica del regime, impensabile negli anni precedenti al confino, si sarebbe da quel momento in poi progressivamente accentuata, venendo a costituire uno dei cardini del pensiero di Ansaldo negli anni Trenta.
[NOTE]
43 L’antifascista riluttante, cit., pp. 254-255.
44 Spostandoci poco oltre il discrimine cronologico della prigionia e del confino, con il quale entrambi, seppur in diversa misura, dovettero fare i conti, troviamo un primo punto di attrito già a partire dall’opportunità per Ansaldo di tornare a scrivere sul «Lavoro»: «Ho sentito dire che forse con l’anno nuovo ti rileggeremo in Terza pagina, argomento letterario. Lasciami credere che la voce non sia esatta e che invece Tu sia ben radicato nel proposito comasco: silenzio per un biennio. Non riesco a immaginare quali possano essere stati gli argomenti da indurti a un tale capovolgimento. […] Per lettera e con così monche informazioni non si può evidentemente discutere. Si può solo permettersi di dire in anticipo la propria impressione nella speranza - vorrei dire la certezza - che l’interessato si convinca che viene da un sincerissimo amico che ha lungamente riflettuto sulla questione. Oggi non ci sono garanzie che tengano. Rientrati con tutti gli onori a bandiera spiegata c’è da vedersi licenziati come serve al primo incidente! E allora la liquidazione è melanconica e umiliante. Ti offendi se ti chiedo a nomi di molti che Ti vogliono bene di ripensarci ancora?» (lettera di Carlo Rosselli a Ansaldo del 20 dicembre 1927, parzialmente riprodotta in Marcello Staglieno, Un conservatore tra fascismo e antifascismo, cit., p. 90, nota 144). Ansaldo non solo ignorerà il suggerimento di Rosselli - che pur ben conoscendo le peculiarità dell’antifascismo del giornalista genovese gli aveva prospettato, durante la comune permanenza nel carcere di Como, l’impossibilità di mutare la sua posizione politica nei confronti del fascismo data la sua ormai conclamata compromissione -, ma si avvicinerà sempre di più alle posizioni del regime giungendo alla fine del 1935 ad appoggiare apertamente la guerra etiopica: Rosselli, in risposta a un passaggio dell’articolo "Il sinedrio e l’Italia" apparso sul «Lavoro» il 15 settembre 1935, gli avrebbe allora indirizzato una nota anonima significativamente intitolata "Osceno Ansaldo" (in «Giustizia e Libertà», II, 38, 20 settembre 1935, p. 1), nella quale la figura del vecchio compagno di militanza, un anno esatto prima dell’assunzione della direzione del «Telegrafo», era assurta a simbolo dell’abiezione morale della borghesia italiana. Poca commozione mostrò Ansaldo nel commentare
l’assassinio dei fratelli Carlo e Nello, al quale probabilmente non fu estraneo Galeazzo Ciano, redigendo un pezzo anonimo in cui attribuiva le responsabilità dell’accaduto a un regolamento di conti interno al gruppo dei fuorusciti ("Il fuoruscito Carlo Rosselli e suo fratello Nello trovati trucidati a pugnalate in un bosco dell’Orne", in «Il Telegrafo», LX, 139, 12 giugno 1937, p. 1). Nemmeno nel dopoguerra Ansaldo riuscì a liberarsi dell’ombra di Rosselli, fonte di un costante rovello morale, tanto da riferirsi a lui in più di una circostanza: ricordando la fuga di Turati da Milano ("Quando Turati partì", in «Il Tempo di Milano», III, 240, 10 ottobre 1948, p. 3), insisteva sul ruolo del militante antifascista e sulla sua ambizione nel portare a termine l’impresa per diventare il punto di riferimento dell’opposizione in Italia; due anni più tardi avrebbe attirato su di sé le ire di Amalia Rosselli, madre dei due fratelli, in seguito alla pubblicazione di un articolo nel quale esibiva un “blasfemo” paragone tra Carlo e l’amico di gioventù Jean Luchaire, giustiziato in Francia per collaborazionismo il 22 febbraio 1946 ("I fantasmi dei Luchaire", in «Il Tempo», VII, 26, 26 gennaio 1950, p. 3, ora, con lievi modifiche, in "Il mare e l’ulivo. Racconti dalla Toscana", prefazione di Giuseppe Marcenaro, Livorno, Debatte, 2010, pp. 61-65).
45 L’antifascista riluttante, cit., pp. 119-120.
46 Oggetto di ricostruzioni numerose e non del tutto omologhe, le trattative per il ritorno alle pubblicazioni del «Lavoro» si sono ammantate di mistero soprattutto in merito alle ragioni che spinsero Mussolini a concedere il suo consenso. Sul caso si è soffermato in particolar modo Umberto Vittorio Cavassa che, in due articoli pubblicati all’inizio del 1971, ha riprodotto alcune lettere del carteggio tra Calda e Mussolini (“Caro Mussolini…”, in «Il Secolo XIX», LXXXIV, 25, 30 gennaio 1971, p. 3; "E il duce obbediva", in «Il Secolo XIX», LXXXIV, 37, 13 febbraio 1971, p. 3). Paolo Murialdi (Col «Lavoro» Mussolini disse basta soltanto alla vigilia della guerra. Testimonianze inedite sulla cessione del quotidiano genovese ai sindacati fascisti, in «Problemi dell’informazione», XVII, 1, gennaio-marzo 1992, pp. 115-133), ha spiegato l’avvenimento facendo riferimento all’«opportunità di conservare buoni rapporti con quella frangia del sindacalismo riformista che non era del tutto ostile al fascismo e ai suoi disegni corporativi» e alla «battaglia interventista del 1915» che aveva visto il giornale di Canepa schierarsi sulle posizioni del «Popolo d’Italia» (p. 115). Così invece la racconta Ansaldo: «Calda solo, con tenacia e accortezza di cui non lo avrei ritenuto capace, si accinse all’opera, nientemeno, che di far risorgere il “Lavoro”. Come addentellato, egli si valse delle sue antiche relazioni amichevoli con Mussolini, risalenti all’epoca del crimine interventista, perpetrato in comune, e del fatto che mai, in cinque anni, egli aveva assunto un atteggiamento nemico ad personam. Andò a Roma e si accordò col Rigola e coi Confederali; da questi accordi doveva uscire, ed uscì, appunto la mozione dei Confederali, portata per un giorno al posto d’onore dai giornali del regime […]. Il Calda fu ricevuto due volte da Mussolini. Una, pochi giorni dopo l’attentato. In questo colloquio, le accoglienze furono dapprima violente, quasi; però fu data la promessa di lasciar ripubblicare il giornale. Nell’inverno, il Calda si dimenò più che poté a Roma, nelle anticamere dei ministeri, da Suardo, da Bocchini, tutto pieno di una vanità ben dissimulata sotto la schiettezza “operaistica”, per essere ricevuto così in altre sedi; intanto Bordiga, a Genova, cercava di rimettere insieme un “minimum” di tipografia, per poter
riprendere. Quando? La data era ancora incerta al mio ritorno a Genova. Verso la metà di aprile, Calda fu di nuovo ricevuto. L’esordio fu questo: “Ti ho promesso che il giornale uscirà, e mantengo la promessa”. Venuta la questione del “quando”, Mussolini decretò che il giornale sarebbe uscito dopo il suo discorso alla Camera; quel discorso che fu poi detto dell’Ascensione. […] Si parlò poi del programma e dell’azione del giornale. La “linea”, quella della mozione confederale; critica, anche, ma nel sistema del regime, accettato come presupposto» (L’antifascista riluttante, cit., p. 255).
47 Rimane celebre la breve descrizione del confino che Montanelli raccolse da Ansaldo e ricordò in occasione dell’articolo dedicato alla scomparsa del collega: «Era un martirio all’italiana, il confino. Vitto e alloggio gratis, e anche un piccolo stipendio per compensarci della fatica di parlar male del duce che non ce ne lesinava i pretesti. Io mi ci sarei trovato benissimo, se non fosse stato pieno di antifascisti. Li sopportai per alcuni mesi. Poi un giorno li adunai e gli dissi che, ora che li avevo conosciuti, non mi restava che rivolgere domanda di grazia al fascismo e mettermi ai suoi ordini» (Indro Montanelli, "Ricordo di Ansaldo", in «Corriere della Sera», XCIV, 203, 2 settembre 1969, p. 3).
48 L’antifascista riluttante, cit., p. 412.
49 È importante ricordare il passaggio delle memorie nel quale si espone la storia compositiva dell’editoriale di Canepa, un testo sul quale si sarebbe basata la futura condotta politica del «Lavoro»; la linea di compromesso con il regime che vi si tracciava, da quel momento in poi sotterraneamente combattuta dal direttore, sarà invece assunta e portata alle estreme conseguenze da Ansaldo: «Appena Calda ebbe fissati i “capisaldi” col principale, prese il treno e andò a Diano; e là espose il concluso a Canepa, e gli chiese a faccia franca di stendere l’articolo programmatico. E l’altro - a faccia ancor più franca di lui - gli stese il programma, currenti calamo; non solo, ma un altro articolo sul Cinque Maggio, che anch’esso uscì sul primo numero della nuova serie. Le bozze del programma scritto da Canepa furono poi sottoposte a revisione, in altissimo loco; furono dal “revisore supremo” corrette e modificate: dimodoché il “Lavoro”, nel primo numero, faceva le contorsioni sulla corda» (L’antifascista riluttante, cit., p. 257).
50 Il Regio Decreto n. 384 del 26 febbraio 1928 conteneva le norme per l’istituzione dell’albo professionale dei giornalisti, diviso in tre ordini (professionisti, praticanti e pubblicisti): non si poteva essere iscritti qualora si fosse ricevuta una condanna penale superiore a 5 anni; in caso di condanna inferiore l’iscrizione era a discrezione del comitato (in ogni caso era vietata l’iscrizione a chiunque avesse svolto un’attività contraria agli interessi della Nazione).
51 Lando Ferretti (rubrica "Figure del giorno"), in «Il Lavoro», XXVI, 215, 9 settembre 1928, p. 3.
52 Italo Svevo (rubrica "Figure del giorno"), in «Il Lavoro», XXVI, 222, 18 settembre 1928, p. 2. L’attribuzione dell’articolo a Montale nel catalogo della mostra fiorentina curato da Marco Marchi, trovò una pronta risposta in un articolo di Giorgio Zampa, "L’anonimo genovese", in «il Giornale nuovo», VI, 35, 11 febbraio 1979, p. 4, che ristabilì la paternità di Ansaldo testimoniando un certo disappunto del poeta per il fraintendimento (sulla vicenda si veda anche t.[ullio] ci.[cciarelli], "E Montale disse quell’articolo l’avrà scritto lei", in «Il Lavoro», LXXVII, 48, 27 febbraio 1979, p. 3, dove si ripubblica anche la puntata incriminata della rubrica "Figure del giorno"). È curioso notare come un altro degli equivoci che permangono nelle vicissitudini “postume” di un rapporto mai decollato (a partire da quando, nel 1925, Ansaldo cestinò la recensione redatta da Emilio Servadio alla raccolta d’esordio del poeta genovese che pure figurava tra i collaboratori della terza pagina del «Lavoro») riguarda il "Calendarietto", siglato Stella Nera [n.d..r.: vedere simbolo in calce a presente articolo], Due ombre, in «Il Lavoro», XXIX, 110, 9 maggio 1931, p. 3 (ora in "Vecchie zie e altri mostri", cit., pp. 385-388), dedicato a Remigio Zena e Giovanni Verga: il testo, infatti, è attribuito a Montale sia nella "Bibliografia montaliana" (Milano, Mondadori, 1977) di Laura Barile, sia in "Il secondo mestiere. Prose 1920-1979", a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, t. I, dove è ristampato alle pp. 440-443.
53 Stella Nera [n.d..r.: vedere simbolo in calce a presente articolo], "L’annuncio sul mare", in «Il Lavoro», XXVI, 263, 4 novembre 1928, pp. 1-2.
Diego Divano, Bibliografia degli scritti di Giovanni Ansaldo (1913-2012), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2010/2011
Rientrato [n.d.r.: a Genova] da Alessandria in treno e recatosi alla biblioteca della Società di Letture e Conversazioni Scientifiche, Giovanni Ansaldo, che pure al «Lavoro» era ufficialmente sprovvisto di un impiego già da un anno esatto, riceveva la notizia delle agitazioni in salita Di Negro e, vista la concitazione del momento e l’inarrestabile foga con la quale gli squadristi si stavano scagliando anche verso le abitazioni delle personalità più vicine ai movimenti antifascisti, decideva con Tito Rosina di allontanarsi dal centro a bordo di un taxi, per passare la notte nella casa di campagna dell’amico, nell’immediato entroterra, e ripartire in treno per Milano la mattina del 1° novembre.
Ospitato nel capoluogo lombardo dai cugini Vismara, Ansaldo, allarmato dalle notizie provenienti da Genova, dove la sua casa aveva ricevuto la poco gradita visita di una squadra fascista che aveva rovistato tra le sue carte senza però abbandonarsi a più gravi devastazioni, contattò rapidamente le personalità dell’antifascismo militante con le quali era da tempo in stretti rapporti epistolari in virtù della comune partecipazione ai movimenti intellettuali e politici che avevano fino a quel momento avversato il regime. Fu in particolare la casa di Carlo Rosselli e della sua giovane sposa inglese Marion Cave, all’ultimo piano di via Borghetto 5, divenuta uno dei centri di maggiore fermento nell’organizzazione degli espatri degli uomini più esposti al pericolo di rappresaglie o dell’arresto, a costituire il più concreto punto di riferimento nell’elaborazione del suo piano di fuga, mirato a raggiungere Parigi e svolgere nella capitale francese la sua attività di giornalista, evitando però di prendere parte alla lotta antifascista promossa dai fuorusciti.
Il rapporto con i fratelli Rosselli, e in particolare con Carlo più che con il meno intransigente Nello, assassinati a Bagnoles-de-l’Orne il 9 giugno 1937, meriterebbe senza dubbio una trattazione più approfondita, tanto questo pare segnare in maniera incontrovertibile e con tappe ben riconoscibili il percorso di Ansaldo dall’antifascismo al fascismo, in direzione antitetica rispetto all’evoluzione osservata nel binomio Ansaldo-Prezzolini. Conosciuto a Roma nel 1924 e ritrovato a Genova nel biennio 1925-1926, all’epoca del suo incarico di insegnamento in Economia aziendale presso la Scuola Superiore di Commercio, Carlo Rosselli sarebbe diventato per Ansaldo, una volta penetrato a fondo nella conoscenza dell’uomo nel periodo della “clandestinità” e nelle vicissitudini successive nel carcere di Como, il vero paradigma delle tare dell’antifascismo militante <44. Già dalla lettura delle memorie, redatte al suo ritorno a Genova, traspare infatti un giudizio di fondo che, premessa la stima per il suo rigore ideologico e morale, riconosce in Rosselli il prototipo psicologico di un contegno troppo incline all’arrivismo e al fanatismo, davvero poco conciliabile con la sua concezione della vita politica: "Chiesi al Rosselli perché non espatriava anche lui. Ma il Rosselli, organizzatore animoso di espatri altrui, non ci pensava. Egli, finché era possibile, diceva, voleva restare in Italia; restare, per organizzare qualcosa, per resistere ancora, per mantenere contatti dall’interno coll’estero, eccetera. Il Rosselli, in realtà, guidato dal suo istinto politico, aveva molto bene compreso che il fuoriuscitismo era un «ramo secco», e che ogni fuoruscito sarebbe stato un uomo politicamente morto; perciò egli non intendeva minimamente fuoruscire, e preferiva vessazioni e confino, in Italia; e d’altra parte, incitava quanta più gente poteva ad espatriare, un po’ per accrescere lo scandalo pubblico, la rabbia dei potenti, la esasperazione generale, e un po’ - diciamo tutto - per levarsi di torno concorrenti o predecessori, pesi morti della politica di opposizione, com’egli la intendeva" <45.
L’attesa, consumata con ansia crescente, fu premiata solo alla fine del mese di novembre, vista la priorità pretesa dalla fuga di Claudio Treves e Giuseppe Saragat, che il 20 novembre partirono alla volta di Lugano, e soprattutto dal tentativo di far espatriare Filippo Turati, allontanato dalla sua casa di Piazza Duomo il 24 novembre (la celebre fuga in motoscafo da Savona verso le coste della Corsica, effettuata con il contributo di Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini - per citare solo i nomi più noti - si sarebbe svolta dopo diverse peripezie soltanto il 12 dicembre): la mattina di domenica 28 novembre insieme a Carlo Silvestri, giornalista del «Corriere della Sera» parimenti intenzionato a espatriare, e sotto la guida di Riccardo Bauer, Ansaldo fu trasportato a bordo di un’auto in direzione di Como, dove, attraverso la Val d’Intelvi, avrebbe dovuto attraversare la frontiera e prendere la via della Svizzera. Vittime di una soffiata, fermati a un posto di blocco della polizia stradale nei pressi di Argegno, i fuggiaschi subirono un breve interrogatorio e furono immediatamente tradotti nel carcere «San Donnino» di Como, dove Ansaldo e Bauer sarebbero rimasti fino alla concessione della libertà provvisoria il 9 aprile 1927.
Riassaporata dopo alcuni mesi una libertà destinata a rivelarsi solo momentanea, Ansaldo si precipitò a Genova per curare con maggiore tranquillità la propria difesa giudiziaria affidata alla tutela dell’avvocato Pier Francesco Erizzo, che qualche mese più tardi avrebbe assistito gli imputati del processo di Savona. Ma fece appena in tempo a ricevere, il 28 aprile, l’offerta di Lodovico Calda - il quale, dopo mesi di lunghe ed estenuanti trattative, rientrava da un recente colloquio con Mussolini con in tasca la possibilità di riprendere le sospese pubblicazioni del «Lavoro» a partire dal 5 maggio 1927 <46 - di tornare in salita Di Negro, che il 1° maggio la condanna al confino già piombava sul suo capo. Dopo una notte trascorsa nella Torre di Palazzo Ducale e un paio di settimane passate nel carcere di Marassi, Ansaldo fu spedito nell’isola di Lipari con la previsione di trascorrervi i successivi cinque anni della sua vita.
Partito da Genova il 18 maggio e giunto sull’isola siciliana dopo tre giorni e una breve sosta nel carcere di Milazzo, Ansaldo si ambientò subito a Lipari dove, adeguandosi alla convivenza con un campionario di casi umani diversissimi tra loro, ritrovò o conobbe per la prima volta molti oppositori del regime, raramente provenienti dalle file dell’intellettualità borghese, più spesso militanti di livello intermedio dei partiti socialista e comunista: osservandoli da vicino, e notando come, accanto a rari esempi di specchiata moralità, molti di questi si distinguessero per la stessa ignoranza, la stessa grettezza che caratterizzava le esibizioni dei fascisti conosciuti dall’altra parte della barricata, cominciò a covare un crescente fastidio per la compagnia in cui si era cacciato <47.
Tuttavia, al di là di questa repulsione epidermica, fu un lungo periodo di riflessione personale a indurre Ansaldo a disconoscere le ragioni della lotta antifascista e rientrare nei ranghi dell’ordine borghese al quale peraltro non aveva mai smesso di ispirare le proprie azioni. La consolazione di nuove ed entusiasmanti letture, avidamente compulsate nel corso dell’estate, rese certamente più tollerabile la permanenza al confino, ma non gli impedì di tentare tutti i possibili passi per arrivare alla revoca di un provvedimento che, a conti fatti, lo costringeva a espiare per un ideale in cui non era più disposto a credere. Attraverso il suo legale e grazie al costante supporto delle sorelle, Ansaldo cercò di perorare la sua causa presso le gerarchie e finì per stendere una vera e propria retractatio della sua condotta anteriore al 1926, promettendo quel deciso mutamento di indirizzo che, dentro di sé, aveva ormai già maturato.
Nel ricorso stilato in data 9 giugno 1927, a completamento di quello da poco presentato dal suo avvocato e indirizzato alla Commissione Centrale per le Assegnazioni al Confino presso il Ministero dell’Interno, Ansaldo cercava anzitutto di presentare in una chiave del tutto slegata dall’azione diretta dei partiti politici la sua precedente attività pubblicistica al «Lavoro» e alla «Stampa», motivando il suo allontanamento da Genova con il timore di possibili violenze; richiamando l’attenzione della commissione sulle nobili ascendenze del suo cognome, il giornalista si impegnava formalmente con le autorità sulla sua condotta futura: "Prima di chiudere questo mio ricorso, mi siano consentite due precise considerazioni. E cioè: la prima, che io sottoscritto, riconoscendo il Fascismo come fatto compiuto, assumo impegno di non combatterlo più in alcun modo, anzi di non occuparmi più affatto di politica, come ho esposto aver già fatto negli ultimi due anni; la seconda, che mi obbligo a non tentare in alcun modo di uscire dal Regno, senza permesso dell’autorità. Queste due dichiarazioni non sono frutto di un calcolo recente, fatto per l’opportunità del presente ricorso; ma sono le conseguenze, da me facilmente accettate, di quanto ho esposto fin qui" <48.
Trascorsi poco più di due mesi dal suo arrivo sull’isola, il 10 agosto 1927 Ansaldo lasciava Lipari con in tasca il provvedimento di libertà condizionale; il 5 agosto (ma Ansaldo avrebbe ricevuto la relativa notifica soltanto il 7 settembre, a soli due giorni dall’apertura presso il Tribunale di Savona del processo per l’espatrio di Turati), il Tribunale di Como aveva predisposto la sua assoluzione dall’accusa di tentato espatrio clandestino politico per «mancanza del tentativo». Tra i numerosi interessamenti, millantati o effettivamente esercitati, che portarono a una così repentina archiviazione del suo caso, Ansaldo individuerà l’intervento decisivo nel meno altisonante tra quelli possibili: pare infatti che il ruolo di deus ex machina fosse da attribuire a un suo vecchio amico e compagno di università, Mario Bassanelli, un gerarca fascista di sottordine originario della provincia di Bergamo, che aveva chiesto la sua liberazione a Giacomo Suardo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e al Ministero dell’Interno, e suo diretto superiore nel partito, in cambio di alcuni servigi prestati in favore della causa del regime.
Le vicissitudini posteriori al rientro a Genova restano forse una delle zone d’ombra più difficili da illuminare nella biografia di Ansaldo, specialmente se si voglia prendere in esame il suo caso sotto il profilo prettamente bibliografico. Di certo, al suo ritorno da Lipari egli trovava un panorama giornalistico completamente rivoluzionato rispetto a quando, poco meno di un anno prima, lo aveva abbandonato. Riportato in vita il 5 maggio 1927, anche «Il Lavoro» era stato costretto a inserirsi nell’alveo della politica governativa, esordendo con un articolo programmatico steso da Giuseppe Canepa, nel quale, pur riconoscendo il ruolo peculiare del quotidiano genovese tra gli organi di stampa nazionali, si prendeva atto, analogamente a quanto avrebbe fatto qualche mese dopo Ansaldo nel suo ricorso, della definitiva vittoria del regime fascista e dell’annientamento di ogni forma di opposizione <49.
Difficile per Calda, che pure avrebbe ottenuto già nel 1929 il reinserimento di Ansaldo nell’Albo dei giornalisti <50, tentare di riportare in redazione un elemento reduce dal confino e strenuo avversario del regime fino a tutto il 1925; per l’ex redattore capo, invece, nonostante i rapporti non più idilliaci con molti dei dirigenti del suo vecchio giornale, «Il Lavoro» doveva comunque apparire una soluzione quasi obbligata, dopo che anche «La Stampa», con la cessione della proprietà editoriale da Alfredo Frassati a Giovanni Agnelli e l’assunzione alla direzione di Andrea Torre, poteva considerarsi, seppur su posizioni non estremistiche, un giornale compiutamente “fascistizzato”.
Prima di riprendere il proprio posto nel quotidiano che lo aveva visto affacciarsi al giornalismo nel 1919, Ansaldo approfittò del periodo di inattività seguito al ritorno a casa per fissare la sua esperienza personale in un manoscritto, aperto dal titolo "Memorie del periodo di mia vita comprendente il soggiorno a Milano, la prigione e il confino (31 ottobre 1926-8 settembre 1927)", che soltanto molti decenni più tardi avrebbe conosciuto la pubblicazione a cura di Marcello Staglieno e con il titolo "L’antifascista riluttante. Memorie dal carcere e dal confino": nella precisa ricostruzione condotta dallo studioso si ipotizza che la stesura del testo sia stata infatti portata a termine tra il settembre 1927 e l’aprile 1928. Meno agevole appare ristabilire con esattezza le effettive modalità del suo rientro in redazione: sebbene siano individuabili diversi articoli di carattere storico e culturale pubblicati tra la fine del 1927 e l’inizio del 1928 che lascerebbero pensare al caratteristico stile di Ansaldo, si può far risalire con un certo margine di sicurezza la costante ripresa dell’apparizione dei suoi scritti sul «Lavoro» al 24 giugno 1928, data in cui si pubblicano due anonimi ritratti - quello del capo della frazione socialdemocratica del Reichstag Hermann Müller e quello del poeta tedesco Stefan George - inseriti all’interno della rubrica "Figure del giorno", che da quel momento in poi divenne la sede privilegiata dei testi redatti dal giornalista.
Si tratta perlopiù di brevissime note, quasi mai superiori alla mezza colonna, nelle quali erano tratteggiati i profili biografici di personalità del mondo politico, nella stragrande maggioranza dei casi straniere, salite agli onori delle cronache nei più recenti avvenimenti di attualità. Considerata indubbia la paternità della rubrica, tutti gli scritti inseriti al suo interno a partire da questa data, seppure mai firmati o siglati, sono stati annoverati nella presente bibliografia, fatto salvo per quelli, rari, esplicitamente redatti da altri e riconoscibili per le sigle che vi appaiono in calce. Per quanto concerne i contenuti, la rubrica si discostava di rado da una linea meramente didascalica, e il suo valore è percepibile soprattutto nell’elevato grado di conoscenza del panorama giornalistico internazionale che ne traspare: erano infatti gli organi della stampa estera, che Ansaldo sfogliava con curiosità e profitto grazie alla sua perfetta conoscenza del tedesco, del francese e dell’inglese, a fornire ininterrotti spunti di riflessione, mentre l’elaborazione dei dati biografici veniva sorretta dall’inesauribile serbatoio di notizie scaturito dai cassetti di un aggiornatissimo schedario. Apparentemente meno caratterizzate dall’impronta stilistica del giornalista rispetto ad altre rubriche successive, le "Figure del giorno" che valga la pena di ricordare non paiono moltissime, ad eccezione di quella dedicata a Lando Ferretti <51, una delle prime circostanze in cui Ansaldo si espone nell’aperto elogio di un gerarca in occasione della sua nomina a capo dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio, e, sul versante letterario, di quella pubblicata a soli cinque giorni dalla morte di Italo Svevo, che nel catalogo allestito in occasione di una mostra dedicata allo scrittore triestino inaugurata a Firenze presso Palazzo Strozzi il 3 febbraio 1979, venne improvvidamente attribuita nientemeno che a Eugenio Montale <52.
Bisognerà attendere il giorno del decimo anniversario della vittoria nella Prima guerra mondiale, il 4 novembre 1928, per vedere la «Stella Nera» di Ansaldo risplendere anche sulle pagine del «Lavoro» - perché la primissima adozione di quell’inconfondibile marchio tipografico risaliva alla collaborazione con «La Stampa» -, dalle cui colonne si sarebbe affermata fino a diventare il simbolo di un appuntamento pressoché quotidiano per i lettori del giornale genovese. In "L’annuncio sul mare", per certi versi così simile agli scritti “marinari” pubblicati sul giornale di Alfredo Frassati in memoria del padre nel 1926, si nota, tuttavia, una profonda mutazione di senso nell’impostazione ideologica dell’articolo: il motivo degli emigranti in cerca di fortuna negli Stati Uniti non corrisponde più a una parallela denigrazione dell’ingratitudine del paese di origine, ma si fonde con l’orgoglio, da cui gli occupanti della nave di ogni estrazione sociale si sentono pervasi al momento dell’annuncio radiofonico della vittoria, di appartenere alla nazione che ha appena sconfitto l’impero austroungarico <53.
La maggiore condiscendenza verso la retorica bellica del regime, impensabile negli anni precedenti al confino, si sarebbe da quel momento in poi progressivamente accentuata, venendo a costituire uno dei cardini del pensiero di Ansaldo negli anni Trenta.
[NOTE]
43 L’antifascista riluttante, cit., pp. 254-255.
44 Spostandoci poco oltre il discrimine cronologico della prigionia e del confino, con il quale entrambi, seppur in diversa misura, dovettero fare i conti, troviamo un primo punto di attrito già a partire dall’opportunità per Ansaldo di tornare a scrivere sul «Lavoro»: «Ho sentito dire che forse con l’anno nuovo ti rileggeremo in Terza pagina, argomento letterario. Lasciami credere che la voce non sia esatta e che invece Tu sia ben radicato nel proposito comasco: silenzio per un biennio. Non riesco a immaginare quali possano essere stati gli argomenti da indurti a un tale capovolgimento. […] Per lettera e con così monche informazioni non si può evidentemente discutere. Si può solo permettersi di dire in anticipo la propria impressione nella speranza - vorrei dire la certezza - che l’interessato si convinca che viene da un sincerissimo amico che ha lungamente riflettuto sulla questione. Oggi non ci sono garanzie che tengano. Rientrati con tutti gli onori a bandiera spiegata c’è da vedersi licenziati come serve al primo incidente! E allora la liquidazione è melanconica e umiliante. Ti offendi se ti chiedo a nomi di molti che Ti vogliono bene di ripensarci ancora?» (lettera di Carlo Rosselli a Ansaldo del 20 dicembre 1927, parzialmente riprodotta in Marcello Staglieno, Un conservatore tra fascismo e antifascismo, cit., p. 90, nota 144). Ansaldo non solo ignorerà il suggerimento di Rosselli - che pur ben conoscendo le peculiarità dell’antifascismo del giornalista genovese gli aveva prospettato, durante la comune permanenza nel carcere di Como, l’impossibilità di mutare la sua posizione politica nei confronti del fascismo data la sua ormai conclamata compromissione -, ma si avvicinerà sempre di più alle posizioni del regime giungendo alla fine del 1935 ad appoggiare apertamente la guerra etiopica: Rosselli, in risposta a un passaggio dell’articolo "Il sinedrio e l’Italia" apparso sul «Lavoro» il 15 settembre 1935, gli avrebbe allora indirizzato una nota anonima significativamente intitolata "Osceno Ansaldo" (in «Giustizia e Libertà», II, 38, 20 settembre 1935, p. 1), nella quale la figura del vecchio compagno di militanza, un anno esatto prima dell’assunzione della direzione del «Telegrafo», era assurta a simbolo dell’abiezione morale della borghesia italiana. Poca commozione mostrò Ansaldo nel commentare
l’assassinio dei fratelli Carlo e Nello, al quale probabilmente non fu estraneo Galeazzo Ciano, redigendo un pezzo anonimo in cui attribuiva le responsabilità dell’accaduto a un regolamento di conti interno al gruppo dei fuorusciti ("Il fuoruscito Carlo Rosselli e suo fratello Nello trovati trucidati a pugnalate in un bosco dell’Orne", in «Il Telegrafo», LX, 139, 12 giugno 1937, p. 1). Nemmeno nel dopoguerra Ansaldo riuscì a liberarsi dell’ombra di Rosselli, fonte di un costante rovello morale, tanto da riferirsi a lui in più di una circostanza: ricordando la fuga di Turati da Milano ("Quando Turati partì", in «Il Tempo di Milano», III, 240, 10 ottobre 1948, p. 3), insisteva sul ruolo del militante antifascista e sulla sua ambizione nel portare a termine l’impresa per diventare il punto di riferimento dell’opposizione in Italia; due anni più tardi avrebbe attirato su di sé le ire di Amalia Rosselli, madre dei due fratelli, in seguito alla pubblicazione di un articolo nel quale esibiva un “blasfemo” paragone tra Carlo e l’amico di gioventù Jean Luchaire, giustiziato in Francia per collaborazionismo il 22 febbraio 1946 ("I fantasmi dei Luchaire", in «Il Tempo», VII, 26, 26 gennaio 1950, p. 3, ora, con lievi modifiche, in "Il mare e l’ulivo. Racconti dalla Toscana", prefazione di Giuseppe Marcenaro, Livorno, Debatte, 2010, pp. 61-65).
45 L’antifascista riluttante, cit., pp. 119-120.
46 Oggetto di ricostruzioni numerose e non del tutto omologhe, le trattative per il ritorno alle pubblicazioni del «Lavoro» si sono ammantate di mistero soprattutto in merito alle ragioni che spinsero Mussolini a concedere il suo consenso. Sul caso si è soffermato in particolar modo Umberto Vittorio Cavassa che, in due articoli pubblicati all’inizio del 1971, ha riprodotto alcune lettere del carteggio tra Calda e Mussolini (“Caro Mussolini…”, in «Il Secolo XIX», LXXXIV, 25, 30 gennaio 1971, p. 3; "E il duce obbediva", in «Il Secolo XIX», LXXXIV, 37, 13 febbraio 1971, p. 3). Paolo Murialdi (Col «Lavoro» Mussolini disse basta soltanto alla vigilia della guerra. Testimonianze inedite sulla cessione del quotidiano genovese ai sindacati fascisti, in «Problemi dell’informazione», XVII, 1, gennaio-marzo 1992, pp. 115-133), ha spiegato l’avvenimento facendo riferimento all’«opportunità di conservare buoni rapporti con quella frangia del sindacalismo riformista che non era del tutto ostile al fascismo e ai suoi disegni corporativi» e alla «battaglia interventista del 1915» che aveva visto il giornale di Canepa schierarsi sulle posizioni del «Popolo d’Italia» (p. 115). Così invece la racconta Ansaldo: «Calda solo, con tenacia e accortezza di cui non lo avrei ritenuto capace, si accinse all’opera, nientemeno, che di far risorgere il “Lavoro”. Come addentellato, egli si valse delle sue antiche relazioni amichevoli con Mussolini, risalenti all’epoca del crimine interventista, perpetrato in comune, e del fatto che mai, in cinque anni, egli aveva assunto un atteggiamento nemico ad personam. Andò a Roma e si accordò col Rigola e coi Confederali; da questi accordi doveva uscire, ed uscì, appunto la mozione dei Confederali, portata per un giorno al posto d’onore dai giornali del regime […]. Il Calda fu ricevuto due volte da Mussolini. Una, pochi giorni dopo l’attentato. In questo colloquio, le accoglienze furono dapprima violente, quasi; però fu data la promessa di lasciar ripubblicare il giornale. Nell’inverno, il Calda si dimenò più che poté a Roma, nelle anticamere dei ministeri, da Suardo, da Bocchini, tutto pieno di una vanità ben dissimulata sotto la schiettezza “operaistica”, per essere ricevuto così in altre sedi; intanto Bordiga, a Genova, cercava di rimettere insieme un “minimum” di tipografia, per poter
riprendere. Quando? La data era ancora incerta al mio ritorno a Genova. Verso la metà di aprile, Calda fu di nuovo ricevuto. L’esordio fu questo: “Ti ho promesso che il giornale uscirà, e mantengo la promessa”. Venuta la questione del “quando”, Mussolini decretò che il giornale sarebbe uscito dopo il suo discorso alla Camera; quel discorso che fu poi detto dell’Ascensione. […] Si parlò poi del programma e dell’azione del giornale. La “linea”, quella della mozione confederale; critica, anche, ma nel sistema del regime, accettato come presupposto» (L’antifascista riluttante, cit., p. 255).
47 Rimane celebre la breve descrizione del confino che Montanelli raccolse da Ansaldo e ricordò in occasione dell’articolo dedicato alla scomparsa del collega: «Era un martirio all’italiana, il confino. Vitto e alloggio gratis, e anche un piccolo stipendio per compensarci della fatica di parlar male del duce che non ce ne lesinava i pretesti. Io mi ci sarei trovato benissimo, se non fosse stato pieno di antifascisti. Li sopportai per alcuni mesi. Poi un giorno li adunai e gli dissi che, ora che li avevo conosciuti, non mi restava che rivolgere domanda di grazia al fascismo e mettermi ai suoi ordini» (Indro Montanelli, "Ricordo di Ansaldo", in «Corriere della Sera», XCIV, 203, 2 settembre 1969, p. 3).
48 L’antifascista riluttante, cit., p. 412.
49 È importante ricordare il passaggio delle memorie nel quale si espone la storia compositiva dell’editoriale di Canepa, un testo sul quale si sarebbe basata la futura condotta politica del «Lavoro»; la linea di compromesso con il regime che vi si tracciava, da quel momento in poi sotterraneamente combattuta dal direttore, sarà invece assunta e portata alle estreme conseguenze da Ansaldo: «Appena Calda ebbe fissati i “capisaldi” col principale, prese il treno e andò a Diano; e là espose il concluso a Canepa, e gli chiese a faccia franca di stendere l’articolo programmatico. E l’altro - a faccia ancor più franca di lui - gli stese il programma, currenti calamo; non solo, ma un altro articolo sul Cinque Maggio, che anch’esso uscì sul primo numero della nuova serie. Le bozze del programma scritto da Canepa furono poi sottoposte a revisione, in altissimo loco; furono dal “revisore supremo” corrette e modificate: dimodoché il “Lavoro”, nel primo numero, faceva le contorsioni sulla corda» (L’antifascista riluttante, cit., p. 257).
50 Il Regio Decreto n. 384 del 26 febbraio 1928 conteneva le norme per l’istituzione dell’albo professionale dei giornalisti, diviso in tre ordini (professionisti, praticanti e pubblicisti): non si poteva essere iscritti qualora si fosse ricevuta una condanna penale superiore a 5 anni; in caso di condanna inferiore l’iscrizione era a discrezione del comitato (in ogni caso era vietata l’iscrizione a chiunque avesse svolto un’attività contraria agli interessi della Nazione).
51 Lando Ferretti (rubrica "Figure del giorno"), in «Il Lavoro», XXVI, 215, 9 settembre 1928, p. 3.
52 Italo Svevo (rubrica "Figure del giorno"), in «Il Lavoro», XXVI, 222, 18 settembre 1928, p. 2. L’attribuzione dell’articolo a Montale nel catalogo della mostra fiorentina curato da Marco Marchi, trovò una pronta risposta in un articolo di Giorgio Zampa, "L’anonimo genovese", in «il Giornale nuovo», VI, 35, 11 febbraio 1979, p. 4, che ristabilì la paternità di Ansaldo testimoniando un certo disappunto del poeta per il fraintendimento (sulla vicenda si veda anche t.[ullio] ci.[cciarelli], "E Montale disse quell’articolo l’avrà scritto lei", in «Il Lavoro», LXXVII, 48, 27 febbraio 1979, p. 3, dove si ripubblica anche la puntata incriminata della rubrica "Figure del giorno"). È curioso notare come un altro degli equivoci che permangono nelle vicissitudini “postume” di un rapporto mai decollato (a partire da quando, nel 1925, Ansaldo cestinò la recensione redatta da Emilio Servadio alla raccolta d’esordio del poeta genovese che pure figurava tra i collaboratori della terza pagina del «Lavoro») riguarda il "Calendarietto", siglato Stella Nera [n.d..r.: vedere simbolo in calce a presente articolo], Due ombre, in «Il Lavoro», XXIX, 110, 9 maggio 1931, p. 3 (ora in "Vecchie zie e altri mostri", cit., pp. 385-388), dedicato a Remigio Zena e Giovanni Verga: il testo, infatti, è attribuito a Montale sia nella "Bibliografia montaliana" (Milano, Mondadori, 1977) di Laura Barile, sia in "Il secondo mestiere. Prose 1920-1979", a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, t. I, dove è ristampato alle pp. 440-443.
53 Stella Nera [n.d..r.: vedere simbolo in calce a presente articolo], "L’annuncio sul mare", in «Il Lavoro», XXVI, 263, 4 novembre 1928, pp. 1-2.
Diego Divano, Bibliografia degli scritti di Giovanni Ansaldo (1913-2012), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2010/2011