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sabato 22 gennaio 2022

Mi soccorse la mia amicizia con Bruno Zevi

Milton Gendel
Figura 1. Milton Gendel, Veduta dei Fori, Roma, 1950 - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

Figura 2. Milton Gendel, Autoritratto sulla via Appia, 1950 - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

Figura 11. Dall’album di Milton Gendel, Peggy Erskine, Silvio Radiconcini, Milton Gendel e Cipriana Scelba, 1952 ca., Archivio Gendel, Roma - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

Tuttavia, come ho scritto nel primo capitolo, Gendel aveva vissuto nel clima culturale newyorkese dei primi anni ’40, e dunque la sua sensibilità visiva, nonostante fosse stata coltivata attraverso lo studio e la passione per l’arte ‘tradizionale’ - la pittura -, era comunque pervasa, anche suo malgrado, dalle influenze di cui abbiamo detto: in poche parole dalla presenza e dal ruolo fondamentale che l’immagine fotografica aveva assunto in America dall’inizio del ‘900. Perciò, nonostante nelle intenzioni l’uso della fotografia dovesse essere per lui, agli inizi del suo variegato percorso creativo, solo un sostegno per la scrittura, in realtà era già forse il suo mezzo espressivo privilegiato. L’Autoritratto sulla Appia Antica ad esempio , accattivante immagine scattata proprio nel 1950 - una sorta di ‘selfie’ ante litteram - , si può considerare un vero e proprio manifesto visivo di come Gendel pensava e agiva in quel Gendel in quest’immagine decide di autorappresentarsi come fotografo: tanto è vero che, nella sua lunga ombra che si proietta sul prato, sono visibili le braccia piegate nell’atto di reggere la macchina: naturalmente una Rolleiflex. Il mirino a ‘pozzetto’ di questo tipo di macchina fotografica obbliga il fotografo a quella precisa posizione. Inoltre, il punto di vista dello spettatore coincide con quella del fotografo che, col sole alle spalle, diventa un’ombra densa e scura. In questa coincidenza tra autore e spettatore Gendel crea una sorta di ambiguità e sceglie di rimanere anonimo, forse perché ancora non del tutto convinto della sua identità creativa. Sullo sfondo le vestigia della Roma antica. Ma non la Roma dei monumenti più celebri, bensì quella in rovina, quella dei reperti abbandonati, degli antichi fasti cancellati da secoli di incuria. Nulla di aulico dunque, una scenografia campestre spettatrice da secoli della grandezza e del declino della civiltà romana. Il paesaggio è vagamente ‘metafisico’ – ricorda quello di alcune foto siciliane70 – con rare nuvole, quasi disegnate nel cielo.
In questo contesto va inoltre ricordato l’interesse di Gendel per l’aspetto ‘documentario’ della fotografia. Gendel, da storico, era ben consapevole del continuo mutamento delle realtà urbane e sociali e dunque della necessità che la fotografia in qualche modo riuscisse a tramandare a memoria, fissando visivamente luoghi e situazioni, tutto ciò che in breve tempo avrebbe potuto scomparire per sempre, senza lasciare traccia di sé. Se non nella memoria di chi, quel mondo lo aveva vissuto.
Perciò anche se per certi versi l’atteggiamento di Gendel verso la fotografia è definibile come ‘dilettantesco’ nel senso migliore del termine, è pur vero che il suo lavoro si connotava di un carattere impegnato e serio, e si accompagnava alla sincera passione che l’artista metteva in ogni scatto. Il suo ‘occhio’ riusciva a cogliere e interpretare la realtà che lo circondava con inaspettata maestria.
[...] Ma chi era Cipriana Scelba? Figlia di Mario Scelba, Cipriana era allora presidente del Centro Studi americani di Roma, e, insieme al professor Charles Rufus Morey, (1977-1955, primo attaché culturale dell’Ambasciata Americana a Roma tra il 1945 e il ‘50 e direttore dell’American Academy in Rome) sarà una dei due principali artefici dell’introduzione di Gendel nel mondo intellettuale e artistico della capitale. La Scelba, che si prendeva cura di orientare i giovani borsisti che arrivavano dall’America, racconta in una sua ricostruzione di quegli anni:
“Le prime borse furono assegnate per l'anno accademico l949-50. A quei tempi, sia agli Italiani che agli Americani bisognava spiegare le usanze diverse dei due paesi".
E più avanti continua: “in primo luogo, questo periodo è stato quello della vera "scoperta dell'America" da parte degli Italiani e corrispondentemente della prima presa di contatto autentico da parte degli Americani con l'Italia, che fino ad allora ne conoscevano il passato artistico e culturale in genere (se universitari) o aspetti folcloristici se poco acculturati”.
Oltre ad aver costruito con intelligenza e dedizione la prima vera rete di scambi accademici tra l’Italia e gli Stati Uniti, merito della Scelba nei confronti di Gendel fu quello di avergli presentato l’architetto Bruno Zevi.
Leggiamo infatti ancora le sue parole:
“mi soccorse la mia amicizia con Bruno Zevi, laureato a Harvard con Gropius, ma ormai ristabilitosi in Italia con studio a Roma, che ben comprendeva le esigenze culturali e professionali di questi borsisti. Organizzò pertanto seminari settimanali in cui, oltre ad illustrare (in inglese, data la scarsa competenza linguistica degli interessati) le tendenze attuali dell’architettura italiana e i problemi urbanistici. stimolando, con la sua verve polemica, la partecipazione attiva dei borsisti, invitava noti architetti e urbanisti italiani a turno da tutta Italia, a presentare i loro progetti e le loro idee ai partecipanti, dedicandovi un’intera mattinata, cosa che sarebbe stata impossibile se ognuno dei borsisti si fosse recato a visitarli separatamente nei loro rispettivi studi. [sic!] Da questi contatti nacquero poi spontaneamente rapporti più stretti tra alcuni borsisti e alcuni dei professionisti incontrati al seminario.”
Zevi divenne subito un personaggio chiave nella vita del giovane e allora un po’ squattrinato Milton, fornendogli un’occasione di lavoro e dunque un valido motivo per rimanere a Roma: gli presentò l’industriale e ‘intellettuale’ Adriano Olivetti, di cui Gendel divenne consulente dal 1951.
Negli corso degli anni Zevi e Gendel, dopo i primi incontri, divennero buoni amici. Gendel, forse per migliorare il suo italiano, tradurrà in inglese il testo di Zevi Saper vedere l’architettura, presentato al pubblico americano con il titolo di Architecture as Space.
Nell’ambito di questo mio lavoro non potrò dedicare uno spazio specifico all’amicizia tra i due, ma vale la pena di ricordare comunque che alcune idee di Zevi ebbero senz’altro influenza sulla giovane mente di Gendel e contribuirono a formare la sua concezione e il suo gusto non solo nell’architettura intesa nella sua accezione di edificio, ma anche nell’invenzione e nelle soluzioni dell’organizzazione degli spazi interni.
[...] Dalle finestre dell’appartamento di via Monserrato, Gendel prese a scattare numerose fotografie (numeri d’archivio AA024 f/ab206 e f/ab207 ), sempre nella scia della sua prima fase sperimentale. Fotografie per lo più documentarie, brevi immagini, piccole scene di genere di una Roma scomparsa, istantanee degli amici che passavano a trovarlo. Foto che oggi, in ogni modo, sono diventate immagini espressive di una città e di uno stile del vivere che non esistono più.
[...] Si può senz’altro dire che Roma sia stata – tra il 1950 e il 1960 - una protagonista indiscussa del rinnovamento culturale italiano, molto più di altre città. In parte perché molti artisti e intellettuali convergevano nella capitale in cerca di più ampie possibilità di lavoro rispetto alla provincia, in parte perché numerosi stranieri e soprattutto americani non riuscivano a resistere al fascino antico e attuale insieme della città eterna.
Le ragioni di questa forza di attrazione ‘centripeta’ di Roma negli anni Cinquanta è stata indagata da molti studi e mostre, e non è questa la sede per un ulteriore approfondimento della questione.
Come Gendel costituì un punto di riferimento per gli artisti romani che guardavano con interesse all’astrattismo d’oltreoceano, così al tempo stesso lui era la persona a cui gli artisti americani che venivano a Roma, sia solo per un breve soggiorno, sia invece per rimanere più a lungo, si rivolgevano. Vediamo ora quali erano in particolare questi artisti e che rapporto ebbero con Gendel.
Oltre agli amici artisti italiani, Gendel veniva spesso contattato - ovviamente - anche dai suoi connazionali, artisti e intellettuali americani che arrivavano a Roma e cercavano degli agganci giusti nella capitale. Ironicamente Gendel li definiva ‘visiting firemen’ e molto spesso troviamo riferimenti alle loro visite nelle lettere alla madre. Oltre ai visitatori occasionali, c’erano poi quegli americani che, non potendo resistere all’attrazione verso Roma, avevano deciso di stabilirvisi. Così ad esempio, nel primissimo periodo romano, Gendel aveva ritrovato un amico newyorkese, il pittore italo-americano Conrad Marca-Relli <179 suo vicino di casa quando abitava al numero 4 di Fifth Avenue.
Marca-Relli, in origine pittore figurativo molto legato alla tradizione visiva italiana, aveva viaggiato in Italia già prima della guerra. Poi, nel 1948, dopo aver combattuto con l’esercito americano, si era stabilito a Roma e aveva preso in affitto uno studio in via Margutta, vicino a molti artisti, ma in particolare vicino ad un altro pittore italo americano, Nick Carone <180. Anche Carone era arrivato a Roma in quel giro di anni, e precisamente nel 1947, usufruendo, come Gendel, di una borsa di studio Fulbright.
In realtà Marca-Relli, avendo un temperamento piuttosto irrequieto, non rimase stabilmente nella capitale: nei ricordi di Gendel Conrad non si fermava mai a lungo da nessuna parte. In quei primi anni Cinquanta infatti Marca-Relli si divideva tra New York e Roma e lui stesso costituiva una sorta di ponte tra le due culture. Dipingeva e diffondeva tra gli artisti romani le sue idee sull’arte, - ancora in bilico tra figurazione e astrazione -, e i libri che poteva portare direttamente da New York. In quel suo pendolare tra le due capitali, di fatto Marca-Relli poteva attingere a due diversi repertori per i suoi dipinti: da un lato alla pittura figurativa del novecento italiano, dall’altra alle sperimentazioni del surrealismo astratto di Gorky e di Matta. Va ricordato infatti che la pittura di Marca-Relli, dopo un esordio figurativo debitore di certe ‘dimensioni metafisiche’, aveva preso alla fine degli anni Quaranta - direi inevitabilmente vista la situazione artistica americana - la via dell’astrazione, mutuandola da un surrealismo magico di derivazione francese e adattandola a nuove sperimentazioni formali. Le opere di questo periodo infatti, realizzate a Roma, destarono un certo interesse nel pubblico della capitale che poté vederle esposte nel 1948 e nel 1949 alla Galleria Il Cortile <181. Nella collezione di Gendel è conservata invece una piccola tela degli esordi: un paesaggio ‘sintetico’ del 1940 (fig.19), testimonianza della loro amicizia molto antica. Il paesaggio venne donato da Marca-Relli a Gendel quando ancora entrambi vivevano a New York.
Un altro artista americano che compare tra le foto di Gendel è Nicolas (detto Nick) Carone.
< 182 Carone, nato negli Stati Uniti ma evidentemente di origini italiane, decise già prima della guerra di venire a trascorrere a Roma un periodo di formazione, progetto che si realizzò per ovvie ragioni solo dopo il conflitto. Carone arrivò infatti nella capitale nel 1947 e vi rimase fino al 1951 lavorando e costruendo la propria formazione artistica attraverso l’incontro con artisti italiani e internazionali. Tuttavia, nonostante quel suo soggiorno italiano, durante il quale si era nutrito di esperienze molteplici, il suo lavoro appare oggi quasi dimenticato qui in Italia. Mi sembra perciò venuto il momento di un, sia pur breve, approfondimento della sua presenza a Roma, che ritengo possa avere un senso all’interno del mio lavoro e possa altresì andare a fornire un ulteriore tassello nella ricostruzione delle relazioni di scambio culturale tra Roma e New York. Come lui stesso racconta fu proprio a Roma, dove era arrivato sia come vincitore del Prix de Rome <183 sia con una borsa Fulbright, che comprese quale sarebbe stata la direzione futura del suo lavoro: tra i molti giovani artisti aveva infatti incontrato Sebastian Matta, che gli aprì gli occhi sulla vera natura del surrealismo, e che divenne suo grande amico.
L’artista cileno, abile e persuasivo conversatore, gli parlò a lungo e con entusiasmo di certi aspetti della poetica bretoniana - forse fino ad allora fraintesi da Carone -, e accese in lui una vera e propria passione per le scelte formali del surrealismo, per quella possibilità di ‘astrarre’ le forme dalla realtà inserendole in un contesto del tutto nuovo, un paradigma immaginario in cui fluttuavano entità ambivalenti tratte dal repertorio profondo e inesplorato della coscienza. A Roma ci fu così, per Carone, una sorta di illuminazione: nonostante egli avesse conosciuto i surrealisti a New York e avesse persino frequentato la galleria di Peggy Guggenheim, fu solo attraverso la lettura più libera e meno ortodossa del surrealismo offerta dal lavoro pittorico e dalle parole di Matta, che si aprirono per lui nuove possibilità creative ed espressive. Le influenze della personalità ‘inventiva’ - come lui stesso la definisce - , ed esuberante di Matta divennero così per Carone, dal quel momento in poi, essenziali sia nella pittura sia nella vita.
Matta in realtà si trovava a Roma un po’ per caso, essendo dovuto fuggire da New York in seguito al dramma di Gorky <184. Solo e amareggiato Matta cercava conforto e rifugio presso gli amici artisti e, alle volte, capitava che venisse ospitato nello studio di Carone, dove a lungo si intratteneva in conversazioni sulla pittura, catturando con il suo eloquio l’animo del giovane americano.
Gli anni romani furono dunque, per Carone, anni di lavoro intenso e forse tra i più creativi, come lui stesso ricorda. Ebbe anche diverse opportunità di esporre: nel 1949 alla Galleria Il Cortile, mentre l’anno prima aveva preso parte alla prima Quadriennale di Roma del dopoguerra, quella del 1948.
Nella lunga intervista riportata in appendice, il pittore italo-americano racconta inoltre di essere stato dirimpettaio di Pericle Fazzini, nello stabile di via Margutta; stabile nel quale soggiornò - durante l’estate del 1950 - anche Mark Rothko. Quell’edificio in via Margutta era di fatto luogo di vita e di incontro di molti artisti italiani e stranieri che crearono una vera e propria comunità di scambio culturale. Tanto è vero che, continuando nell’intervista, Carone racconta chi erano - dal suo punto di vista -, e cosa conoscevano dell’arte internazionale gli artisti romani di allora, naturalmente facendo riferimento ai suoi amici di via Margutta. Tutto sommato, dalle parole di Carone non appare un ritratto molto lusinghiero delle competenze dei nostri giovani artisti: davvero poco informati su quanto andava succedendo nel resto del mondo. Di fatto solo alcuni, come Dorazio e Perilli, avevano una vaga conoscenza dell’arte europea e, stando a quanto racconta Carone, lo stesso Afro prima del 1950 non conosceva nemmeno Mirò. Vera o falsa che sia questa affermazione, quello che è certo è che gli artisti romani - per le ragioni che ho espresso in precedenza - sembravano orientarsi essenzialmente verso il cubismo: guardavano soprattutto Picasso e Braque. Tralasciando altre esperienze visive come il surrealismo o l’astrattismo non-geometrico.
Probabilmente era proprio dagli artisti americani - che così numerosi sceglievano di venire nella loro città - che i giovani pittori italiani si aspettavano notizie e aggiornamenti su quanto stava avvenendo dall’altra parte dell’oceano. Soprattutto allora, quando cioè gli Stati Uniti stavano diventando, senza più nessun ostacolo, uno dei paesi leader del mondo anche nella cultura visiva. Scavalcando, come abbiamo già visto, Parigi e la Francia.
Si può affermare infine che, forse in modo del tutto inaspettato, oltre alla frequentazione degli artisti italiani, fu proprio a Roma che Carone si avvicinò con maggiore interesse anche agli artisti americani presenti nella capitale. Divenne amico di Marca-Relli, incontrò Mark Rothko (in viaggio a Roma per la luna di miele) e frequentò Philip Guston, in particolare. L’amicizia con questi artisti si traformò anche in affinità di intenti poetici e di esiti formali, tanto che, quando Carone tornò a New York nel 1951 partecipò con molti di loro alla leggendaria “Ninth Street Exhibition” (21 maggio -10 giugno 1951) organizzata da Leo Castelli nella Stable Gallery di Eleanor Ward: situata in un edificio in demolizione sulla Ninth Street per l’appunto. La mostra è divenuta celebre nella storia dell’arte perché considerata una sorta di spartiacque nella situazione artistica newyorkese dei primi anni Cinquanta. Una mostra che contribuì alla nascita della nuova avanguardia americana.
Un altro artista americano presente a Roma alla fine degli anni Quaranta era Philip Guston. Sappiamo infatti che Philip Guston soggiornò a Roma tra il 1948 e il 1949 come fellow - cioè vincitore del Rome Prize - dell’American Academy: all’epoca Guston era ancora un pittore figurativo e in Italia veniva soprattutto per guardare i maestri del passato. Il suo interesse per l’arte figurativa arrivava però anche al presente: Guston infatti era affascinato dalla pittura di Giorgio De Chirico, per il quale aveva una sorta di venerazione. Guston poi aveva conosciuto Marca-Relli in America durante i progetti realizzati per il WPA (Work Projects Administration) dal 1935 al ’39, ed è facile supporre perciò che, una volta a Roma l’ ‘amico Conrad’, lo coinvolgesse nelle sue frequentazioni e forse anche nelle sue convinzioni sulla pittura <185. Ospite dell’American Academy dal 1946 al 1949 era anche Salvatore Scarpitta, un pittore italo-americano che ricercava il suo linguaggio espressivo nelle forme astratte, e che era amico di molti artisti italiani.
[...] Se è vero che quegli anni furono fondanti per la costruzione di una pittura ‘esclusivamente’ americana, in grado di competere con la grande tradizione della pittura europea, tuttavia l’atmosfera che si respirava a New York non era priva di freddezza e di forti competizioni tra gli artisti. Per i protagonisti di quei momenti, il lato umano dei rapporti, delle relazioni sociali, e la facilità della vita bohèmien, cominciava a sgretolarsi, in favore del successo economico e della notorietà personale, successo che non a tutti arrideva. Ecco dunque perché Roma, come ho già scritto, poteva diventare attraente.
Altri protagonisti del mondo dell’arte internazionale passavano spesso per la ‘città eterna’ e vi soggiornavano: tra di loro il pittore americano Ad Reinhardt che vi trascorse alcuni giorni nell’agosto del 1957. Così scrive Milton alla madre “In the usual influx of summer visitors, Martin James and Ad Reinhardt were included. They brought me and some cigarettes, and we had dinner together in Piazza Navona <190. Ancora il poeta e mercante d’arte Stanley Moss, di cui farò cenno anche nei prossimi capitoli. Non ultimo il vecchio amico di Gendel a New York Friedrich Kiesler, lungamente citato in una lettera del 1 giugno 1961.
Per concludere ricordo anche la presenza del celeberrimo storico dell’arte e poeta inglese Sir Herbert Read <191, grande frequentatore di Roma , di cui Gendel fa un delizioso ritratto in un’altra lettera alla madre del 20 aprile 1955.
Herbert Read era anche molto amico di un’altra grande amica di Gendel: Peggy Guggenheim.
A lei e al suo rapporto con Gendel è dedicato il prossimo paragrafo.
 
Figura 19. Conrad Marca-Relli, Paesaggio, 1940 ca. - collezione Gendel, Roma - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

Figura 20. Nick Carone, Senza titolo 1948 - olio su lino - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

Figura 21. Milton Gendel, Gabriel Kohn, Nick Carone, Jean Purcell 1950 - qui ripresa da Barbara Drudi, Op. cit. infra

[NOTE]
179 Conrad Marca-Relli (1913-2000). Per un approfondimento sulla vita e il lavoro di Marca-Relli vedi: catalogo mostra Conrad Marca Relli, Rotonda di via Besana, Bruno Alfieri Editore Milano 2008
180 Cfr. intervista a Nick Carone in Appendice
181 Cfr. David Anfam, Conrad Marca-Relli, Bruno Alfieri Editore, Milano (USA Antique Collectors's Club), 2008
182 Nicolas Carone (1917-2010). Per notizie complete su Carone vedi il sito web : http://www.nicolascaroneestate.org/
183 Carone aveva ottenuto il premio nel 1941 ma non poté venire a Roma a causa della guerra in “ Oral history interview with Nicholas Carone, 1968 May 11-17 - Oral Histories | Archives of American Art, Smithsonian Institution”. La parte della lunga intervista a Nick Carone che riguarda i suoi rapporti con gli artisti romani è riportata in Appendice.
184 Matta era stato grande amico di Gorky e per certi aspetti aveva influito sul suo modo di dipingere. Quando Gorky si suicidò nel 1948, di quel suicidio venne incolpato Matta, che aveva una relazione con sua moglie. Matta divenato così improvvisamente inviso alla comunità artistica newyorkse, si rifugiò in Italia. Ciononostante la pittura dei due artisti rimane indissolubilmente legata, per intenti e per esisti Così aveva scritto Emilio Villa si Matta nel 1961: “ Da New York nel 1948, venne in Italia. Come alone, portava con sé i frutti del suo misterioso, stupendo sodalizio con Gorky; voci di tumulti biografici, di vicissitudini e di ambienti a noi ignoti, e, una volta noti, rivelatori di vite già emblematiche; e, infine, un fantasma carico di ideografie estasiate, cocenti, pronto a offrire e accogliere stimolazioni egermi. Fu il mio primo incontro con la pittura americana, alla radice proprio; e un trasalimento”, in Emilio Villa, op.cit., 1970, p.37
185 Vedi catalogo mostra Philip Guston Roma, Museo Bilotti, Hatje Cantz Verlag, 2010
190 Da una lettera alla madre 12 agosto 1957, Archivio Gendel, Roma
191 Sir Herbert Read (1893-1968)
 

Barbara Drudi
, Milton Gendel. Un fotografo, critico d’arte e scrittore tra avanguardia e tradizione (1949-1962), Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, 2014