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mercoledì 19 gennaio 2022

A nessuno si può chiedere di essere Gramsci o Ginzburg

Fonte: Wikipedia

Toccò a Gentile, naturalmente, dirigere l’Istituto Nazionale Fascista di Cultura, il quale mostrò una notevole pervasività, aprendo sedi distaccate, inglobando istituzioni preesistenti, mobilitando energie in sede locale: professori di università e delle scuole, giornalisti e collaboratori di giornali, cultori di “storia patria”, eruditi, artisti, letterati, urbanisti e architetti, studenti universitari... Sta qui, probabilmente, l’inizio di una politica della cultura, che trovò altri strumenti, quali l’Enciclopedia Italiana e la Reale Accademia d’Italia: se quest’ultima fu un museo delle cere e una fiera della vanità (con l’aggravante della chiusura dell’antichissima Accademia dei Lincei, assorbita nella “RAI”), l’Enciclopedia fu opera di valore. In alcuni ambienti del PNF si nutrivano sospetti vero Gentile giudicato troppo “liberale”; tuttavia, il ruolo del filosofo serviva anche a tenere a freno l’estremismo fascista; ma v’è chi (per esempio Norberto Bobbio) ha giudicato corruttrice l’opera di Gentile, anche a cagione di questa politica del doppio binario, la quale si riassume nella frase latina: parcere subiectis, debellare superbos. Grazie a tale politica, nel suo insieme la classe dei colti cedé alle lusinghe di un regime che la metteva in pace con la «nazione», facendola sentire centro motore di una nuova idealità, elemento propulsivo della “Terza Roma” (la Roma dei Fasci, che seguiva a quella dei Papi e prima quella degli Imperatori) senza perciò turbare la sua coscienza, e assicurandole nel contempo lavoro - spesso di provenienza pubblica -, onori (“visibilità”, si direbbe oggi), denaro, potere.
L’Enciclopedia Italiana è esempio emblematico, della politica culturale del fascismo, a livello alto (esiste poi una politica della cultura a livello “popolare”). Per i numerosissimi (circa 450, considerando che i professori ufficiali erano poco più di 1200) collaboratori dell’opera si trattava di un lavoro remunerato, e di grande prestigio; il direttore Gentile apparentemente non imponeva vincoli o limiti politici; ma di fatto attraverso quella collaborazione riuscì a catturare il meglio dell’intellettualità italiana, a partire dalla generazione più giovane, quella nata nel primo decennio del secolo. Anche coloro che nel 1925, quando partì l’impresa, o nel 1929, quando apparve il 1° volume, non erano iscritti al PNF, nel 1937, quando fu pubblicato l’ultimo volume, il 35°, si erano piegati tutti. Del resto, per la gran parte dei collaboratori, quel lavoro, anche quando ci si rendeva conto che poteva essere utilizzato a fini di edificazione di consenso al regime, era considerato in termini tecnici, che veniva svolto disinteressatamente, da uomini che si dichiaravano fedeli solo al culto del sapere, devoti sacerdoti della dea Scienza.
Occorre poi ricordare che il progetto dell’Enciclopedia, tra gli anni Venti e Trenta, fu un momento significativo di un’accorta politica di pacificazione con la Chiesa e il mondo cattolico, che il fascismo, sotto la guida dello stesso Duce, avviò all’indomani della Marcia su Roma, e che sfociò nei Patti Lateranensi e nel Concordato del 1929. Si deve non sottovalutare il peso del condizionamento clericale (e specificamente del Vaticano) sulla vita culturale italiana; proprio dal mondo cattolico provengono taluni tra i più notevoli protagonisti del periodo, a cominciare dal gesuita padre Tacchi Venturi, che fu, a partire da un certo momento, una specie di condirettore-ombra dell’Enciclopedia, accanto a Gentile; ma altri eminenti figure svolsero un ruolo di raccordo tra regime e Vaticano, tra culture del fascismo e dottrina cattolica: come padre Rosa, l’influente direttore della «Civiltà Cattolica»; oppure padre Gemelli, al quale si deve l’Università milanese Cattolica del Sacro Cuore; o, infine, don Giuseppe De Luca, fra i più lucidi costruttori di un progetto volto a riportare il pensiero cattolico in posizione di centralità, dopo la sua parziale emarginazione nell’Italia liberale.
Pur con i cedimenti ai quali fu obbligato verso la cultura ufficiale della Chiesa cattolica, e malgrado le contestazioni che regolarmente subì da parte degli ambienti del fascismo intransigente (che lo accusava di eccessivo liberalismo), Gentile si assunse fino in fondo il ruolo di “filosofo del regime”, rimanendo accanto al Duce, anche dopo l’alleanza dell’Italia con la Germania e ancora dopo il primo crollo del regime e la nascita della Repubblica Sociale Italiana, fino alla morte, giunta nell’aprile ’44, per mano di un Gruppo di azione partigiana a Firenze.
Fu ancora Giovanni Gentile il promotore o il regista di altre numerosissime istituzioni settoriali quali la Scuola di Storia moderna e contemporanea, assorbita poi dall’Istituto Storico italiano per l’Età moderna e contemporanea, la Giunta Centrale degli Studi Storici, l’Istituto di Studi sulla Politica Internazionale (ISPI), l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, l’Istituto di Studi Romani, il Centro Studi Manzoniani, l’Istituto nazionale di alta matematica (INDAM), l’Istituto nazionale della Nutrizione; ancora Gentile fu l’artefice della riorganizzazione della gloriosa e decaduta Scuola Normale Superiore di Pisa, o della nascita e proliferazione delle facoltà e dei corsi di laurea in Scienze Politiche.
Accanto ad enti preposti alla promozione del lavoro scientifico, artistico, letterario, il regime mussoliniano favorì la nascita o la rinascita di istituzioni adibite alla comunicazione e all’intrattenimento di massa, e non trascurò l’arte, benché senza che mai Mussolini cadesse nella trappola dell’arte di regime, a differenza della Russia di Stalin e della Germania di Hitler. Ed ecco istituzioni quali l’Istituto Luce, l’Eiar, l’Opera Nazionale Dopolavoro, i Littoriali (prima dello Sport, poi anche dell’Arte e della Cultura), la Biennale di Venezia, la Triennale di Milano, la Quadriennale di Roma, Cinecittà, i diversi Premi artistico-letterari - dal letterario Bagutta alla coppia antagonista in campo artistico Cremona-Bergamo, legato l’uno al ras estremista Farinacci, l’altro al “moderato” Bottai, portatori di opposte politiche e dunque l’un contro l’altro armato -, le Fiere del Libro, il Carro di Tespi (per la diffusione del teatro)... Tutto ciò contribuì alla standardizzazione del lavoro culturale, mentre creava o perfezionava nuove professioni intellettuali, alle quali le strutture sindacali fungevano da sponda, svolgendo il ruolo di centri di collocamento di «manodopera intellettuale». I sindacati artisti, architetti, musicisti, scrittori, ingegneri, furono strutture per procacciare lavoro agli aderenti, ma nel contempo strumenti di organizzazione del consenso, tra i loro membri, e insieme di costruzione del consenso di un pubblico via via più largo, di ceti medi e anche popolari.
Un insieme di imprese, di politiche, di situazioni e di persone che prefigura, nel bene e nel male, un lascito importante per il post-fascismo, ma altresì definisce il piano integrato di governi che fanno politica culturale.
Oltre a Gentile, in questa vicenda protagonista assoluto, numerosi altri contribuirono a costruire un rapporto inedito tra ceti intellettuali e governo: il politico-intellettuale, Giuseppe Bottai (futurista, poi ardito di guerra, poi dannunziano, poi mussoliniano, poi fascista “revisionista”…); Gioacchino Volpe, che ebbe un ruolo essenziale nella riorganizzazione degli studi storici; Alfredo Rocco, il giurista ed economista lucido teorico del nazionalismo integrale, l’autentico «architetto» (non in senso proprio, ma metaforico) del regime fascista, il giurista inventore delle «leggi fascistissime» del 1926, l’autore (da solo o con il fratello Arturo) dei codici penali e di procedura, il responsabile primo dello Stato corporativo.
E poi quanti altri nomi degni di attenzione, nelle diverse sfere dell’azione culturale: Ugo Ojetti, Margherita Sarfatti, Luigi Pirandello, Curzio Malaparte, Ardengo Soffici, Massimo Bontempelli, Giovanni Papini, Filippo Tommaso Marinetti, Leo Longanesi, Mino Maccari, Arrigo Benedetti, Emilio Cecchi, Pier Maria Bardi, Cipriano Efisio Oppo, Giuseppe Pagano, Gio Ponti, Marcello Piacentini, Lionello Venturi, Edoardo Persico, Mario Sironi, Ottorino Respighi, Alfredo Casella, Luigi Russolo, tutta la scuola di fisici detta dei “ragazzi di via Panisperna” (tra i quali giganteggia Enrico Fermi) e via seguitando…: tutti uomini (anche tutti maschi! La Sarfatti fu l’eccezione femminile, una figura di straordinario interesse) che al di là del campo specifico (architettura, arti visive, letteratura, musica, critica, scienze dure), svolsero assai sovente il ruolo di intellettuali nel senso più complessivo, di organizzatori, di stimolatori di dibattiti, che in non pochi casi, ove sopravvissuti, avrebbero proseguito, nell’Italia democratica e repubblicana, il loro lavoro, talvolta persino da comunisti militanti. Altri, come Pagano e Persico (che in questo Convegno avrebbero meritato attenzione), morirono prima, altri come Venturi, emigrarono, in quanto antifascisti (divenuti tali), ma riuscirono a dare un contributo significativo anche sul piano dell’organizzazione culturale; o più tardi personaggi eminenti quali lo scienziato Enrico Fermi e lo storico Arnaldo Momigliano, entrambi iscritti al PNF, che divennero antifascisti solo dopo essere stati costretti all’esilio dalle leggi razziali del ’38 (leggi che, nel caso di Fermi, colpirono sua moglie ebrea).
Grazie al contributo di costoro (e di tanti altri) sotto il regime fascista si raggiunsero risultati significativi nella cultura. Importante fu anche il ruolo degli intellettuali minori, alcuni dei quali ho studiato io stesso: letterati, giornalisti, accademici, artisti, scienziati sociali, organizzatori che si impegnarono nell’elaborazione o nella gestione culturale nei diversi ambiti.
[...] La politica della cultura, dalla seconda metà degli anni Trenta, si trasformò, in un clima di progressivo indurimento del regime fascista, in mera politica della propaganda. Nel 1937 - l’anno in cui il regime portava a morte Gramsci in prigione e uccideva i fratelli Rosselli in Francia, nel pieno della Guerra di Spagna, nella quale fu decisiva la partecipazione dell’Italia fascista a sostegno dei generali autori dell’"alzamiento" contro la Repubblica - la nascita del Ministero della Cultura Popolare (chiamato dagli italiani spregiativamente MinCulPop), fu il punto d’arrivo di un processo avviato fin dal 1923, con l’Ufficio Stampa, poi Sottosegretariato presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, destinato a diventare ministero della Stampa e Propaganda e infine appunto MinCulPop.
Il fascismo, sino a quel momento soprattutto promotore e organizzatore, aveva imboccato la strada della creazione di cultura a tutti i livelli: accanto alla cultura alta (alla quale si concedeva un notevole margine di libertà, specialmente in certi settori), occorreva una pedagogia di massa, era indispensabile “formare” gli italiani, con l’azione ai livelli inferiori, dalla piccola e infima borghesia, fino ai ceti contadini e operai.
La pervasività dello Stato-partito, la riduzione degli spazi privati, la gestione del tempo libero, la militarizzazione della società, il cesarismo (con il suo carattere poliziesco come intanto l’aveva descritto e analizzato Antonio Gramsci in prigione: dunque non solo militare in senso stretto) costituiscono lo sfondo entro cui si colloca il sogno della “cultura fascista”, funzionale alla creazione dell’“italiano di Mussolini”, per citare il titolo di un romanzo dell’epoca.
Questi giovani, alcuni destinati all’antifascismo, anche alla lotta armata, cercavano spazi di espressione, luoghi d’esercizio del futuro mestiere.
I Littoriali (prima dello Sport, poi della Cultura e dell’Arte, infine anche del Lavoro) ebbero successo per tali ragioni, ma furono anche, almeno in parte, un cavallo di Troia per il regime, perché la socializzazione spontanea non sempre sortiva fini omogenei rispetto a quelli preventivati dai gerarchi in fez e orbace, anche se nel sovente vantato criptoantifascismo dei partecipanti ai Littoriali come degli iscritti ai Guf c’è più autoapologia di una generazione, che verità fattuale. Il che non toglie, appunto, che lo stesso ritrovarsi insieme, fornendo occasione di dibattito, porti lentamente taluni dei giovani in camicia nera a porsi degli interrogativi, che finirono in non pochi casi per dar corpo a dei dubbi.
Anche guardando specificamente agli “intellettuali in formazione”, il regime seppe incanalare a proprio favore le spinte ideali, le tensioni rinnovatrici e talora persino rivoluzionarie di fasce cospicue di gioventù, trasformandole in innocue critiche “dall’interno” (nelle quali comunque erano sempre fatti salvi il Duce e la “rivoluzione delle camicie nere”, con il suo preteso eroismo, anzi contrapposta al denunciato processo di “imborghesimento”): la “fronda” non si trasformò, se non in casi sporadici, in opposizione.
La fame di luoghi di aggregazione nei nati nel primo quindicennio del secolo, è uno degli elementi che definiscono il nostro tema; il mito giovanilistico, unitamente all’ideologia del privilegio dell’intelligenza, trovano un eccellente sostrato nella voglia d’emergere di una nuova generazione di uomini delle lettere scienze ed arti. Le case editrici, le gallerie d’arte, le riviste, i quotidiani, le università, le istituzioni culturali create dal regime costituiscono i banchi di prova di una intellettualità che raggiunse, nella maggior parte dei casi, la sua maturità piena dopo il ’45. Per costoro - che avvertivano una notevole solidarietà, oltre che generazionale, di ceto, per così dire, trasversale come la precedente - non contava tanto l’antitesi fascismo/antifascismo; ma piuttosto, all’interno del rissoso e mutevole organigramma fascista, la scelta del gerarca di riferimento; e, come una documentazione archivistica ormai sovrabbondante dimostra, erano tutti clientes in cerca di protettore. Tutti erano comunque disposti a scommettere sul Duce, la sua capacità taumaturgica, e da lui si sentivano in qualche modo garantiti e protetti. In ogni caso, con motivazioni diverse, gli intellettuali diventavano in tal senso tutti funzionari di uno Stato che si era fatto imprenditore di cultura, in prima persona o indirettamente.
Esiste poi una notevole varietà di casi nei quali la cultura fungeva da scudo protettivo nei confronti del mondo. Si tratta non tanto degli «afascisti», quanto di coloro che davvero volevano starsene in disparte: studiosi, letterati, scienziati, quelli che dalla vita civile non volevano lasciarsi contaminare. Banalizzando, e sbagliando, ci si chiedeva fino a qualche tempo fa se fosse più autenticamente fascista Maccari, e il suo irriverente (e «moderno» per tanti aspetti) «Selvaggio», che benché sovvenzionato dal Fascio, ebbe frequenti noie con l’autorità; o un letterato modernizzatore, intellettuale di grande levatura, creatore e organizzatore, come Massimo Bontempelli, e i suoi «Quaderni di ’900».
[...] Tutto si può capire, e non è compito dello storico assolvere o condannare, ma nulla deve nascondere, tutto contestualizzare, cercare di comprendere, ma non rinunciando a un giudizio etico prima ancora che politico. Così fece appunto Leone Ginzburg, nel 1933, con un articolo Viatico ai nuovi fascisti pubblicato a Parigi nei “Quaderni di Giustizia e Libertà”, nello stesso anno in cui dava vita alla casa editrice dello Struzzo, con gli amici Giulio Einaudi e Cesare Pavese, e aveva già chiara la sua scelta antifascista. Traendo spunto dall’offensiva del regime, il quale stava imponendo in determinati settori l’iscrizione al Partito, a coloro che stavano per prendere la tessera del PNF Ginzburg con un atteggiamento non di ripulsa, ma di pietà, metteva in luce che costoro erano innanzi tutto degli infelici, dei vinti, che «si vergognano di questa irreggimentazione forzata», e dunque non è il caso di «avvilirli di più». Tutti, tranne «certi intellettuali» di cui egli sottolineava «il cinismo». «Per molti giovani l’iscrizione, avvenuta o prossima, comunque praticamente inevitabile, è stato il primo compromesso con la propria coscienza, e sarà il primo rimorso». Pur rivendicando la propria diversità, egli continuava: «noi, che abbiamo scelto vie più difficili, e cerchiamo di lavorare per tutti», dichiarava il diritto, che è anche un dovere, di «manifestare l’immensa pietà di loro» e, soprattutto, di «soccorrerli».
Fra quei giovani che, per debolezza o per necessità, avevano dato la loro adesione al fascismo, Ginzburg pensava di sicuro ad alcuni amici: Bobbio, già tesserato del PNF, fin dal 1928, o Pavese, che pencolava e finì per cadere nella trappola fascista, iscrivendosi al Fasci solo sperando gli servisse a non avere “grane”, ma che però più tardi, nei primi anni Quaranta affidava alle pagine di un diario segreto, parole di imbarazzante ammirazione per i tedeschi, mentre copriva di ingiurie i suoi connazionali italiani.
Incertezze e oscillazioni, sottovalutazione dei gesti «formali» (una tessera, un giuramento, la partecipazione alle “adunate in camicia nera” con tanto di distintivo del Partito posto in evidenza, una lettera di encomio ai potenti o una supplica al «Capo»…), caratterizzano del resto molti dei giovani che gravitavano intorno a Leone, i quali, ben diversamente da lui, privilegiarono il proprio genio di letterati, artisti, la carriera di studiosi, o intesero il mestiere intellettuale nei termini di un sapere tecnico che tutt’al più andava difeso dalle intrusioni della politica, nella convinzione che a salvarsi l’anima bastasse andare per la propria strada, magari fingendo che il fascismo non esistesse; oppure ritenendo di riuscire a «fare» i fascisti senza essere fascisti. Ma - avvertiva Ginzburg - «La maschera, quando è portata a lungo, non vuol più staccarsi dal volto».
[...] A nessuno si può chiedere di essere Gramsci o Ginzburg. Ma questo non può diventare un alibi per un silenzio complice o vile. C’è sempre modo di salvare almeno la dignità, sacrificando magari la genialità, secondo un aureo motto di Piero Gobetti. Purtroppo si tratta di un insegnamento che anche nella blasonata Torino intellettuale fra le due guerre, abbiamo visto troppo spesso negletto, e che oggi, chi osasse proporlo verrebbe addirittura deriso. La storia non ci insegna dunque nulla? O forse, per citare un’ultima volta Antonio Gramsci, essa ci insegna ma «non ha scolari».
Angelo d’Orsi (Università degli Studi di Torino), Il fascino discreto del potere. Gli intellettuali a Torino (e oltre), tra le due guerre, in Italia: design, politica e democrazia nel XX secolo - Atti del IV Convegno AIS/Design Associazione Italiana Storici del Design - Torino, Salone d’Onore Castello del Valentino 28-29 giugno 2019 - (a cura di) Elena Dellapiana (Politecnico di Torino), Luciana Gunetti (Politecnico di Milano), Dario Scodeller (Università degli Studi di Ferrara) - Politecnico di Torino, 2020

Il richiamo agli anni del fascismo, valido in generale per la vicenda degli intellettuali, mi sembra ancora più calzante nel caso delle istituzioni culturali. Le quali, sia quelle preesistenti sottoposte al processo di fascistizzazione sia quelle create ex novo tra gli anni Venti e Trenta, furono toccate in profondità dalla politica culturale del regime, diventando canali privilegiati di coinvolgimento di una folta schiera di intellettuali, seppure con esiti controversi.
Proprio alla luce della contaminazione tra istituzioni, intellettuali, potere politico si rivelano esemplari i percorsi attraverso cui alcune di quelle strutture transitarono nel nuovo contesto dell’Italia democratica, dopo essere state parte integrante della mobilitazione a supporto della guerra fascista. Il mio è uno sguardo selettivo : mi soffermo su alcune istituzioni dedicate agli studi storici, che tra il 1933 e il 1935 furono investite da una riforma in cui le finalità di controllo e di centralizzazione si saldavano a un’esigenza di modernizzazione della ricerca. All’impulso di intellettuali quali Giovanni Gentile, Gioacchino Volpe, Francesco Ercole, Pietro Fedele, si aggiunse, e da una posizione di forza, la presenza di Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, quadrumviro della marcia su Roma ed esponente di primo piano del fascismo monarchico e cattolico. Al vertice della nuova piramide istituzionale fu insediata la Giunta centrale per gli studi storici, presieduta da De Vecchi, alla quale spettava il coordinamento dei quattro ‘regi’ istituti nazionali : l’Istituto per la storia antica, quello per la storia del medioevo, l’Istituto per la storia moderna e contemporanea (cui afferiva la celebre scuola romana diretta da Volpe) e infine l’Istituto per la storia del Risorgimento italiano. Quest’ultimo, presieduto anch’esso da De Vecchi, accorpava le funzioni di supervisione sui musei del Risorgimento, un’altra tipologia istituzionale che merita attenzione per cogliere alcuni aspetti degli anni della transizione <3.
Nella fase in cui l’Italia fascista fu impegnata quasi senza soluzione di continuità sul fronte militare, dal 1935 al 1943, si affermò un evidente spostamento della ricerca sulle tematiche che respiravano l’aria di un presente alquanto agitato. La forza persuasiva del regime, in assenza di un’ingerenza esplicita nel pretendere l’allineamento degli studiosi alle scelte politiche, va colta piuttosto nella capacità di incanalare le ricerche dentro recinti tematici ben definiti : documenti diplomatici, politica estera, colonialismo, ruolo dell’Italia nello spazio geopolitico europeo e mediterraneo qualificarono il lavoro delle istituzioni fino agli anni della guerra mondiale.
In modo particolare, fu a ridosso dell’intervento italiano nel conflitto che il coinvolgimento degli intellettuali nelle istituzioni culturali del regime si fece più intenso, come emerge dall’attività dell’Ispi4 e dell’Istituto di cultura fascista. Quest’ultimo, presieduto da Camillo Pellizzi, sviluppò un’azione mirata a compiti di divulgazione e di propaganda, potendo contare sulla miriade di sedi locali e su una fitta attività editoriale, tra cui spiccavano i « Quaderni di cultura politica » <5. Anche per questo motivo, ha scritto Gabriele Turi, « l’apparato istituzionale orchestrato dal fascismo, con le sue imperfezioni e le sue dissonanze, è il dato da cui occorre partire per cogliere caratteri e peculiarità del periodo bellico » e per riflettere «sulle eventuali modificazioni degli orizzonti culturali o dei modi di pensare prodotti dalla guerra» <6.
Nel campo degli studi storici crebbero le pubblicazioni dedicate al cosiddetto ‘irredentismo fascista’ (dalla Corsica a Nizza, da Malta a Tunisi), funzionali alla polemica antifrancese e allo smantellamento del mito della « sorella latina » <7. Molti di quei lavori, cui fornirono l’avallo studiosi autorevoli come Ettore Rota, assecondavano la tesi del ‘Risorgimento mediterraneo’. Forzando la concezione classica del Risorgimento, inteso come processo che aveva portato all’unificazione territoriale dell’Italia e inglobato Trento e Trieste con l’« ultima guerra dell’indipendenza », quell’interpretazione riduceva l’unità statale a risultato intermedio di una meta più ambiziosa, a trampolino di lancio di una politica di espansione e di potenza <8.
La prospettiva entro la quale si collocavano i problemi del presente spostava radicalmente i termini della questione, sia in senso politico sia in senso storiografico. Le dimensioni assunte dalla guerra disegnavano un quadro « ormai troppo vasto e complesso per esser ricompreso dentro le tradizionali coordinate fornite dai principi del nazionalismo » <9. Era una tesi che echeggiava a più riprese negli interventi su « Primato » di Carlo Morandi, uno dei più affermati studiosi (insieme con Federico Chabod e Walter Maturi) usciti dalla Scuola di storia moderna e contemporanea diretta da Volpe. Morandi avrebbe preso atto del fallimento del progetto fascista, tornando a guardare al Risorgimento nel 1943 da posizioni che valorizzavano le tesi di Croce e Salvatorelli. Ma nei primi tempi del conflitto i suoi scritti erano fitti di richiami a « un diverso ordine », a una « maggiore e più rispettata gerarchia tra i grandi Stati », evocavano l’« istanza rivoluzionaria » alla luce degli « interessi spirituali nuovi, tipici del tempo nostro », « dell’affermarsi rivoluzionario di una comunità d’idee e di popoli » <10.
Per chi operava all’interno delle istituzioni del Risorgimento, una prospettiva di questo tipo non poteva essere accolta senza riserve. De Vecchi aveva concepito l’Istituto come lo strumento di una doppia operazione, che era insieme politica e storiografica. Da un lato si trattava di tutelare l’interpretazione ‘continuista’ della storia d’Italia, ma secondo una visione che, rispetto alle tesi più articolate di un Volpe e di un Gentile, trasferiva sul Risorgimento i caratteri di un nazionalismo autoctono e sabaudofascista ; dall’altro lato, l’obiettivo era di incoraggiare un indirizzo metodologico fondato sulla centralità del documento d’archivio quale garanzia di oggettività scientifica. L’assorbimento dell’ottica nazionale nella dimensione imperiale dell’Italia fascista poteva favorire consonanze sotto il profilo dell’analisi politica : ma meno scontata era l’accettazione delle implicazioni che quello spostamento, relegando l’orizzonte risorgimentale in secondo piano, produceva sul piano del giudizio storiografico. La tesi del ‘Risorgimento mediterraneo’ rappresentò così un punto di possibile mediazione. La ricerca dello spazio vitale nell’area mediterranea, si legge in un editoriale di « Critica fascista » del 1940, era l’espressione di « un moto di giustizia e di liberazione, il coronamento vero del Risorgimento », « l’ultima guerra per la libertà del popolo italiano » e per « la libertà e l’indipendenza del suo Impero » <11.
Gli eventi dell’estate 1943 misero fine a questa lettura, che non resse al crollo del regime. Dopo l’8 settembre, gli istituti storici furono trasferiti formalmente nel nord Italia sotto la nuova Repubblica sociale. Ma nessuno dei precedenti protagonisti svolse un ruolo attivo, paragonabile a quello esercitato negli anni Trenta. Pietro Fedele era scomparso il 9 gennaio 1943 <12. Gentile, nominato presidente dell’Accademia d’Italia dal governo di Salò, fu ucciso da un commando partigiano nell’aprile 1944, dopo aver consumato l’ultima parte della sua vita nell’improba operazione di conciliazione nazionale <13. Francesco Ercole, anch’egli passato nelle file di Salò, morì il 18 maggio 1945 <14. De Vecchi, condannato a morte in contumacia dalla RSI in quanto firmatario della mozione Grandi del 25 luglio, riparò in luogo sicuro sotto la protezione dei salesiani <15. Volpe restò appartato nella sua casa di S. Arcangelo di Romagna <16. Di fatto, quasi tutti gli studiosi che negli anni Trenta avevano costituito una comunità di lavoro e tessuto una rete di intense relazioni personali furono travolti dal turbine della guerra : impegnati a scrivere, a partecipare all’azione (si pensi a Chabod e al suo ruolo nella Resistenza valdostana) <17, ad attendere l’esito degli eventi, osservando talora con sofferta lucidità l’agonia del paese.
Poco sappiamo del funzionamento delle istituzioni culturali nei mesi della guerra civile, anche perché la loro attività subì un netto ridimensionamento, sfociando in una sostanziale paralisi organizzativa <18. Nel caso delle istituzioni storiche, il dato più importante, all’indomani della liberazione di Roma, fu il provvedimento con cui, il 31 ottobre 1944, il ministro dell’Istruzione Guido De Ruggiero nominò commissario straordinario Gaetano De Sanctis, al quale fu affidata anche la presidenza dell’Enciclopedia Italiana. E toccò proprio al celebre antichista, che era stato tra i dodici docenti universitari a rifiutare il giuramento del 1931 <19, il compito di gestire la delicata fase della transizione postfascista.
[NOTE]
3 Su questi aspetti, rinvio al mio Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista, Roma-Torino, Carocci, 2006.
4 Sull’Ispi, si vedano A. Montenegro, Politica estera e organizzazione del consenso. Note sull’Istituto per gli studi di politica internazionale, « Studi storici », XIX, 4, 1978, pp. 777-817 ; E. Decleva, Politica estera, storia, propaganda : l’Ispi di Milano e la Francia, « Storia contemporanea », XIII, 3, 1982, pp. 697-758 ; V. Galimi, Culture fasciste et droit à la guerre. L’Istituto per gli studi di politica internazionale dans les années trente, « Mil neuf cent », XXIII, 1, 2005, pp. 167-182.
5 G. Longo, L’Istituto nazionale fascista di cultura. Da Giovanni Gentile a Camillo Pellizzi (1925-1943). Gli intellettuali tra partito e regime, Roma, Pellicani, 2000.
6 G. Turi, Intellettuali e istituzioni culturali nell’Italia in guerra 1940-1943, in L’Italia in guerra 1940-1943, a cura di B. Micheletti e P. P. Poggio, « Annali della Fondazione Luigi Micheletti », V, 1990-1991, p. 815.
7 A. De Francesco, Mito e storiografia della « grande rivoluzione ». La Rivoluzione francese nella cultura politica italiana del ’900, Napoli, Guida, 2006.
8 Tra le teorizzazioni sul tema, cfr. C. Curcio, Ideali mediterranei nel Risorgimento, Roma, Urbinati, 1941. Per ulteriori esempi, vedi M. Baioni, Risorgimento in camicia nera, cit.
9 P. G. Zunino, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia : le origini dell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 123.
10 C. Morandi, Questa guerra e il Risorgimento, « Primato », II, 7, 1941, p. 2. Su Morandi cfr. G. Santomassimo, Gli storici italiani negli anni della guerra. Il caso Morandi e « Primato », in L’Italia in guerra. 1940-1943, cit., pp. 827-844 ; M. Carrattieri, Tra le due sponde. La cultura fiorentina, l’Italia in guerra, la crisi del fascismo. Materiali per una biografia intellettuale di Carlo Morandi, « Storiografia », X, 2006.
11 Guerra di liberazione, « Critica Fascista », I, 14, 1940, pp. 226-227.
12 Cfr. la voce di F. M. Biscione in Dizionario biografico degli italiani, vol. XLV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1995.
13 Cfr. G. Turi, Sorvegliare e premiare. L’Accademia d’Italia, in Università e accademie negli anni del fascismo e del nazismo, a cura di P. G. Zunino, Firenze, Olschki, 2008, pp. 317-318.
14 Cfr. la voce di L. Lo Bianco, in Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. XLIII, 1993, pp. 132-134 ; V. Ziliotto, Stato etico, risorgimento e fascismo nel pensiero di uno storico nazionalista : Francesco Ercole, « Il Risorgimento », LIII, 2, 2001, pp. 5-61.
15 Cfr. la voce di E. Santarelli, in Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. XXXIX, 2, 1991, pp. 522-531.
16 Molta documentazione privata è riportata in E. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2004 ; Id., La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, Firenze, Le Lettere, 2008. Cfr. anche Gioacchino Volpe e Walter Maturi : lettere 1926-1961, a cura di P. G. Zunino, « Annali della Fondazione Luigi Einaudi », XXXIX, 2005, pp. 245-326.
17 S. Soave, Federico Chabod politico, Bologna, Il Mulino, 1989. Ma si veda ora M. Angelini, Fare storia. Culture e pratiche della ricerca in Italia da Gioacchino Volpe a Federico Chabod, Roma, Carocci, 2012.
18 Cfr. Le biblioteche e gli archivi durante la seconda guerra mondiale. Il caso italiano, a cura di A. Capaccioni, A. Paoli e R. Ranieri, Bologna, Pendagron, 2007.
19 La nomina è riportata in « Rassegna storica del Risorgimento », XXXI-XXXIV, fasc. unico, 1944-1946, p. 256. Su De Sanctis, cfr. H. Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, Milano, La Nuova Italia, 2000, pp. 62-75 ; P. Treves, De Sanctis Gaetano, in Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. XXXIX, 1991, pp. 297-309.
Massimo Baioni, «Istituzioni e musei storici tra fascismo, guerra, Repubblica», Laboratoire italien, 12 - 2012